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L’unità della sinistra? E’ un falso problema

Ripubblichiamo questo documento del febbraio 2019 che è stato l’occasione per un ciclo di conferenze pubbliche nei mesi scorsi in diverse città italiane. Molte compagne e molti compagni in questi mesi, non hanno compreso o hanno ritenuto erronea quella riflessione. Alla luce dei risultati politici ed elettorali di domenica 26 maggio, li invitiamo a rileggerlo adesso, con lo spirito e l’atteggiamento necessario.

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L’unità della sinistra? Un falso problema

In questi anni più si è parlato di “unità dei comunisti” e più ci sono state scissioni e nascita di “partiti comunisti”, più si parla di “unità della sinistra” e più si sono prodotte divisioni nella sinistra. L’invocazione all’unità si è dimostrata inversamente proporzionale ai risultati che ha prodotto, sia tra i militanti comunisti che nel mondo della sinistra.

E’ evidente che qualcosa non funziona, che non può funzionare, che non funziona più! Appaiono poi ingannevoli e devastanti i tentativi di resuscitare l’unità della sinistra in occasione di appuntamenti elettorali nazionali, locali o europei che siano.

Con l’esaurimento della funzione di fiancheggiamento/subordinazione dei partiti comunisti o della sinistra radicale ai governi del centro-sinistra, alle loro politiche subalterne ai diktat europei e alla centralità degli interessi privati rispetto a quelli collettivi, sia i comunisti che la sinistra hanno via via condiviso con l’Ulivo prima e il Pd poi l’ostilità nel senso comune popolare. E oggi se ne pagano ancora tutti i prezzi. Sia le ipotesi fortemente identitarie e auto-centrate dei comunisti sia le ipotesi di cartelli larghi e inclusivi della sinistra, in tale contesto, non hanno prodotto risultati significativi né dignitosi. Non li hanno prodotti sul piano elettorale (per molti unica ragione di esistenza politica e metro di misura) né sul piano strategico attraverso la rimessa in campo di una ipotesi di trasformazione rivoluzionaria sufficientemente solida per affrontare le tappe di un programma di transizione di classe anche di tipo “riformista”.

Questa mancata rimessa a fuoco di una ipotesi rivoluzionaria in una fase controrivoluzionaria, non poteva che accentuare la crisi dei partiti comunisti residuali o dei residui della sinistra radicale.

Distinguere i nemici dagli avversari per combatterli diversamente

Indicativa si rivela l’incapacità di leggere i processi sociali e materiali che hanno portato al governo di Lega e M5S. Con atteggiamenti che talvolta rasentano più l’isteria dell’impotenza che la razionalità di una minoranza cosciente. Viene appiattita ogni articolazione di analisi e capacità di discernimento tra gli elementi di diversità e quelli di continuità della nuova situazione, regalando così consensi popolari, egemonia ideologica e spazio politico sia alle forze del “governo del cambiamento” . sia all’opposizione liberale, liberista, quindi europeista, del PD e de La Repubblica.

Discernimento e analisi concreta della situazione concreta dovrebbero portare a ragionare ed agire individuando le differenze tra i nemici e gli avversari.

La Lega, la destra, i fascisti ma anche le banche, i prenditori e i tecnocrati legati al Pd sono i nemici da combattere, apertamente.

Il populismo legalitario e dilettantesco del M5S sono gli avversari, i competitori da battere per andarsi a riprendere la nostra gente, i segmenti del blocco sociale antagonista che hanno “politicizzato” il loro rancore non attraverso il conflitto e la lotta collettiva, ma attraverso il voto per vendetta affidato al M5S e in parte (nel nord) alla Lega.

Registriamo invece analisi e manifestazioni che appiattiscono tutto sulla demonizzazione dell’attuale governo, regalandogli consensi tra i nostri interlocutori sociali e regalando credibilità all’opposizione strumentale del Pd. Parte da questo equivoco di fondo la “sensibilità” al richiamo della foresta dell’unità e dell’unità della sinistra in particolare. E’ un meccanismo micidiale che abbiamo conosciuto con l’antiberlusconismo e che ha prodotto prima il logoramento e poi la crisi proprio della sinistra. Quella stessa sinistra che si ritraeva inorridita quando abbiamo definito Berlusconi una tigre di carta!

Alla prova cruciale del confronto/scontro con i poteri forti dell’Unione Europea e con il totem ideologico della “centralità dei mercati e delle agenzie di rating” – il governo del cambiamento sta scontando tutti i suoi limiti (in larga parte insiti alla natura piccolo borghese e reazionaria delle forze che lo compongono).

Il governo Conte/Salvini/Di Maio si è – sostanzialmente – allineato al corso economico dell’Unione Europea diluendo al massimo le “dirompenti misure” annunciate in campagna elettorale senza forzare minimamente la natura dei diktat di Bruxelles. Persino “il Fatto” (giornale che ha tirato la volata ai 5 Stelle), per bocca di Stefano Feltri, afferma: “Una manovra partita per sfidare le regole europee è tornata nei limiti di quel sentiero stretto seguito dal Ministro Padoan nei governi Renzi/Gentiloni”.

In questo contesto – alla vigilia dell’appuntamento delle elezioni europee – registriamo spinte e sommovimenti in direzione di una non meglio precisata “rinascita della sinistra e/o unità della sinistra” che dovrebbe opporsi alla “svolta fascista in atto” ed al pericolo di una possibile “dissoluzione della casa comune europea”. Infatti, pur con caratteristiche non certo lineari o prive di contraddizioni, è in atto un rimescolamento di carte e di posizionamenti in quella sorta di acquario che è diventato da tempo l’ambito della “sinistra”. Un acquario piuttosto stagnante di cui pensavamo di esserci liberati per sempre e che, invece, mostra segnali di un possibile, quanto nefasto, processo di sopravvivenza attraverso inedite e spregiudicate alchimie politiciste ed organizzative.

In questi mesi abbiamo colto in alcune manifestazioni di piazza (soprattutto nella metropoli milanese dove più forte è l’insediamento sociale e materiale di quegli interessi che, da sempre, la “sinistra in salsa europeista” ha coccolato ed abbondantemente alimentato), in alcuni pezzi istituzionali che temono la loro definitiva dipartita, in esponenti della Cgil privi della loro “casa comune di riferimento”, in soggetti cresciuti ed alimentati “nell’area grigia” del Terzo Settore, nelle pieghe di un associazionismo spesso collaterale e interessato alle prebende del sottogoverno ed in consistenti fette del mondo dell’ informazione (la Repubblica, l’Espresso, Left, il Manifesto., Millenium...) una ripresa di discussione sulla “necessità di ricostruire la Sinistra”.

In tale dibattito che spesso evoca o addirittura rievoca i tempi dell’antiberlusconismo, non si colgono elementi di novità politica e culturale né radicali autocritiche circa il consumarsi di un disastroso corso politico. Piuttosto salta agli occhi la riproposizione, a vario titolo, di tutti quei capisaldi concettuali che hanno contribuito, nel corso dei decenni alle nostre spalle, alla subordinazione prima ed alla completa integrazione poi, delle varie forme politiche della “sinistra” verso i dispositivi del moderno capitalismo ed alle sue modalità di governance.

Centralità del mercato (magari da regolare) e della competitività (magari da mitigare), accettazione della gabbia europea e dell’europeismo (magari da riformare) assenza di qualsiasi allusione/suggestione verso la modifica in senso progressista dei rapporti sociali, ed infine il mito della superiorità dell’Occidente e del suo lifestyle contro il “dispotismo asiatico” o il sovranismo in versione di destra, continuano ad essere il brodo di coltura dentro cui si alimenta, in Italia e non solo, la “voglia di sinistra”.

La scoperta di qualche nuovo guru di riferimento del Pantheon culturale ed ideale della “sinistra”, non mette affatto in discussione l’ apologia alla cosiddetta modernizzazione del sistema, la si declina solo con una sovrastruttura progressista ad un impianto sostanzialmente liberale ed eurocentrico.

Incapaci di farsi una ragione sul perché la “nostra gente” ha scelto di darsi rappresentanza politica altrove, nell’acquario della sinistra si prova a smuovere la mucillagine in nome della rivendicazione di un generico antirazzismo e antifascismo, si fa propria l’acritica apologia di una presunta Europa civile e democratica che necessita di qualche riforma e, soprattutto, si sponsorizza una idea della politica che espunge i ceti popolari e le classi subalterne da un auspicabile protagonismo attivo, a tutto vantaggio di un supponente primato della “cittadinanza”. Una perversa concezione ideologica che è congeniale al comando dei poteri forti del capitale, dei settori più avveduti della nostra borghesia continentale nella sua attuale forma imperialistica.

Le variegate proposte in campo – e quelle “in lavorazione” nei vari “cantieri/laboratori/agorà/network” – al di là di alcuni distinguo su questioni secondarie, hanno un comune denominatore riconducibile ad una idea di Unione Europea in grado di determinare e mixare un liberismo temperato verso i propri popoli ed una aggressività (per ora sul versante finanziario e commerciale ma in un prossimo futuro, all’occorrenza, anche attraverso l’interventismo militare e lo scontro tra potenze) verso gli altri attori della competizione internazionale.

Volendo essere espliciti, vogliamo affermare che c’è una sorta di filo nero che accomuna figure come Zingaretti/Landini e gli altri soggetti che si candidano al dopo/Renzi, con gli sbiaditi epigoni dell’ex sinistra radicale, fino agli ambienti salottieri dei Cacciari, degli Scalfari e di quell’arcipelago della “società civile” che si illude di poter rieditare posizionamenti economici e sociali non più compatibili con il corso generale della crisi né con i tempi del mutamento politico delle forme istituzionali e della rappresentanza della borghesia italiana.

Non occorreva essere profeti per prevedere che l’esito delle elezioni dello scorso 4 marzo e l’avvio del Governo giallo/verde, la natura e l’impatto dei suoi primi provvedimenti, avrebbero provocato una accelerazione del dibattito ed il palesarsi di fenomeni di centrifugazione del vecchio assetto politico ed istituzionale.

Sulla natura sociale dell’esecutivo giallo/verde – fin dal suo esordio politico – non abbiamo avuto incertezza evidenziando i limiti dell’egemonia culturale e materiale delle forze del grande capitale (derivanti dall’esaurirsi del generale ciclo della “globalizzazione capitalistica”) le quali, nella primavera scorsa, hanno, sicuramente, “perso le elezioni” a vantaggio, prevalentemente, di fasce di piccola borghesia (un tempo definita “ceto medio”).

Un settore ampio, stratificato e variegato nella sua composizione tecnica e sociale, che – nell’ambito dell’accresciuta competizione globale e delle difficoltà in essa dell’Azienda/Italia – paga, seppur in maniera differenziata, i costi e gli effetti della crisi. Un vero e proprio grumo sociale che non essendo in grado di praticare il classico terreno della lotta e della mobilitazione si affida, di volta in volta, (almeno per il momento) alla “rivolta elettorale e/o al voto per vendetta”.

Questo processo ha distrutto – sul piano elettorale e sul versante del radicamento nella società – non solo le vecchie sinistre di derivazione laburiste e socialdemocratiche ma anche quegli ibridi come il Partito Democratico di Renzi i quali tentavano di coniugare, malamente, la dottrina liberista in salsa europeista con le caratteristiche del sistema economico vigente in Italia.

Insomma ciò che, comunemente, si rappresentava come la “sinistra” nel nostro paese ha subito un colpo durissimo che – a tutt’oggi – ancora riverbera in quei comparti della società che, fino a qualche anno fa, erano i luoghi della concentrazione e della concertazione di interessi, di formazione delle variegate elites, di selezione dei gruppi dirigenti e, soprattutto, centri di formazione e persuasione del consenso con cui si riproduceva tale involucro politico e l’insieme dei suoi addentellati. Oggi in tale campo – prima con la sconfitta del Referendum costituzionale del 2016, poi con il terremoto elettorale del marzo scorso infine con le imbriglianti aspettative sull’azione del governo Conte – si avverte un clima da day after e di disorientamento ideale, politico ed organizzativo.

Apriamo il confronto

La Rete dei Comunisti non ha mai concepito la sua azione racchiusa al piano dell’astrazione ideologica o della mera propaganda dei “principi e del programma comunista”. Da sempre, come elemento caratterizzante del nostro profilo teorico/politico, abbiamo teorizzato e praticato una funzione agente nei movimenti di lotta sia sul terreno del conflitto sociale, sindacale e sia su quello del versante della solidarietà internazionalista e del confronto tra i comunisti. Abbiamo sempre lavorato affinché – dentro la crisi di rappresentanza che vivono i settori popolari della società – potesse configurarsi un movimento politico e sociale che interpretasse questo ruolo in maniera autonoma ed indipendente. Mai abbiamo inteso, né allora ed ancor più oggi, questo compito politico come “ricostruzione della sinistra”!

  1. L’unità antifascista non è quella che hanno in mente il Pd e La Repubblica

Gli stessi richiami all’unità antifascista, per funzionare hanno sempre bisogno di una verifica pratica: chi è disposto a battersi strada per strada contro i fascisti per sbarrargli il passo è sempre benvenuto, chi si limita all’antifascismo istituzionale e conformista è inservibile nella lotta antifascista. I richiami del Pd all’unità antifascista, ai quali i partiti della sinistra radicale si accodano spesso e volentieri, sono una trappola e una leva per poter ritornare al governo in nome dell’europeismo liberale e liberista, della supremazia dei grandi gruppi capitalistici e degli interessi privati sugli interessi popolari.

Appiattire l’attuale governo come un pericolo di ritorno al fascismo è una furbata strumentale, inaccettabile, inutilizzabile nella lotta di massa su contenuti democratici e di classe.

Il fascismo è nato per contrastare la paura del comunismo da parte dei padroni in Europa, ma ha anche affiancato un processo di modernizzazione del sistema capitalista (dall’Iri e l’Inps in economia al Futurismo come visione ideologica della modernità incarnata dal regime fascista).

Oggi le classi dominanti non temono rivoluzioni alle porte o conflitti sociali che ne minano le basi di potere, hanno il problema di gestire senza reazioni o resistenze un processo di regressione sociale complessiva, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato. Non hanno bisogno del fascismo, è ancora sufficiente uno stato autoritario con un forte dispositivo legislativo e coercitivo, quello che abbiamo definito il “modello Sabaudo”, più simile al bonapartismo nello stato ottocentesco che al ventennio fascista. Non è un fenomeno solo italiano.

Le leggi sull’ordine pubblico in Spagna o in Francia sono peggiori di quelle pensate da Minniti e realizzate dal Decreto Salvini. E hanno tutte le stesso obiettivo: la deterrenza e il controllo sociale per impedire che pezzi di società si oppongano in modo organizzato all’impoverimento, che si mettano di traverso rispetto ad un futuro ravvicinato in cui invece di “liberarsi dal lavoro” attraverso l’innovazione tecnologica, i padroni si “libereranno dei lavoratori” in quanto capacità produttiva in eccesso.

E di lì a cascata puntano a liberarsi di quote di popolazione inservibile perché anziana, a bassissimo o inesistente potere d’acquisto, immigrata nel paese al di fuori e oltre le necessità del capitale di forza lavoro. E dovranno esercitare il massimo controllo sociale sui giovani per i quali le aspettative generali si vanno brutalmente abbassando rispetto a quelle delle generazioni precedenti. Se si blocca o si riporta indietro la ruota della storia, è evidente che debbano impedire con qualsiasi mezzo che i segmenti sociali più avvertiti prendano coscienza e producano nuovamente conflitto verso l’emancipazione.

  1. La rottura con la sinistra esistente è un passo ineludibile per i comunisti

In questo scenario e sulla base di queste considerazioni, la Rete dei Comunisti intende contribuire a tutto campo alla rimessa in campo di una controtendenza generale sul piano politico, ideologico, sociale. Nell’ultimo anno abbiamo declinato con diversi incontri pubblici dentro la campagna elettorale per le politiche, la nostra ipotesi sulla funzione dei comunisti in un paese capitalista fondata su una organizzazione di quadri e articolata su tre fronti: quello strategico, quello politico, quello di massa.

Abbiamo contribuito storicamente alla costruzione del sindacalismo di classe, conflittuale e confederale. Più recentemente abbiamo contribuito all’esperienza di Potere al Popolo come movimento politico di massa capace di rimettere a tema la rappresentanza politica dei settori popolari. Infine abbiamo continuato il lavoro di attualizzazione del punto di vista teorico e strategico di una ipotesi rivoluzionaria nel XXI Secolo e in un’area a capitalismo avanzato come l’Europa.

In questo percorso di confronto, inchiesta e sperimentazione sul campo, riteniamo fondamentale mettere la parola fine ad ogni illusione o scorciatoia fondata sull’unità della sinistra, per i fattori di arretramento, logoramento, dispersione e opportunismo che questa continua a rappresentare.

L’ipotesi fin qui sperimentata da Potere al Popolo, in tal senso segna la maggiore potenzialità palesatasi negli ultimi anni sul piano della rappresentanza politica. Una rottura che per molti aspetti è anche generazionale, ma che ha messo a nudo definitivamente la crisi dell’esperienza dei partiti comunisti di massa e del ceto politico della sinistra ai fini del conflitto di classe.

Se c’è uno spazio politico da riempire per i comunisti e una funzione di classe da svolgere in mezzo ai segmenti del nostro blocco sociale, occorre rompere ideologicamente, culturalmente, politicamente e gergalmente con i riti e i miti della sinistra italiana.

Le soluzioni sul piano tattico, per quanto possano rivelarsi efficaci nell’immediato, non possono sostituire un progetto strategico. Soprattutto quando la logica della “sommatoria delle forze” e “dell’unità della sinistra” ha dimostrato in realtà di produrre risultati diametralmente opposti sul piano del consolidamento di una ipotesi di classe nel nostro paese.

Siamo dentro una fase di ricostruzione delle soggettività militanti e di tentativi di ricomposizione dei settori di classe (sociale, sindacale, culturale) per resistere ai tempi di ferro e di fuoco che stiamo attraversando e far ripartire una prospettiva di cambiamento della società e del mondo in cui viviamo. Su questo intendiamo mettere a confronto e a disposizione di tutti coloro che ne hanno interesse e disponibilità le esperienze e le elaborazioni raggiunte su una visione della lotta di classe per l’oggi.

Sulla base di questi appunti di metodo e di sostanza la RdC invita i comunisti, gli attivisti politici, sociali e sindacali, gli organismi popolari ad un confronto collettivo in tutte le città.

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2 Commenti


  • Nik Menna

    Ma ci invitate per cosa, per fare la “divisione della sinistra”? Non credo… Quindi sembra contraddittorio… PoI un’altra cosa non l’ho capita: ma con Pap si continua, so’ bravi loro? Anche se sono entusiasti, nati a ridosso di un’elezione senza riuscire a fare una sintesi manco con Rifondazione? Non l’ho capito molto quest’articolo, spero di poter avere riscontri. Io credo che appunto, non siamo riusciti a fare ancora l’unità ma non è che “tentare di fare l’unità è controproducente”.


  • marco

    Ma insomma i liberali i liberisti il PD è la Repubblica sono si o no nemici come la Lega la destra e i fascisti! ? Io dico di si è dei peggiori perché mascherati infiltrati e veri anticomunisti anticomunisti sul piano interno e internazionale

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