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Ideologia e forza, senza mediatori

Renzi lo aveva promesso appena un paio di giorni prima: sarò violento. Chi pensava che scherzasse si deve ricredere. O almeno prendere atto che siamo in presenza – da tre anni a questa parte, ma con più velocità da quando il guitto di Pontassieve siede a palazzo Chigi – di un cambio di regime in molti sensi “epocale”.

La violenza discende dalle cose, ovvero dalla gravità irrimediabile della crisi economica – specialmente per un paese con le nostre caratteristiche – e dalla precarietà assoluta della “nuova classe dirigente”. Un pugno di uomini e donne selezionato con il metodo del casting (tanto quanto il parterre berlusconiano), rapidamente formato a sparare poche frasi sempre uguali (“lo facciamo per gli italiani”, “ci interessiamo dei precari”, “non facciamo ideologia, ma cose concrete”, ecc), consapevole di essere stato messo su quella poltrona per un miracolo del caso. E altrettanto consapevole che la propria stagione da prima pagina durerà poco. Altri già sono in seduta di formazione per sostituirli, tanto non serve sapere granché. Il copione verrà loro consegnato giorno per giorno, le “cose da fare” vengono scritte a Bruxelles, Francoforte e Washington. Qui si esegue e basta. Violentemente e rapidamente.

Lo ha ammesso lo stesso Renzi, in pieno psicodramma della direzione Pd, indicando ai vecchi tromboni ex Pci la porta di uscita definitiva dalle poltrone importanti: “se questo programma non lo realizziamo noi, verrà la Troika a farlo”. Tutto il residuo problema della “politica” nazionale è dunque individuare chi lo fa, non che cosa fare. Renzi è stato scelto, per ora. Perché anche a Bruxelles sanno benissimo che un governo troppo facilmente individuabile come “della Troika” richiamerebbe su di sé troppa opposizione sociale e politica; mentre un esecutivo capace di captare per qualche tempo “consenso” può silenziare più facilmente le varie reazioni (da quelle popolari fino a quelle della “casta perenne”).

Il cambiamento è violento. Sempre. Implica gente che perde molto, a volte tutto: diritti, posto di lavoro, certezze, salario, patrimonio, vita. Significa che qualcuno vince altrettanto molto, guadagnando in ricchezze, patrimonio, status, potere sugli altri.

Il cambiamento rivoluzionario porta i molti al posto di comando, li libera dallo sfruttamento, consegna certezze in termini da casa, reddito, vita, vecchiaia, salute, ruolo sociale. E toglie a pochi ricchezza, patrimoni, potere decisionale, ruolo, centralità. In qualche caso anche la vita.

Anche il cambiamento reazionario è violento. Ma dall’alto, dalle logge dei pochi che sparano sulla folla quaggiù in basso, dove tutti siamo indistinguibili come formiche che vagano in ogni direzione.

Non è banale però vedere come questo procedere da carro armato funziona, di quali strumenti si serve. E che si riducono soltanto a due: ideologia e forza.

La “comunicazione” renziana è un concentrato di ideologia liberista sapientemente condito in maniere plebee (deve captare “consenso”) e concentrato sui capisaldi del modello sociale in via di demolizione: lavoro, Costituzione, welfare, poteri, corpi intermedi, democrazia. Su ogni punto si va a una concentrazione di potere dall’alto, in nome ora del “risparmio” ora dell’”efficienza”, raggrumando in un solo discorso “coerente” le vulgate populistiche e l’ideologia aziendale.

Nessun argomento che usa è minimamente vero. È bastato un D’Alema ancora memore di studi giovanili per smontarli uno alla volta.

Inutilmente. Perché la logica con cui questa banda di “ggiòvani” governanti viene guidata è puramente militare. Non esiste alcuna possibilità di “confronto” sulle proposte, i programmi, i diversi interessi sociali. L’ideologia stabilisce l’indirizzo, la tattica serve solo a confondere gli occasionali “resistenti” interni, le decisioni sono prese prima ancora di cominciare. Poi parte la carica…

Ideologia per addormentare e spaventare i molti, sballottati tra un presente infame e promesse mirabolanti; forza per imporre quanto deciso a una platea di traffichini della politica, cresciuti e formati in “tempi di pace”, quelli del “consociativismo” che non negava a nessun soggetto politico-sociale – nemmeno ai centri sociali più radicali – il diritto a un’esistenza (in proporzione) confortevole.

Paradossalmente, l’eliminazione (quasi) definitiva della “vecchia guardia ex Pci” rischia di avere un effetto (moderatamente) positivo. Viene infatti troncato quel cordone ombelicale, tutto ideologico e per nulla confermato dagli atti politici, per cui chi veniva da quella storia era in fondo “un compagno”, “un progressista”, con cui la mediazione andava cercata sempre e comunque. Specie in vista di una tornata elettorale.

Quel piccolo mondo antico è finito. La mediazione – sociale e politica – non abita più qui. E un conflitto condotto dall’alto con tempi e modalità tutte “ideologico-militari” non può essere affrontato con le vecchie abitudini, anche quelle più “radicali”. Lo spiazzamento sconcertato con cui i Landini, le Camusso, i D’Alema e i Bersani stanno subendo l’iniziativa renziana è totalmente identico a quello che percorre vaste aree della “sinistra radicale” e del cosiddetto antagonismo. Tutti a cercare la via per ripristinare le condizioni precedenti, a ricercare un “punto di equilibrio” con chi è stato mandato per distruggere i vecchi equilibri.

Non si possono fare “cartelli elettorali” che mantengano un legame con il “sistema Pd” perché quello è l’avversario principale.

Non si può più far finta di “assediare” il potere con piccoli cortei e una composizione sociale raffazzonata.

Non si può più giocare ognuno per conto proprio davanti a un esercito nemico che si muove come tale, usando ideologia e forza bruta.

Non si può più “scadenzare” il conflitto sui propri tempi, perché la partita si gioca finché è almeno formalmente aperta.

Dopo è un’altra fase.

 

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