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Sotto il regime niente

Sorpresa, sorpresa… Il regime ha basi sociali fragili, instabili, non strutturate. I ballottaggi per le amministrative ci consegnano un quadro per metà complicato, per metà chiarissimo.

Lo scollamento tra società e “politica”, persino nella forma di prossimità più vicina (le comunali), si approfondisce in modo drastico: ha votato questa volta meno della metà degli aventi diritto. Su questo non c’è trucco né inganno possibile.

Chi ha votato, invece, lo ha fatto quasi dappertutto nel segno del “cambiamento”. Naturalmente bisogna usare questo concetto nei termini superficiali e stupidi che gli ha consegnato la cultura politica dominante: semplicemente alcune facce al posto di altre. Senza attribuire a questa sostituzione alcun valore salvifico, rinnovativo o speranzoso. Semplicemente una punizione per chi è percepito come “casta” per aver occupato poltrone più o meno a lungo. Punizione estesa anche ai “nuovi” candidati di partiti che però avevano tenuto a lungo la maggioranza in sede locale.

Il crollo di roccaforti storiche della ex “sinistra” – ora divenuta regime “democristiano americanizzato” – non si spiega nemmeno con le improvvisate dicotomie dei renziani più inossidabili. Sono saltati vecchi tromboni che aspiravano all’eternità amministrativa (Livorno, prima di tutto) e giovani virgulti esplosi con le primarie (Perugia, per capirsi). Segno che in quelle città il Pd è vissuto come il problema, non come la soluzione.

Ma lo stesso discorso si può fare per alcune roccaforti di destra, consegnate al Pd grazie allo stesso sentimento di “esaurimento” della tolleranza per i vecchi equilibri. Meglio un “signor nessuno” probabilmente incapace che i soliti frequentatori delle poltrone comunali.

Mai come in questo caso, inoltre, ha funzionato quel meccanismo “vendicativo” – per chi a votare ci è comunque andato – per cui era più importante “dare la spallata” agli assetti di potere locali che non imporre una soluzione a tutto tondo, pienamente condivisa, politicamente connotata in modo univoco. Livorno, in questo senso, è un caso da laboratorio. Per tutti “stroncare il Pd” era l’obiettivo decisivo. Quel che avverrà dopo, con una sindaco “grillino” appoggiato da “ultrasinistra” e associazioni territoriali “no qualcosa” in difesa dei beni comuni, è tutto da vedere; ma almeno è un altro gioco, non una partita truccata fin dall’ingresso in campo. Una partita da cui si può imparare qualcosa di nuovo e magari replicabile.

Già finito, dunque, l’”effetto Renzi” esploso alle europee? A noi sembra evidente piuttosto una dinamica molto diversa. A livello dell’”immaginario politico” – quello che si è giocato nelle elezioni per il parlamento europeo e si potrebbe giocare anche in eventuali elezioni politiche – la potenza di comunicazione del regime riesce abbastanza agevolmente a occupare tutto lo spazio, anche per completa assenza di alternative credibili. Non è più un’alternativa il centrodestra, non può esserlo la Lega. Lo è solo nella fantasia più ingenua il Movimento 5 Stelle, fermo al “tutti a casa” ma percepito come oscuramente inadeguato al compito della “rigenerazione” del sistema. A questo livello, infatti, la discriminante fondamentale resta il rapporto con l’Unione Europea – non con “l’Europa”. Tutte le ipotesi politiche che si propongono di “riformarla” – eliminandone le asperità “austere” – sono facilmente inglobate e sussunte dalla comunicazione renziana, che per un verso agita lo straccio degli 80 euro perché “diciamo basta all’austerità” e per l’altro erode i redditi con infinite misure sottotraccia perché “bisogna rispettare i patti europei”.

Ma nella politica territoriale questo livello “immaginifico” non entra, né ha soluzioni valide da proporre. È come se la società reale fosse di fatto abbandonata e costretta ad arrabattarsi, demolendo e ricomponendo pezzi di rappresentanza politica locale, sperimentando variazioni sul tema senza poter deviare rispetto alle conseguenze micidiali delle scelte continentali e nazionali, peraltro sottratte a qualsiasi controllo democratico.

È insomma come se la società reale non avesse ancora metabolizzato questa separazione drastica tra ciò che viene deciso “in alto” (a Roma o piuttosto a Bruxelles) e quel che si può fare qui e ora. E, non avendolo metabilizzato, si muove per ondate che abbattono piccoli argini locali, nella speranza di trovare anche per caso una “quadra” più rispondente ai bisogni – quelli “piccoli ma concreti” – che si possono affrontare territorialmente.

Ne vien fuori una foto piuttosto impietosa. Il regime “in alto” si rafforza allontanandosi dai condizionamenti della società reale, e predispone i recinti (le enclosures) entro cui far correre le greggi prive di prospettiva. Ma sui territori questa forza non si trasforma più in radici. Renzi e chi lo muove – così come prima di lui Monti, Letta, lo stesso Berlusconi – agiscono per eliminare ogni residuo di funzione positiva dei “corpi intermedi” tra società e Stato. Anche perché lo Stato, a questo punto, non più quello con capitale a Roma e cervello a palazzo Chigi. Lo Stato che prende le decisioni vere si chiama Unione Europea e non c’è modo – “dal basso” – di far arrivare lì le proprie istanze in forma istituzionalizzata (questo era il ruolo dei “corpi intermedi”, ovvero partiti e sindacati).

Il regime che si va consolidando, quindi, è volutamente privo di “radici”. Deve rispondere ad altri bisogni, quelli del capitale finanziario e delle imprese multinazionali. Ma i territori, dal punto di vista della coesione sociale, diventano terra di nessuno.

È un salto epocale ed un segnale interessante per chi declina le relazioni sociali sulla base del conflitto, ma che cambia anche le dinamiche nel momento stesso in cui ne moltiplica occasioni, ragioni, radicalità.

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