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Le ipoteche del Jobs Act

Alla Camera si comincia a discutere dell’approvazione del Jobs Act del governo Renzi. O meglio si discute della sua prima parte: il decreto legge sui contratti a termine e l’apprendistato. Il resto dei provvedimenti – che si richiamano in molti punti all’inganno della flexsecurity di ispirazione europea – verranno via via discussi attraverso un disegno di legge. Curiosamente, proprio ieri, alla vigilia dell’arrivo in aula e nonostante fosse giorno festivo, sono stati resi noti i dati dell’Istat sul quasi milione e mezzo di famiglie senza alcun reddito da lavoro. Come a voler dire che anche le soluzioni peggiori diventano le meno peggio dentro una situazione sociale drammatica.

Il decreto presenta aspetti ingestibili dal punto di vista normativo, oltre che morale. Sono infatti al di sotto della stessa normativa europea sui contratti a termine. I giuristi democratici hanno già impugnato il provvedimento davanti alle sedi legali europee. In Commissione Lavoro il decreto ha subito delle modifiche osteggiate dalla destra (vedi Sacconi per il Ncd o Scelta Civica di Ichino). Si apre dunque la partita che farà la differenza e depositerà il “marchio”– sul piano di classe – sull’esecutivo di Renzi.

I provvedimenti contro i costi e i lacciuoli della politica (Senato, Province, burocrati di Stato, auto blu etc.) sono stati il polverone che adesso comincia a diradarsi, lasciando intravedere la sostanza delle scelte strategiche.

Ma il connubio tra i provvedimenti contro la “politica” e quelli contro “la rigidità del mercato del lavoro” è parte decisiva del paradigma su cui le classi dominanti stanno ridefinendo la civiltà capitalista. Fino a ieri hanno agito ideologicamente su un assioma: democrazia e libero mercato sono indissolubili e l’uno alimenta la forza dell’altro, reciprocamente.

Su questo – oltre che su una gigantesca ristrutturazione/destrutturazione dell’economia mondiale – hanno prima vinto la sfida della guerra globale con l’Urss esportando il modello a livello globale e poi hanno travolto le resistenze politiche, sindacali, culturali delle classi subalterne nei paesi capitalisti tradizionali, quelli occidentali.

Ma il ripresentarsi della crisi sistemica – del loro sistema – e la competizione globale che è subentrata alla globalizzazione hanno messo le classi dominanti di fronte a delle contraddizioni ben individuate già a metà dagli anni ’70 ma irrisolte. Ad esempio quella della democrazia.

Lo spiega molto bene l’Economist di marzo in un ampio servizio dedicato a “C’era una volta la democrazia”. Le classi dominanti hanno verificato che il modello cinese – ritenuto autoritario e centralista – produce crescita economica anche senza essere democratico, almeno nell’accezione occidentale, rompendo così un monopolio ideologico della crescita.

La democrazia dunque non è più considerata “connaturata” al capitalismo. Se ne può fare a meno e ottenere lo stesso buoni risultati, soprattutto in una fase di contrazione asimmetrica delle risorse, dei mercati e dei consumi. La condizio sine qua non è però la totale subalternità delle classi lavoratrici e la loro riduzione a semplice fattore di costo, una delle tante variabili del sistema produttivo.

In secondo luogo, si va imponendo il modello mercantilista – al quale Renzi fa esplicito riferimento – che basa la crescita economica su due fattori in qualche modo “esogeni”: la primazia delle industrie per l’esportazione e l’attrazione di investimenti esteri nel paese.

Ciò significa che combattere la depressione del mercato interno (sul piano dei consumi, dei salari, degli investimenti) non è affatto una priorità, perchè quest’ultima ridiede nei mercati esteri. Ma per imporsi all’estero occorre ridurre i fattori di costo ed essere “competitivi”. Quindi i lavoratori devono costare poco, contare poco, lavorare molto ed essere ultra-flessibili sulla base delle esigenze delle imprese.

Questa condizione è la stessa che viene giocata per attrarre investimenti esteri. Le varie grandi o piccole multinazionali straniere devono trovare un ambiente accogliente, favorevole, senza grossi intralci sindacali, legali e ambientali. Non proprio il sistema delle maquiladoras o delle “zone franche”, ma il criterio ispiratore è quello. I paesi Piigs dell’Europa sembrano quelli destinati a sperimentare questa nuova condizione dentro il polo imperialista europeo. La stessa democrazia rappresentativa costituisce un intralcio da rimuovere, sia sul piano politico che su quello sindacale.

Il Jobs Act di Renzi è dunque l’ariete per creare questa condizione. Per questa ragione si muove sul doppio binario delle controriforme costituzionali in politica e delle controriforme costituzionali sul diritto del lavoro. Il plebiscitarismo mediatico e la demagogia a tempo determinato sugli “80 euro” spianano la strada al lavoro sporco. Se i lavoratori devono diventare una variabile del tutto dipendente del capitale e le aree metropolitane delle semplici caserme dell’esercito industriale di riserva, a cosa serve – se non a complicare le cose – una democrazia ancora rappresentativa? Meglio la governance di pochi e l’autoritarismo “democratico” sui molti.

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