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Quel gelo che arriva dagli Usa

Qui in Europa si guarda con preoccupazione all’evoluzione (negativa) del negoziato con la Grecia per imporre ad Atene una terza razione di “memorandum” fatto di austerità e tagli. La riunione dell’Eurogruppo  comincia con un pieno di indicazioni negative. Un fallimento potrebbe infatti aprire – con calma, nell’arco di alcuni mesi – la strada all’uscita di Atene dall’eurozona e forse anche dall’Unione Europea, obbligandolo di fatto a cercarsi altri partner economico-finanziari pericolosissimi per Bruxelles: Mosca e Pechino stanno già facendo ponti d’oro perché la Grecia possa sopravvivere a un sempre più probabile default e autonomizzarsi il più possibile da quelle “istituzioni” che comprendono, nel mazzo, anche o sprattutto la Nato.

La “patria della democrazia” è un piccolo paese, dal punto di vista del peso economico, ma una sua fuoriuscita implicherebbe che di fatto l’Unione Europea e il suo collante fin qui più forte – la moneta unica – non sono affatto “irreversibili”. Specie se l’eccezione greca dovesse trasformarsi in contagio per la Spagna attesa dalle elezioni politiche in autunno. La natura stessa della Ue dovrebbe esser ridefinita come un semplice “sistema monetario”, regolato da trattati rigidi e perciò stupidi; un sistema di cambi fissi il cui orizzonte, anche nel tempo più lontano, non sarà mai una vera Unione. E non cambierebbe granché di segno questa evoluzione – dopo la cacciata della Grecia – l’eventualità che il nucleo duro dell’Ue possa decidere di reagire con una ulteriore stretta e un’accelerazione del processo di integrazione, anche come monito per la Spagna, dove nessuna delle principali forze politiche in campo è apertamente critica nei confronti dell’Ue.

La prima implicazione necessaria sarebbe il ridimensionamento drastico delle ambizioni imperialistiche dell’Unione Europea, già fortemente limitate dalla dipendenza energetica e dall’assenza di autonomia militare all’altezza delle altre grandi potenze.

La seconda, e più immediata, sarebbe la già prevista tempesta speculativa dei “mercati internazionali” contro un soggetto incapace di trovare soluzioni razionali per un problema in fondo minimo come il debito di Atene nel 2010. Riaccendendo così differenziali di rendimento (spread) che si riversano in un attimo sui conti pubblici come aumento del “servizio sul debito”, ovvero della spesa per interessi sui titoli di stato.

Ma un’altra tempesta si va addensando sul fronte occidentale. La “ripresa” negli Stati Uniti non ha più le dimensioni sperate e sarà messa oggettivamente in discussione dal’aumento dei tassi di interesse che la Federal Reserve ha confermato in programma per la fine dell’anno. Le previsioni sul Pil sono state riviste al ribasso (ovvero gli Usa cresceranno meno dello sperato solo tre mesi fa) e il tasso di disoccupazione resta stabile solo grazie alle regole statistiche fantasiose vigenti laggiù e a una marea di “lavoretti” a bassa o nulla qualifica.

Dati nuovi che hanno già convinto la Fed a confermare la scelta strategica del rialzo dei tassi, ma a moderarne sia la dinamica temporale che l’intensità.

Dal 2010 ad oggi la crescita del Pil statunitense è stata costantemente intorno al 2%. Ma nessuno può dimenticare che questa performance in fondo modesta è stata ottenuta solo grazie a un prolungato periodo di tassi di interesse inchiodati allo 0,% (stanno ancora lì) e ad una valanga di liquidità emessa dalla banca centrale.

Un’economia inchiodata, ma la cui borsa è letteralmente esplosa. L’indice Dow Jones, nello stesso periodo, è cresciuto da 10.000 a quasi 18.000 punti. Una crescita dell’80% che ha una sola giustificazione: la liquidità della Fede è finita soprattuto in speculazione di borsa. Non bisogna essere degli esperti per intuire che questa divergenza mostruosa tra andamento lento dell’economia reale e rally a tutta manetta della finanza prima o poi finiscono in un grande botto.

Il detonatore è in genere rappresentato o dal fallimento improvviso di uno dei grandi player (come nel caso recente di Lehmann Brothers), o dal “ritorno alla normalità” sul piano dei tassi di interesse. O da una comibinazione dei due elementi.

Inutile dire che l’economia Usa – e soprattutto la loro finanza – non sono un “giocatore” qualsiasi nel perenne campionato della competizione interimperialista. E che l’interconnessione reciproca tra tutte le economie creata da un ventennio di “globalizzazione” non consente a nessuno di chiamarsi fuori dallo tsunami che si gonfia nelle viscere del sistema finanziario.

Ma sono almeno otto anni, da quando è iniziata l’attuale fase di crisi, che la globalizzazione si è invertita in “competizione”, ogni giorno più esasperata e autodistruttiva.

Che sia la Grecia o l’Ucraina, le truppe americane nei paesi baltici o l’ennesimo “giorno nero” a Wall Street, la fragilità dello scenario attuale dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti. L’inadeguatezza delle leadership capitalistiche mondiali, anche. La pallina, sul piano inclinato, continua a rotolare.

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