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Non possiamo pensare solo a difenderci

Il 14 novembre non c’è stata città italiana che non abbia vissuto almeno una iniziativa nella giornata dello “sciopero sociale”. Non c’è stato un solo soggetto conflittuale che sia emerso al di sopra degli altri. Non c’è stata una figura sociale prevalente, visto che le diversità tra lavoratori “stabili” e precari, tra disoccupati, studenti e migranti, sono ormai tutte labili e transitorie; agitate dal “nemico” come incomponibili, si sono tranquillamente affiancate in piazza, scoprendosi assai meno lontane e “differenti” di quanto si scriva sui giornali padronali e magari anche in qualche sito legato a immaginari ormai scaduti.

Persino la discesa in campo dei metalmeccanici Fiom, cui si sono accodati anche Susanna Camusso e qualche funzionario Cgil, nonostante le semplificazioni della politica e dei media mainstream, non è riuscita a “coprire” nemmeno mediaticamente la molteplicità unitaria della protesta, il suo essere manifestazione di una oggettività sociale che va cercando una visione generale.

Un’opposizione forte ai diktat del governo/regime di Renzi e dell’Unione Europea dunque è possibile. Si può espandere nelle più diverse figure sociali, può diventare un fiume imponente. Che imponga al governo di rinunciare a proseguire la sua opera di demolizione del welfare e dei diritti, e magari di togliersi definitivamente dai piedi.

Ci sembra che l’intuizione politica che era stata alla base del grande esperimento del 18 e 19 ottobre 2013 sia stata insomma pienamente confermata dai fatti. Certo molto più che dalle singole soggettività che hanno provato a trarre un “micro” profitto da un grande evento che sfuggiva ad ogni possibile “egemonia”.

Ma la forza delle contraddizioni e delle ragioni sociali è immensamente più forte della persistenza di vecchie idee, incrostazioni ideologiche, calcoli di bottega.
Questo fiume può e deve rompere gli argini. E non ci preoccupa affatto che anche alcune forze qualche settimana fa ancora molto “istituzionali” – come la Fiom e persino la Cgil – siano oggi obbligate a percorrere strade conflittuali che avevano messo da parte o addirittura additato alla pubblica condanna. È un loro problema, stare o no nel conflitto. Ma anche per noi – che pure ci siamo abituati a fare ginnastica sul campo – non c’è più spazio per ripetere i vecchi giochi, come se tutto dovesse tornare o potesse essere come prima.

La novità di questa fase storica è che il conflitto è stato promosso “dall’alto”, dalle classi dominanti e dai poteri sovranazionali che il capitalismo si è dato. È da lassù che è stato deciso chi poteva rientrare nei vecchi schemi e chi no. Da lassù è partita l’offensiva per trasformare la crisi economica in formidabile occasione di ridisegno dei rapporti sociali e politici.

Da qui sotto è cominciata anche la Resistenza. Non tutti coloro che sono scesi in piazza condividono le stesse idee, guardano l’identico orizzonte, nutrono le stesse speranze. Ma tutti condividono lo stesso nemico, anche se non tutti lo vedono.

Il problema è dargli un nome riconoscibile per tutti; unificante non perché scelto in una compilation dei termini “che funzionano”, ma in quanto corrispondente alla reale identità del nemico. Non è paradossale che questa “unitarietà al di là delle differenze soggettive” sia stata colta dall’altra parte della barricata, dai bastioni di Confindustria. Scrive all’indomani dello sciopero del 14 novembre Lina Palmerini, su IlSole24Ore:

Nel 2002 l’articolo 18 aveva la forza di uno spartiacque perché stava dentro un contesto tutto nazionale. Eravamo entrati solo da qualche mese nell’euro. Oggi è chiaro a tutti che la riforma del lavoro è tra le riforme che ci chiedono la Commissione Ue e la Bce. Protestare oggi contro il Jobs act senza tenere conto del contesto europeo è un nonsenso. Esattamente come la battaglia contro la legge Fornero e il ripristino delle pensioni di anzianità, che ieri chiedeva Maurizio Landini dalla piazza di Milano. Pensioni e lavoro sono riforme che discendono direttamente dallo stare nell’Ue e dentro le regole dei Trattati che impongono vincoli di finanza pubblica….. È difficile che Maurizio Landini possa ancora attaccare la minoranza del Pd come ha fatto ieri – la mediazione sull’articolo 18 «serve ai parlamentari per conservare il posto» – senza trarre le logiche conseguenze sul quadro europeo.

Poche parole, ma chiarissime. Nessuna opposizione sociale e/o politica ha senso se non prende di petto la nuova condizione strategica: il “governo” italiano non conta nulla, o al massimo quanto un’amministrazione regionale. Il jobs act non è una “pensata originale” del duo Renzi-Poletti, ma una semplice traduzione in dialetto locale della famosa lettera della Bce del 2011 e del mercato del lavoro che piace all’Unione Europea, o meglio alle imprese multinazionali e al mercato finanziario che l’hanno disegnata negli ultimi trenta anni.

Questo naturalmente ha spiazzato i riformisti di tutte le gradazioni, costringendoli a “mobilitarsi” facendo la faccia dura, con l’illusione di poter ripristinare o conservare qualcosa del vecchio assetto. In primo luogo il sindacato di Susanna Camusso e di Maurizio Landini, cui è fin troppo chiaro che l’abolizione dell’art. 18 significa semplicemente la fine della possibilità di contrattare sui posti di lavoro; quindi anche la propria fine come “soggetto politico”. A meno di non trasformarsi radicalmente in un soggetto conflittuale adatto al nuovo contesto.

Ma il “contesto europeo” travolge anche molti punti di vista “antagonisti”, privandoli di un “nemico-interlocutore” con cui avevano imparato a convivere conflittualmente. Ai piani alti di Bruxelles o Francoforte non interessa nulla – soprattutto non se ne preoccupano, abituati come sono a “pesare” gli avversari presenti, quelli possibili e finanche quelli solo potenziali – delle agitazioni territoriali, della manifestazioni con o senza fumogeni, delle isole di contestazione radicale barricate in questo o quel… chiamatelo come volete, ma è pur sempre un ghetto.

Per tutti si pone la necessità di possedere una visione europea della scena del conflitto, a partire ovviamente dalle modalità di funzionamento di questo quasi-Stato. Si pone altresì la necessità di avere e darsi una prospettiva di cambiamento al tempo stesso radicale e fattibile, raccogliendo la marea dei bisogni sociali soffocati dalla ristrutturazione capitalistica e concentrandola in azione unitaria di grande impatto. Continentale, ovviamente, partendo da dove si vive e lotta.

Non è più tempo di orgogliose solitudini e di piccole velleità egemoniche incentrate su singole figure sociali, singole modalità conflittuali, identità senza capacità operativa, ristretti orizzonti sia culturali che organizzativi. Guardare in faccia la realtà mutata è solo il primo passo; guardarsi allo specchio e scoprire la modestia del proprio confliggere, laborioso quanto abitudinario, è un lampo di chiarezza di cui abbiamo tutti bisogno per pensare meglio.

Intanto si pone ormai una domanda: siamo sicuri che continuare a “difendersi” sia l’atteggiamento giusto? Comunque la mettiate o qualsiasi straccio rivendicativo agitiate (dai diritti sindacali al diritto alla casa, dalla contrattazione salariale al “reddito garantito”, dai beni comuni alle pensioni, ecc), questa masnada autoritaria che occupa i posti di comando vi additerà come “conservatori”, come “vecchio sistema” e cercherà di rovesciarvi contro anche le nuove generazioni.

Sono reazionari, ricordatelo. Gente che vuol cambiare tutto per rafforzare il proprio antico comando, in un contesto che è cambiato anche per loro.

Siamo sicuri che sia ancora impossibile trovare quel grumo di idee, obiettivi, piattaforme, quella prospettiva radicale su cui milioni di persone possono convergere e determinare una repulsione totale, offensiva e destabilizzante il potere multinazionale? Noi scommettiamo su questa possibilità.

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