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Un uomo solo al comando. Conto terzi

Stefano Fassina si è dimesso da viceministro dell’economia, Pierluigi Bersani è stato ricoverato in ospedale per una emorragia cerebrale, la rottamazione del Pd volge in tragedia.

Fassina ha preso cappello per l’evidente dileggio di cui l’ha fatto oggetto Matteo Renzi, provando a rovesciare sul neosegretario l’immagine – non esaltante – del padroncino tamarro. Gioco non complicato, visto che l’omino di Firenze rientra alla perfezione nella cornice (basta leggersi il ritratto di fuoco che ne ha fatto Francesco Merlo, sulla Repubblica di domenica 5 gennaio). Ma sterile. Non mancherà a nessuno, perché della sua azione come “ala sinistra” del governo non è pervenuta traccia.

Ancor più delle sue dimissioni, è il malore di Bersani che diventa di fatto l’icona di una caduta che non è affatto generazionale, ma tutta e solo politica. Il ghigno trionfante di tanti “fascisti da tastiera” che in rete gli hanno augurato la morte ha colto – nel modo becero che è loro proprio – esattamente questo dato. Chi come noi ha lottato contro tutti i governi da lui abitati o appoggiati non ha davvero bisogno di scadere nell’insulto nel momento della ferita.

Si tratta di capire bene che cosa è definitivamente finito in questi primi giorni dell’anno.

Dobbiamo in qualche modo “ringraziare” Renzi e il suo stile “alla Previti” di prendere possesso del partito, eliminando tutti gli avversari interni e azzerando l’impressione – ormai soltanto quella – che il Pd in qualche misura sia ancora una formazione “di sinistra”. Ha nominato una segreteria di giovani inesperti a tutto – persino sull’indirizzo stradale dei ministeri e relative competenze, come accaduto alla Madia – in modo da non dover contrattare nulla con nessuno, da non avere soggetti in grado di offuscarne la leadership. Ha lasciato a Cuperlo un incarico onorifico, gesto irrisorio soprattutto nel paese in cui una presidenza non si nega a nessuno.

Sappiamo già abbastanza dei suoi programmi economico-sociali – l’unico terreno su cui, anche cercando di vender fumo, si è lasciato sfuggire qualcosa di concreto – che riceverà in dono direttamente da Pietro Ichino e dal ricambiato sponsor personale, Oscar Farinetti. Ma avremo presto modo di misurarne la radicalità di destra tra pochi giorni, alla presentazione del “job act”.

Il suo arrivo sul ponte di comando del Pd coincide con la distruzione di ciò che restava dell’aspetto e della sostanza di un partito, l’ultimo rimasto sulla scena. Il suo rivendicare un mandato dalle “primarie e non dalle correnti” è però indicativo di una logica radicalmente devastante l’idea stessa di “corpi intermedi” – tra cittadini e Stato – incarnata dalla Costituzione. Renzi è il terminale attivo di un progetto di sradicamento totale della “politica” dal corpo sociale, dai suoi interessi compositi o addirittura conflittuali. È il tipo di “politico” al tempo del governo della Troika: indifferente a forme e sostenza, sensibile solo agli input dall’alto (“dai mercati”), privo di qualsiasi autonomia progettuale, intercambiabile, usa-e-getta e consapevole di esserlo. La sua “fretta” è un’ammissione di precarietà, dietro di lui già premono altri androidi disponibili a sostituirlo a un costo ancora più basso.

La liquefazione del Pd è stata compiuta nello stesso momento in cui è stata accettata l’idea che la scelta del “segretario” fosse affidata a “primarie aperte”. Come se la presenza di vari “partiti” – ognuno “una parte”, un’idea di società, un progetto di riforma o conservazione – non avesse più senso. O come se il presidente della Juve o della Roma potesse esser scelto dai tifosi di qualsiasi altra squadra e viceversa.

Palese, insomma, il tentativo di tramutare “la politica” in un gioco plebiscitario che si ferma alla scelta del “capo”. Tanto il programma di governo è già scritto altrove (chi ricorda più il “pilota automatico” citato da Mario Draghi?), e lo sarà – secondo il progetto – per sempre.

Se, dunque, la politica scompare insieme al relativo “corpo intermedio” (i partiti, che in Italia non esistono già più nella forma lasciataci dagli ultimi due secoli), resta ancora qualcosa da sradicare per completare questa separazione tra “stanze dei bottoncini” teleguidate dalla Troika e popolazione residente su un determinato territorio: il sindacato. Non perché Cgil-Cisl-Uil rappresentino degli ostacoli all’attuazione di qualsiasi politica economica decisa a Bruxelles, figuriamoci! Ma per una ragione più radicale: nel progetto di società delineato dalle politiche Ue non deve esistere neppure l’impressione che il mondo del lavoro dipendente – con qualsiasi modalità contrattuale – abbia alcun “diritto costituzionale” a costruire una propria rappresentanza collettiva. Non si tratta insomma di “piegare” chi è già piegato, ma di eliminare la possibilità che presto o tardi sorga una rappresentanza “con la schiena dritta”. Senza paradosso, è una constatazione che riguarda in prospettiva – ma non troppo – più il sindacalismo conflittuale che quello “complice”.

Questa è la “riforma strutturale” più radicale che viene “suggerita” in modo sempre meno criptico da ogni “direttiva” allegata ai vari trattati interni all’eurozona. Susanna Camusso ha cominciato solo ora a sentire una forte puzza di bruciato, Maurizio Landini ha provato per l’ultima volta “la mossa del cavallo”, l’unica tattica che abbia appreso alla scuola di formazione del Pci. Una sorta di “virus del compromesso storico” che lo induce a cercare il patto con l’avversario strategico – Renzi in questo caso, la Dc negli anni ’70, la “svolta della Bolognina” dopo la caduta del muro – una volta constatato il proprio isolamento nel ceto politico-sindacale cui è interno. Dovremo tornarci, perché è un punto-chiave della “cultura di sinistra” italiana, matrice di tutte le sconfitte patite in quaranta anni.

Per quanto riguarda il movimento antagonista, dunque, non si tratta davvero di stare a guardare sghignazzando la fine ingloriosa degli ex-Pci, ma di entrare in campo con lucida determinazione. Subito. Occupando le piazze, contestando ovunque gli uomini del “potere europeo”, come già episodicamente avviene in tanti angoli d’Italia. La partita non è chiusa, ma si tratta di giocarla davvero.

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2 Commenti


  • Franco 296

    Ottima analisi!!!


  • Marco Sbandi

    supomopane (ha effettuato l’accesso tramite yahoo)
    Renzi, un nuovo paggetto per la Confindustria.
    Dopo gli omaggi dei precedenti segretari del partito alla Confindustria,
    con le innumerevoli repliche della truffa del patto tra produttori
    che sistematicamente riduce i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori,
    è arrivato il turno del segretario più giovane e più a destra,
    con l ennesimo attacco allo statuto e all’art.18
    con il solito pretesto (falso) di aumentare le possibilità di lavoro per i giovani.
    Ad ogni generazione vengono ridotte le pensioni e ridotti i diritti
    in modo da avvicinarsi all’ideale lavorativo della confindustria:
    lavoro pagato da operai e operaie oltre che sacrifici di tempo, fatica e salute

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