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Il Nuovo Partito Democratico del futuro

La settimana che sconvolse il (piccolo) mondo dei rapporti tra politica e sindacato.

Il 24 ottobre lo sciopero generale indetto dai sindacati di base, riuscito ben al di là delle attese, a dimostrazione di una tensione forte e antigovernativa tra i lavoratori italiani, nonostante il silenzio dei mass media.

Il 25 la manifestazione nazionale della Cgil, “un milione di persone” a Roma, convocata cercando di tenere basso il livello di conflittualità con il governo (una manifestazione “pesa” decisamente meno di uno sciopero generale), ma esplosa in piazza contro Renzi e la sua banda, il jobs act e in generale le sue politiche. Una rottura esplicita rispetto ai “consensi” vantati dal premier.

Il 26 il “me ne frego” del premier-segretario del (nuovo) Partito Democratico, dalla Leopolda, che equipara il sindacato e le tutele del lavoro al telefono a gettoni; “rottami sui binari” da buttar via il più rapidamente possibile per far ripartire il “treno della crescita”.

Il 27 e 28 attraversato da botte e risposte (verbali) tra la segretaria della Cgil e alcuni pitbull renziani, con accuse di “messo lì dai poteri forti” e “eletta con tessere false” che volano come manganellate metaforiche.

Il 29 dalle parole si passa ai fatti. Le botte –  nella versione delle manganellate della polizia – diventano fisiche, le distribuisce la polizia su sindacalisti Fiom e operai Ast di Terni, venuti a Roma per sventare la minaccia di 550 licenziamenti e il ridimensionamento dello stabilimento.

Una settimana che segna il passaggio d’epoca, non un episodio scappato di mano. Lo andiamo ripetendo da mesi: i governi diretti dalla Troika (da Monti in poi, solo indirettamente quelli precedenti) non hanno più lo spazio finanziario per la mediazione sociale. Quindi debbono anche “ideologicamente” abolirla. Così come debbono smantellare i corpi intermedi (sindacati e partiti) che per 70 anni hanno interpretato bene o male il ruolo dei mediatori, accogliendo e stemperando interessi sociali, slanci di ribellione, bisogni vitali, ambizioni di emancipazione.

Renzi lo dice in modo chiaro, supportato sfacciatamente da ogni media padronale; lui per primo ha acceso lo scontro indicando il sindacato – la Cgil, soprattutto, per dimensioni, storia, “base sociale” della sinistra riformista – come un nemico da demolire. Molte delle misure economiche pensate per “tagliare i viveri” alle organizzazioni sindacali (dal dimezzamento dei distacchi e dei permessi fino alla riduzione dei fondi per patronati e Caf) erano addirittura “popolari”, giocate in chiave di sforbiciata alle “spese inutili” per una casta quasi indistinguibile da quella politica. La chiave del successo in questa offensiva l’aveva in qualche modo anticipata lui stesso: “tratto con gli operai, non con i sindacati”. Ovvero attacco ai vertici con un uso strumentale degli argomenti (quasi sempre rispondenti alla realtà) tipici delle critiche da sinistra al sindacato (acquiescenza con padroni e governi, disinteresse per il precariato, avallo dato alle peggiori operazioni di divisione del mondo del lavoro, ecc) per facilitare un’identificazione della base col “rottamatore”, colui che “sta facendo qualcosa di nuovo”. Salvo entrare nel merito e scoprire che “il nuovo” è un ritorno alla giungla ottocentesca…

Ma le cariche su operai e sindacalisti lo hanno zittito. Il gioco della comunicazione si è improvvisamente spezzato. Non può essere un “premier operaio” quello che manda la polizia a manganellare gli operai, trattandoli come i centri sociali, i No Tav o i black bloc (quelli si possono bastonare senza tanto scompiglio…).

Non ci interessa qui stabilire – non abbiamo “fonti” a palazzo Chigi o al Viminale – se l’ordine di caricare sia venuto da Renzi stesso o dal solito Angelino Alfano. Le due ipotesi sono una peggiore dell’altra. Sta di fatto che è stato creato un clima politico e ideologico in cui caricare e pestare gli operai e addirittura i sindacalisti “concertativi” è diventato legittimo, possibile, fattibile. Chi conosce anche superficialmente la geografia interna ai sindacati, sa bene che la Fiom dell’Ast non è neppure “landiniana”, ma addirittura camussiana. Alcuni dei feriti sono pacifici funzionari che in vita loro hanno trattato qualsiasi accordo – in genere pessimi – senza battere ciglio.

“Il futuro è solo l’inizio”. Lo slogan della Leopolda è diventato carne e sangue nelle vie di Roma, ieri mattina.

Chi si illudeva – sia tra i tranquilli funzionari sindacali come nella sinistra antagonista – che i governi della Troika fossero solo una “blindatura tecnica” degli scassatissimi bilanci dello Stato, mentre tutte le dinamiche politico-sociali potevano andare avanti come prima (un cartello elettorale qu, un’occupazione là, un inciucio su, un gioco di sponda giù, ecc) deve ora prendere atto che ci stiamo muovendo in territorio sconosciuto e minato. Le “regole istituzionali” prima in vigore non esistono più.
Quelle regole dicevano che esisteva una protesta legittima perché politicamente controllata, che aveva libero accesso in ogni dove; e un’altra protesta dichiarata altrettanto legittima, ma solo sulla carta, doveva invece contrattare ogni passo, districandosi tra “zone rosse”, “tonnare”, infiltrazioni, avvisi di garanzia, detenzione carceraria o domiciliare.

La linea di faglia della “legittimità” è stata spostata all’interno del campo prima considerato in toto “istituzionale”. La politica – le leggi e le pratiche dello Stato – riconosce i rapporti di forza sociali creati negli ultimi quaranta anni e “decreta” (jobs act, bavaglio “monetario” alla libertà di stampa, cariche di polizia, ecc) che il mondo del lavoro non ha più diritto a una rappresentanza. Né all’interno delle istituzioni, né fuori di esse. È un passaggio storico “di classe” e strutturale, non un incidente di percorso di un governo o di un partito guidato da neofiti senza patente. Il Nuovo Partito Democratico – per scelta o per incidente – ha cominciato a farsi conoscere. È l’Npd del futuro, una sigla inquietante.

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