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Il piccolo führer della Leopolda

L’Italicus è esploso nella galleria più buia della politica italiana. Quarant’anni dopo, la logica piduista si afferma pienamente come regola autoritaria che stravolge consapevolmente e in modo mirato la Costituzione, il suo equilibrio di poteri, il carattere democratico-borghese e antifascista delle istituzioni derivanti.

Non è un refuso. L’Italicum di Matteo Renzi – il nick assegnato giornalisticamente, ma subito accettato dal diretto interessato, al disegno di legge elettorale pattuito non a caso con Berlusconi – è solo la punta emergente del modello di “riforme istituzionali” partorito nella shortlist dei “suggeritori” del sindaco di Firenze in materie costituzionali. Così come il jobs act – per quanto ancora ignoto nell’articolato – ne è il corrispettivo sul piano delle relazioni industriali e del mercato del lavoro.

Del resto, si potrebbe dire, la Costituzione del ’47 “è fondata sul lavoro”. Se quest’ ultimo diventa materia liquida, senza diritti né rappresentanza autentica, a disposizione di ogni imprenditore-schiavista, allora non ha neppure senso che questa Costituzione permanga come “regola del modo di fare le regole”.

Sulla legge elettorale il discorso è esplicito. A pochi giorni da una sentenza della Corte Costituzionale che abbatteva il “porcellum” calderoliano cassandone i due princìpi-cardine – premio di maggioranza “abnorme” e liste bloccate senza preferenze – Renzi e Berlusconi hanno concordato un testo che ripropone in pratica soltanto questi due princìpi, rivestendoli con panni appena un poco differenti.

Anche lo scopo è quasi dichiarato: limitare a soltanto due i “partiti” che si contendono il governo, eliminando ogni traccia di interessi, pensieri, culture differenti. Le soglie di sbarramento (si veda la critica di Franco Ragusa e Franco Russo) sono elevate a un punto tale da impedire per sempre la nascita di altre formazioni “competitive”, a meno di collassi subitanei e imprevisti.

Soglie che dovrebbero sconsigliare dal persistere nell’errore tutti coloro che “a sinistra” sono da vent’anni abituati a concepire “la politica alternativa” come un detersivo da vendere in campagna elettorale. Non esiste nemmeno la possibilità teorica di un “ritorno nelle istituzioni” tramite la noiosa, inutile, ripetitiva, ignobile, rincorsa di un “listone-minestrone” privo di radicamento sociale. Soltanto formazioni politico-sociali capaci di raccogliere sul piano ideale ed organizzativo la necessità sociale di far pesare interessi opposti a quelli “ammessi” al gioco elettoralistico potrebbero – per apparente paradosso – raggiungere le dimensioni minime indispensabili per concorrere antagonisticamente contro il “sistema dei partiti”. Ma non è affatto detto che le regole resterebbero queste, nel momento in cui una forza simile dovesse manifestarsi nel paese come potenzialmente egemone.

Ma altrettanto esplicite – anche ancora allo stato di nebulosa – sono le altre “riforme istituzionali”. Del resto le “segreterine” – le giovani rampantissime scelte da Renzi per propagare-difendere in tv il suo verbo, applicando il know how “dialogico” imposto da complici e “veline” berlusconiane (ripetizione ossessiva delle stesse frasi, interruzione sistematica del dirimpettaio, ecc) – non fanno mistero di mettere il valore dell’efficienza davanti a ogni altro. Anche a quello della democrazia, dei suoi equilibri spesso faticosi. Non fanno insomma mistero della volontà di bandire la mediazione – anche in politica, come già Marchionne ha imposto sul piano delle relazioni sindacali – tra visioni, quindi interessi, quindi figure sociali, differenti.

Ma un conflitto senza mediazione è un passo avanti in direzione della guerra. Che può essere evitata solo grazie a una concentrazione di forza tale da soffocare le insorgenze, impedendone la diffusione. Questo intento traspare non solo dalla annunciata controriforma del Titolo V della Costituzione, ma dalle pratiche governative stesse messe in atto – ad esempio – contro il movimento No Tav (tramite la contestazione del reato di “terrorismo” contro qualsiasi tipo di azione contrastante la realizzazione di una qualsiasi opera decisa dal governo).

Ma traspare soprattutto dalle modalità in cui Renzi è stato assunto nel modesto olimpo della politica nazionale. Le “primarie aperte”, infatti, sono il contrario del meccanismo “partecipativo”. È bastato il 70% di tre milioni di persone (quindi appena un paio o giù di lì), senza alcuna differenza tra iscritti a un partito o suoi fierissimi avversari, per proiettare l’ologramma di un “piccolo führer” ultra-decisionista. Uno che concorda le proposte con “il nemico” e poi le impone ai “suoi” senza ammetterne la discussione (quel “prendere o lasciare” è il vero segno “filosofico” di questo piccolo ex democristiano allevato tra le logge). Uno che rompe con il passato per quel poco di buono che rappresentava, mantenendone soltanto l’immenso negativo (il potere di classe, le priorità del capitale finanziario, il dispotismo sul mondo “dipendente”, con o senza occupazione).

Un autentico reazionario, insomma, che impone la conservazione del potere in forme “rivoluzionarie”. In effetti, “Uòlter” era troppo amebico per svolgere davvero il ruolo del “nuovo che avanza”…

Non è un führer destinato a durare un ventennio. È un ariete incaricato di demolire quel poco che c’è, imprintando nuovi assetti istituzionali più aderenti alla “lotta di classe dall’alto”, nel nuovo mondo continentale disegnato dalle politiche – e dalle istituzioni, ovvero dai trattati – dell’Unione Europea, della Bce, del Fmi.

Un führer di transizione, insomma. Un apripista per chi ancora deve emergere dagli spogliatoi.

Non si tratta di assistere impotenti, ma di occupare campo e contrastare. Chiaramente, non più “autorappresentandosi”, ogni pulcino per conto suo.

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