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Colpiscine uno per educarne ventotto

Un ultimatum di guerra. Non c’è altro modo di interpretare il presunto negoziato sulla Grecia, il suo debito, le “garanzie” da ipotecare per cominciare – soltanto cominciare – a discutere di “aiuti”. Soltanto con i cannoni puntati sulla faccia si possono accettare condizioni infami come quelle contenute nel dispositivo partorito dal vertice dei capi di governo dell’eurozona.

Chiarissimo anche l’obiettivo di medio termine: scoraggiare definitivamente il montare di movimenti “euroscettici” o di sinistra, che sono dati in grande crescita soprattuto nei paesi che stanno per andare alle urne (Spagna su tutti, per dimensioni e panorama politico interno).

Colpiscine uno per educarne ventotto, si sarebbe detto una volta.

Ma questo sfoderare i cannoni, sia pure soltanto finanziari – per ora – è prassi consueta con i nemici belligeranti o potenzialmente tali. E su nemici deboli, con l’acqua alla gola e nulle possibilità di resistenza con successo. Neanche tra Usa e Iran, per dirne una, si sono usate modalità simili nel negoziato sul nucleare. E non pensiamo affatto che si amino…

Succede invece dentro l’Europa, o meglio entro l’Unione Europea. Dove si è costruito, trattato dopo trattato, un meccanismo coercitivo teso a stimolare la competitività interna nel mentre si imponeva su tutti una camicia di forza chiamata austerità. Le due cose insieme generano guerra interna, sottile, continua, perenne, anche sul piano sociale (“guerra tra poveri”), che esplode quando qualcuno dei membri finisce troppo sotto i livelli di sopravvivenza.

È un meccanismo di gerarchizzazione drastica, perché fa uscire allo scoperto l’assoluta centralità dei rapporti di forza economici, tra filiere produttive, sistemi finanziari. È un meccanismo di espropriazione progressiva dei più deboli – come classi sociali, non solo o non tanto come Stati – che abbiamo visto all’opera altre volte (il Mezzogiorno dopo l’unità d’Italia, l’anschluss della Ddr nella riunificazione tedesca, ecc), ma che viene applicato ora su scala continentale.

L’”Europa dei popoli” non c’è mai entrata nulla, fin dall’inizio. Il “sogno di Ventotene” è tornato utile per dare una verniciatina idealistica a una macchina da guerra concepita per tritare popoli, costituzioni materiali e formali, tutele dei lavoratori, sistemi di welfare a beneficio del capitale multinazionale. Per tritare, in definitiva, anche la democrazia, che si pretende di esportare in altri luoghi del mondo, anche a costo della guerra.

Basta vedere come è stato accolto il referendum greco, l’ultima espressione libera della volontà popolare: come un insulto, un’offesa da lavare col sangue dei “debitori” che osavano ribellarsi.

Questa realtà istituzionale era scritta nei trattati, ma ora è venuta allo scoperto davanti agli occhi di tutti. È questa rivelazione, di fatto, l’unico risultato politico positivo ottenuto dalla lunga resistenza del governo Syriza alla pressione crescente dei “creditori”.

Da oggi in poi nessuno potrà sostenere che questa macchina da guerra sia qualcosa di migliorabile, adattabile alle esigenze dei popoli, riformabile. Ogni paese che proverà a darsi una rappresentanza politica “non allineata” subirà lo stesso trattamento. O peggiore. Un’altra Europa è possibile solo distruggendo questa macchina chiamata Unione Europea.

Qui si colloca la svolta politica necessaria da metabolizzare per chiunque si muova nell’orizzonte – come minimo – della giustizia sociale, di un altro modo di vivere e produrre.

La maratona che ha portato al “decreto ingiuntivo” nei confronti di Atene ha eliminato fisicamente l’immaginario ingenuo del riformismo. Quello per cui ci si presenta alle elezioni, magari – e giustamente – dopo un lungo ciclo di lotte e resistenza, si sale al governo e si contrattano con “i partner” altre condizioni per stare assieme.

Quando però si arriva al governo di un paese membro dell’Unione Europea non si trova la mitica “stanza dei bottoni”, la cabina di pilotaggio che ti mette a disposizione tutte le leve del comando politico sulla società. Lì dentro, dopo i trattati Ue, c’è rimasto ben poco. Giusto il ristretto arsenale di poteri che consentono di disciplinare il popolo: polizia, fisco, magistratura, “comunicazione”. Ma niente moneta, niente politica industriale, nessuna possibilità di progettare futuro se non affidandosi – ideologicamente – ai “meccanismi di mercato”. Le elzioni, insomma, servono solo a misurare la temperatura politica del paese, fin quando non ci si pone chiaramente un obiettivo di tìrottura degli schemi.

Una realtà ancor più chiara in un paese piccolo, economicamente fragile, dove l’unica industria “competitiva” – la marina commerciale – fattura fuori dal paese, non contribuisce al Pil ed è esentasse per “diritto costituzionale” (un’eredità del regime fascista dei colonnelli).

D’ora in poi, chiunque voglia cambiare almeno in parte gli equilibri politici e sociali nella Ue deve mettere in conto battaglie di popolo, costruzione di un blocco sociale di ampie dimensioni e forti motivazioni. E deve darsi una prospettiva fuori e contro la macchina da guerra in cui siamo ingabbiati.

Deve sapere che “andare fuori” sarà un passaggio complesso, durissimo, complicato. Vengono coinvolti contemporaneamente gli equilibri sociali e quelli politici, le alleanze internazionali e geostrategiche. Bisogna dunque pensare per tempo – al contrario di quanto pare abbia fatto Syriza – a un congruo numero di “piani B”, passaggi successivi, obiettivi anche intermedi, alleanze alternative affidabili. Qualcosa di simile a quanto avvenuto, in modo certamente non lineare né a costo zero, in America Latina.

Si dice che “uscire dall’eurozona” e dall’Unione sarebbe durissimo. Ed è assolutamente vero. Ma il dilemma che strangola i Piigs è esattamente questo:

– se si rompe l’Unione Europea o con l’Unione Europea si sarà costretti ad affrontare un periodo difficilissimo, da “economia di guerra”;

– se si resta dentro si verrà dissanguati fin quando non ci saranno neanche le forze per pensare a un’alternativa.

L’alternativa è dunque tra prepararsi a una lunga fase conflittuale, nel pieno di una crisi globale che peggiora, o arrendersi alla morte per fame. Non è più il tempo sognare altri mondi possibili. È il tempo della lotta per cambiare quello che c’è. Con i piedi piantati per terra e lo sguardo all’orizzonte.

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