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L’ora del repulisti nel regime

Quando avvengono certi strappi è difficile non usare parole forti ed evocare confronti storici. Quindi è meglio mantenere un controllo analitico freddo, per vedere se certe parole sono giustificate o meno.

La vicenda della sostituzione di ben dieci esponenti della minoranza Pd dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera è in sé senza senza precedenti storici. Così come è l’uscita dai lavori della Commissione di tutte le opposizioni, per quanto finte alcune possano essere (Sel, Forza Italia e Lega). Di fatto, non c’è rimasto più nessuno a controllare che una legge decisiva per la formazione dei futuri parlamenti e governi – come quella elettorale – rispetti i confini, e soprattutto i princìpi, della Costituzione repubblicana.

La “qualità” delle cariche ricoperte in passato dai “rimossi” (un ex segretario come Bersani, l’ex avversario di Renzi alle primarie, Cuperlo, la responsabile dell’Antimafia Rosy Bindi, un ex ministro come Pollastrini, ecc) e la qualità ignota dei sostituti (l’unico noto alle cronache è non a caso quel Patrirca che si è fatto le ossa e forse non solo nel “terzo settore”) è forse ancora più indicativa della necessità renziana di eliminare quasi fisicamente chi non è ai suoi ordini per qualche motivo non dichiarabile.

In ultima istanza ci sarebbe ancora un “difensore della Costituzione”, residente in cima al Colle. Ma fin qui non ha mosso un sopracciglio e nessuno può scommettere che lo farà in questo caso, una volta che l’Italicum dovesse essere approvato e quindi finire sul suo tavolo per il vaglio finale.

Ma un singolo episodio non basterebbe a qualificare la “cultura politica” di una classe dirigente. Il problema è che di episodi simili Renzi e i suoi boys, a digiuno di tutto meno che di manovre di potere, ne hanno inanellati diverse decine in poco più di un anno. Fin dalle “riforme” su apprendistato e lavoro a termine, passando per il Jobs Act (una delega in bianco al governo, senza alcun contenuto specifico messo in discussione) e la riforma del Senato… Si potrebbe andare avanti a lungo.

Ci sembra chiaro che sia in atto una rottura radicale nel sistema di governo della democrazia liberale borghese “all’italiana”. Fino a qualche anno fa la maggioranza comandava, ma doveva in qualche misura tener conto dei problemi e delle istanze dell’opposizione. Non più quanto avveniva durante la “prima Repubblica”, dove a seconda delle stagioni poteva avvenire che un Parlamento a maggioranza democristiana votasse a favore dello Statuto dei Lavoratori o addirittura del divorzio. Ma neanche sotto Berlusconi, e nonostante punte apertamente fasciste come le giornate di Genova 2001, l’opposizione parlamentare è stata relegata sugli spalti della decisione politica.

Erano le stagioni del “consociativismo”, si dice. In cui, certamente, era l’opposizione politica e sociale a dare di più nello scambio ineguale tra istanze provenienti dal mondo del lavoro o dall’evoluzione dei modi di vivere (e relative culture). Una “contrattazione a perdere”, sistematica, si è però imposta solo a partire dall’inizio degli anni ’90, e non per “merito” del Caimano. A quella data (1992), infatti, risalgono gli accordi Maastricht che hanno fissato i paletti fondamentali della torsione autoritaria – da parte della governance multinazionale – poi cementati a forza di Trattati sempre più stringenti (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, ecc).

La svolta impressa col governo Monti (2011) ha segnato il passaggio diretto da un malandatissimo sistema di “governo nazionale” all’interno di un sistema di trattati “comunitario” a un sistema di governance sovranazionale sotto il controllo della Troika. E’ appena il caso di ricordare che governance è un termine proveniente dalla cultura aziendale; indica la modalità di guida di un’impresa, come una macchina organizzativa che non prevede opposizione istituzionalizzata, ma solo “problemi”, “ostacoli”, “resistenze” all’affermazione dell’interesse (il profitto) dell’azienda.

Sembra di leggere le parole del banchiere di JP Morgan (Jamie Dimon) quando scrive: “Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche“.

Renzi sta costruendo il sistema istituzionale corrispondente a questa nuova realtà di fatto. Le “riforme costituzionali” e quindi anche la legge elettorale devono servire a istituzionalizzare questa idea dittatoriale della “democrazia” per cui chi vince le elezioni comanda senza dover tener conto di nessuno all’interno del paese, ma solo delle indicazioni dell’Unione Europea  e della Troika, gerarchicamente superiori, e dei propri interessi come classse dirigente.

Le varie “opposizioni” poste sulla sua strada non sembrano avere nessuna consapevolezza del quadro entro cui si muovono. Soprattutto i vecchi diessini (Bersani, Cuperlo, Bindi, lo stesso D’Alema) agiscono secondo schemi del passato totalmente estranei all’avversario che hanno di fronte dopo esserselo coccolati in casa. Sempre oscillanti tra “resto nel partito e faccio opposizione” e “minaccio la scissione solo per alzare il prezzo” non si sono accorti che la piccola falange di killer politici renziani ha come obiettivo dichiarato il farli fuori. E basta.

Perché la “politica” che avrà diritto di esistenza nel nuovo scenario non ha più nulla a che fare con la mediazione (più o meno vantaggiosa) tra interessi sociali diversi, ma dovrà al contrario garantire la “piena operatività” di decisioni prese in altra sede. Per questo servono esecutori fedeli, retibuiti a contratto, non “sottili cucitori” di epoche passate.

Chiamare “fascismo” questa istituzionalizzazione autoritaria è per un verso appropriato (non è prevista alcuna reale opposizione), per molti altri fuorviante. E’ un salto in avanti reazionario, non un ritorno al passato ultraconservatore. Per quanto intriganti siano alcune analogie, come il fatto che ancora una volta la malapianta reazionaria sia prosperata all’interno del “riformismo” socaldemocratico, proprio come Mussolini e i suoi erano cresciuti nel Psi turatiano.

Il che dovrebbe impedire a chiunque di provare anche solo un pizzico di compassione per Bersani & co.

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