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“Umanitario” a chi?

Il minimo che possa fare un organo di informazione degno di questo nome è segnalare i momenti di passaggio, del “discorso pubblico”, da un sistema di valori ad un altro. Un passaggio che si concretizza in atti, leggi, iniziative statuali, accordi internazionali, fatti. Ma che viene condito – deve esserlo, necessariamente – con una vernice retorica che dovrebbe giustificare quella serie di atti come “perfettamente giusti”, in completa continuità con quanto sempre detto. Insomma, come inveramento del sistema di valori che si va declamando, anche quando – o soprattutto quando – quel sistema viene abbandonato, violato, deriso.

In questi giorni sta avvenendo un passaggio decisivo, sostenuto univocamente e senza dissidenze di rilievo da tutti i media nazionali. Al centro ci sono i “comandamenti” del cosiddetto “codice di autoregolamentazione” imposto dal governo italiano alle Ong attive nei salvataggi in mare. Solo quattro di queste hanno firmato, a cominciare da quella “Save the children” che somiglia più a una impresa multinazionale che non ad un’associazione umanitaria. Una “non firmataria” è stata usata come esempio negativo – dopo una lunga e articolata opera di spionaggio, con l’uso di “agenti sotto copertura” e intercettazioni di vario tipo – in modo da segnare in modo visibile il discrimine tra le Ong “ammissibili” e quelle da allontanare.

Con altro linguaggio, potremmo dire tra le Ong “complici” degli Stati e quelle indipendenti. Oppure ancora, tra Ong false e Ong vere. Come ricorda Andrea Palladino, giornalista che ha svelato il retroscena mercenario della cosiddetta “Generazione identitaria” o “Defend Europe”, Ong sta per “organizzazione non governativa”, “una associazione che per statuto, storia, missione opera senza avere legami con i governi”.

La più nota e credibile delle Ong italiane è senza dubbio Emergency, fondata da Gino Strada, che ha immediatamente definito il “codice” del ministro Minniti come un dispositivo regolamentare che “mette a rischio la vita di migliaia di persone e costituisce un attacco senza precedenti ai principi che ispirano il lavoro delle organizzazioni umanitarie”. Il punto chiave è la presenza di militari armati a bordo delle navi, imposta come conditio sine qua non per l’autorizzazione ad operare nel Mediterraneo, anche in acque internazionali, e poi approdare in porti italiani.

Il perché questo sia un discrimine assoluto non è stato spiegato da nessuno dei tanti “esperti” invitati a parlare nei talk show o intervistati dai media mainstream. Non a caso, crediamo, stavolta nessuno ha voluto dare la parola a Gino Strada o a qualcun altro con identiche competenze. E nemmeno alla Chiesa! Una autentica – e macabra – rivendicazione di “laicità” o una posizione talmente criminogena che nessun prelato si è sentito di avallarla?

Proviamo a dirlo noi.

Una organizzazione umanitaria, per operare al confine tra soggetti in conflitto, deve garantire la più assoluta neutralità rispetto ai centri di potere (militare, in primo luogo) che si contendono un certo territorio. L’esempio di Emergency – che crea e gestisce ospedali, non navi di salvataggio – diventa illuminante. Un ospedale in Afghanistan, Sudan o qualsiasi altro paese, può essere “accettato” – dunque non attaccato – da tutte le parti in conflitto solo se e fino a quando lì dentro vengono curati tutti, a prescindere dalla loro appartenenza (civili di tutte le etnie e militari di tutte le fazioni); e dunque solo se all’interno della struttura non sono ammessi militari di una della parti in conflitto. Ossia gente che potrebbe identificare, riconoscere ed eventualmente uccidere “i nemici”.

Ogni ospedale è ovviamente all’interno di un territorio controllato da una delle parti in conflitto e dunque sembrerebbe “di buon senso” accettare la presenza di militari di quella parte. Ma nelle guerre – specie quelle civili – i confini sono mobili, dipendono da rapporti di forza anche momentanei. Quindi quel che oggi è territorio “mio”, tra una settimana o un mese sarà forse territorio di altri. I quali, arrivando e trovando militari “nemici” dentro quell’ospedale, considereranno “nemico” tutto il personale lì presente.

L’unica, benché fragile, assicurazione sulla vita e sulla libertà di operare – per una Ong “vera” – è dunque la neutralità più assoluta. Non solo nelle parole e nei fatti, ma anche nelle apparenze (niente militari nella struttura).

Un opinionista manettaro e pseudo-legalitario come Marco Travaglio, per esempio, ha improvvisamente dismesso i panni dell’oppositore al governo Pd-Alfano-Verdini sulla base di un tipico ragionamento da scrivania: “non c’è nessun conflitto tra Stato italiano e scafisti, perché quelli non sono un soggetto statuale riconosciuto; il quadro di leggi e regole è quello dello Stato italiano, e dunque non c’è nessuna neutralità possibile per le Ong, che devono accettare militari a bordo e collaborare alle indagini”.

Il problema dei conflitti è che non occorre avere la patente timbrata – tantomeno da Travaglio – per parteciparvi. Basta esistere, avere interessi contrapposti a quelli di qualcun altro, essere armati e decisi a farsi valere, ovviamente con un minimo di organizzazione e qualche “ragione”, persino immonda. E non c’è dubbio che nella Libia polverizzata di oggi ci siano molti soggetti che agiscono in proprio o conto terzi il conflitto. Oltre ai due cosiddetti “governi” – Al Serraj e Haftar – una miriade di milizie tribali, jihadisti, magari semplici banditi. Tutta gente poco raccomandabile, certo, ma armata e combattente. Dalla comoda scrivania di un giornale italico si possono benissimo ignorare, fidando nel fatto che non possono arrivare a toccarci. Ma se si sta su una nave in mezzo al mare, con lo scopo di raccogliere profughi e naufraghi, quella gente non può essere ignorata. Perché se non è sicura che tu – la nave e l’equipaggio – sei davvero “neutrale”, probabilmente ti sparerà addosso.

Sul luogo del conflitto, come sa chi pensa realisticamente (dunque pensa, non “immagina”), la legge non esiste. La scriverà chi vince. E a una associazione umanitaria vera, che vuole soltanto salvare vite umane, non può e soprattutto non deve interessare chi comanderà un giorno su quel fazzoletto di terra o sul tratto di mare davanti ad esso.

Questo interesse lo nutre invece uno Stato o una coalizione di Stati estranei a quel territorio. Una coalizione (Unione Europea e Nato, in questo caso) che punta ad impadronirsi e gestire le risorse presenti in quel territorio (la Libia ha la sfortuna di esser ricca di petrolio: come il Venezuela o prima l’Iraq, del resto).

E qui il “ragionamento da scrivania” diventa un’arma retorica perfetta per gli invasori reali, in carne, ossa, scarponi e mitragliatrici. I quali, sia detto in modo chiaro, aspirano ad imporre la propria legge, non “la legge” in astratto. Ossia a vincere quel conflitto (che esiste anche se “il nemico” non vogliamo “riconoscerlo”) e disporre di quel territorio. Insomma, ragionano come Carl Schmitt, non come Hans Kelsen…

Che sia così è evidente dalla stessa composizione della missione militare italiana, dove – insieme ai marinai e alle navi – sono impegnati anche lagunari e altre “truppe di terra”. Soldati che dovranno mettere gli scarponi sul terreno, perché “bombardare le barche” a casaccio (come vorrebbe i Slavini e le Santanché) è una scemenza che non serve a nulla; e dunque bisogna prendere possesso dei villaggi o delle città che hanno un porto da cui partono i barconi, d’accordo o meno con le locali milizie (e i relativi scafisti). Pagando o sparando, magari a giorni alterni.

L’Italia va alla guerra con il solito atteggiamento idiota di chi pensa che basterà poco per far fuori quei quattro straccioni (“spezzeremo le reni alla Grecia”, “mi serve qualche migliaio di morti da mettere sul tavolo delle trattative”, “mission accomplished”, ecc). Negando persino, per qualche giorno e qualche ora, la minaccia esplicita dell’altro governo libico, quello di Haftar: “bombarderemo le navi straniere che entrano nelle acque territoriali libiche”. Figuriamoci con quale entusiamo “saremo accolti” dalla infinite milizie meno inquadrate e riconosciute…

Ma, appunto, in guerra non vengono ammessi né neutralità né testimoni. Ricorda Palladino che le Ong

Sono nate nell’800 e si sono sviluppate negli ’70, quando in giro per il mondo andavano di moda le dittature o, in ogni caso, i governi “forti” antidemocratici. Promuovevano progetti nel campo dei diritti, aiutando le vittime degli Stati, gli ultimi. Per questo non potevano flirtare con i governi. Ci dovevano convivere, e l’abilità stava in quel gioco diplomatico continuo di mediazione. A volte occorreva trovare escamotage sul filo della legalità, a volte era necessario violare leggi ingiuste.”

Sotto il fascismo e il nazismo erano scomparse, perché per quel tipo di regime ci sono soltanto amici o nemici, tertium non datur.

Il passaggio da un sistema di valori “democratici e umanitari” ad uno autoritario e altamente cinico è diventato palese, nei giorni scorsi, già a partire dal linguaggio mediatico. E’ stato coniato un nuovo ossimoro (estremismo umanitario, che seppellisce e supera il suo opposto, guerra umanitaria). E’ stato qualificato come ideologica l’idea di salvare più vite possibile, affidando al prode Roberto Esposito il compito di coprirsi di vergogna (alcune Ong ideologicamente pensano solo a salvare vite umane: noi non possiamo permettercelo). L’umanitarismo viene deriso. Anzi, quasi quasi diventa un reato…

Dobbiamo ricordare che l’ingerenza umanitaria è stata nell’ultimo quarto di secolo la cornice – questa sì, ideologica – entro cui sono state autorizzate numerose aggressioni imperiali a paesi anche molto diversi tra loro (da Grenada all’Iraq, dalla Jugoslavia a Panama e alla Libia, ecc). L’ultima sceneggiata su questo format viene ancora recitata a scapito del Venezuela bolivariano, nonostante la presenza legale di quasi 100 partiti e numero di elezioni negli ultimi 15 anni che supera anche quelle italiane.

Lo slittamento valoriale che si va consumando intorno al “codice” di Minniti e alla gestione dei flussi migratori spinge però per mettere in soffitta la retorica umanitaria, ormai poco gestibile, aprendo la stagione del “possiamo ammazzare chi ci pare”; che è poi la traduzione del tweet di Esposito in parole semplici.

E’ bene rendersene conto, perché questo slittamento ha una storia (momentaneamente interrotta dal referendum del 4 dicembre) e pretende di disegnare il futuro prossimo.

 

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