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Antonio Gramsci e l’Unità d’Italia

Capitolo IV

I primi decenni del secolo XIX presentano la realtà italiana come caratterizzata, sotto il profilo economico, da una prevalenza delle attività agricole su quelle manifatturiere e da una forte presenza della rendita parassitaria nelle attività produttive.

Sotto un profilo politico oggettivo la questione centrale è quella dell’unificazione territoriale delle varie realtà della penisola in un unico e nuovo Stato che consenta lo sviluppo economico della borghesia e, collegato ad essa, la questione dell’assetto istituzionale di questa nuova realtà statuale.

Soggettivamente, però, il tema centrale di battaglie e moti, che in questo periodo agitano i vari Stati e staterelli della penisola, è solo quello della limitazione del potere assolutistico dei vari sovrani e governanti attraverso l’introduzione di Costituzioni e Statuti che sanciscano quei diritti fondamentali dell’uomo, sempre più riconosciuto come cittadino e sempre meno visto come suddito, di cui la Rivoluzione francese e Napoleone si erano fatti vessillo su tutto il Continente.

I moti del 1820-31 partono dal Sud, dal Regno delle due Sicilie, dove il 1° luglio del 1820 un moto “preparato da pochi, voluto da tutti” (come si scrisse all’epoca) ottenuta l’adesione massiccia dell’esercito, impone al Re Ferdinando I la Costituzione spagnola del 1812, non senza qualche resistenza ed opposizione delle componenti separatiste ed indipendentiste siciliane. Qualche mese più tardi un analogo moto viene preparato nel lombardo-veneto, ma i congiurati vengono arrestati prima di passare all’azione (fra essi S. Pellico e P. Maroncelli).

Subito dopo in Piemonte, dove la monarchia sabauda (Vittorio Emanuele I), re-insediatasi sul trono con la Restaurazione, aveva cancellato quasi tutte le riforme del periodo napoleonico, nella notte fra il 9 e 10 marzo del 1821 con l’ammutinamento della guarnigione di Alessandria si avvia il moto cospirativo che, oltre alla rivendicazione costituzionale (lo Statuto), fa appello alla monarchia perchè muova guerra all’Austria, facendo leva sulle mire espansionistiche della Casa Reale, per giungere, così, alla costituzione di un Regno costituzionale nel Nord Italia.

Gli insorti saranno sconfitti l’8 aprile del ’21 a Novara dal generale lealista De la Tour, che, appoggiato dagli austriaci, due giorni più tardi entrerà a Torino, dopo che il reggente Carlo Alberto prima aveva promesso la promulgazione di una Carta Costituzionale e poi si era rimangiato la parola.

Questo atteggiamento oscillante verso le riforme liberali da parte della casa regnante sabauda, a cui si accompagna l’ostilità aperta al liberalismo di buona parte dell’aristocrazia di corte che, invece, in più di un’occasione simpatizza apertamente per l’Austria, sarà una caratteristica costante nella politica piemontese fino a Cavour.

L’ultimo sussulto insurrezionale di questo periodo si ha con la cosiddetta “congiura estense”, che a febbraio del 1831 vede la creazione di governi provvisori, liberali, a Bologna, Modena e Parma, dopo la fuga del duca di Modena, Francesco IV, che pure aveva intrattenuto rapporti segreti con i carbonari, e di Maria Luisa di Parma. La congiura si conclude con la repressione violenta degli insorti ad opera dell’esercito austriaco, intervenuto a sostegno dei regnanti fuggiti, e l’impiccagione del patriota Ciro Menotti, organizzatore della sommossa, e del notaio Vincenzo Borelli, colpevole di aver stilato l’atto che proclamava decaduto Francesco IV.

Questi primi passi del processo risorgimentale sono caratterizzati, schematicamente, dalla natura elitaria dei movimenti, composti prevalentemente da aristocratici illuminati e che, il più delle volte, vedono come protagonista l’esercito, a Napoli ben strutturato dopo l’esperienza murattiana, in Piemonte interessato all’espansione territoriale del regno.

Scopo principale di queste prime battaglie è quello, come si è detto sopra, di temperare i regimi assolutistici con la promulgazione di norme costituzionali, mentre scarsamente presente è ancora l’obbiettivo dell’unificazione nazionale. L’esercito austriaco resta il gendarme operativo nella Penisola per dare sostegno ai traballanti regimi reazionari.

La struttura organizzativa cospirativa, elitaria e minoritaria (come del resto tutto il movimento in questa fase), fa capo alla Massoneria, già veicolo in Europa delle idee illuministiche e liberaleggianti nel secolo XVIII.

In questo periodo la Massoneria, che in Italia si chiama Carboneria, non riesce ancora a strutturare in maniera unitaria, a livello nazionale, tutte le varie sette territoriali e tutto il movimento in sviluppo. Di essa Gramsci dice:

[…] Si può osservare: 1°) che la molteplicità delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all’essere dovuta al carattere clandestino del movimento settario, è certamente dovuta anche alla primitività del movimento stesso, cioè all’assenza di tradizioni forti e radicate, e quindi all’assenza di un organismo «centrale» saldo e con indirizzo fermo…[1]

Nonostante ciò, il movimento, già in questa prima fase, possiede un suo sincronismo su tutto il territorio nazionale ed il Sud fa da detonatore.

[…] Ciò che nel periodo del Risorgimento è specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche, il Sud ha l’iniziativa dell’azione: 1799 Napoli, 20-21 Palermo, 47 Messina e la Sicilia, 47-48 Sicilia e Napoli. Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che ogni movimento assume nell’Italia Centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle iniziative popolari (relative) va dal 1815 al 1849 e culmina in Toscana e negli Stati del Papa (la Romagna e la Lunigiana occorre sempre considerarle come appartenenti al Centro)….

Questo relativo sincronismo e simultaneità mostra l’esistenza già dopo il 1815 di una struttura economico-politica relativamente omogenea, da una parte, e dall’altra mostra come nei periodi di crisi sia la parte più debole e periferica a reagire per la prima….[2]

I ripetuti fallimenti dei moti carbonari degli anni 20-30, la loro dimensione localistica e provinciale, la crescita economica della borghesia italiana e la partecipazione di strati sempre più ampi di “popolo” alle ribellioni ed alle rivolte, non potevano che determinare la crisi della Carboneria e dei metodi cospirativi elitari, che essa praticava.

La nascita della Giovine Italia ad opera di Giuseppe Mazzini fu uno degli esiti di questa crisi. L’allargamento del target di interlocuzione della nuova organizzazione rivoluzionaria, giovani studenti e intellettuali, rispetto all’esercito ed a singoli esponenti dell’aristocrazia illuminata; il carattere nazionale della struttura organizzativa, rispetto ad un’impostazione localistica; l’attività politica pubblica rivolta apertamente, attraverso i giornali, al “popolo”, vero protagonista del cambiamento attraverso l’insurrezione, invece di un’azione cospirativa segreta condotta da singoli individui; questi, schematicamente, le principali differenze organizzative con la Carboneria.

Tuttavia, è sul programma politico che si registrano le principali novità: Unità del territorio nazionale, Indipendenza dall’Austria e Repubblica come forma istituzionale del nuovo Stato da conquistare; ecco i dogmi della fede mazziniana, intrisa di misticismo, concepita in unità con un’azione politica da vivere come “missione morale” e nutrita da una coerenza, quasi ossessiva, fra “pensiero ed azione”.

Le repressioni antidemocratiche, a cui non si sottrae la monarchia sabauda, e gli insuccessi dei primi moti mazziniani, fra cui va ricordato il tentativo insurrezionale dei Fratelli Bandiera conclusosi con la fucilazione a Cosenza dei patrioti, determinano la crescita delle varie espressioni del cosiddetto liberalismo moderato.

Queste correnti erano accomunate dal rifiuto di ricorrere ai metodi violenti propugnati dal Mazzini per raggiungere, invece, quello stesso obbiettivo della costituzione dello stato nazionale unitario, garante dei diritti che il liberalismo propugnava, attraverso le riforme di governi illuminati e di prìncipi solidali al progetto dell’unificazione nazionale.

Il rappresentante più illustre di questa corrente moderata fu l’abate V. Gioberti, autore dell’opera Del primato morale e civile degli italiani, pubblicata nel ’43, accomunato al Mazzini dalla missione storica che attribuiva popolo italiano, ma che a differenza di quello, pensava potersi realizzare sotto la guida del Papato.

[…] Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in processo di sviluppo… [3]

L’altra componente del moderatismo ante-’48, in lotta aperta con il democraticismo mazziniano, è quella di Cesare Balbo, aristocratico reazionario della Corte sabauda che propone, come Gioberti, di pervenire all’unità attraverso la realizzazione di una Confederazione fra gli stati italiani, ma a differenza di quello che la immaginava guidata dal Papa, Balbo inizia a realizzarla con una Lega doganale a guida piemontese.

[…] La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo: facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani; i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata (il Balbo nelle Speranze d’Italia aveva sostenuto che la Confederazione era impossibile finché una parte d’Italia fosse stata in mano agli stranieri!?) e disdissero la Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo le guerre (!?): la Confederazione fu respinta nel 48, nei primi mesi (confrontare).

Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica e doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa per rendere possibile l’attuazione del motto «l’Italia farà da sé».

Questa politica infida nei rapporti della Confederazione, con le altre direttive altrettanto fallaci a proposito dei volontari e della Costituente, mostra che il moto del 48 fallì per gli intrighi furbescamente meschini dei destri, che furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare un indirizzo, né politico né militare, al moto nazionale.[4]

Ma la soluzione federalistica del problema dell’unità nazionale non è un patrimonio solo dei moderati alla Gioberti o dei reazionari “municipalisti” alla Balbo; essa è sostenuta anche da correnti democratico-repubblicane, come quella di Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari a Milano, che esprimono gli interessi della nascente borghesia industriale lombarda, più evoluta di quella piemontese, che mal tollera l’egemonia del Regno sabaudo:

[…] Il federalismo di Ferrari-Cattaneo. Fu l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia.

La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo presentasse il federalismo come immanente in tutta la storia italiana non è altro che elemento ideologico, mitico, per rafforzare il programma politico attuale. …

E Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro lotte, dalle modificazioni reciproche che le lotte stesse determinano e anche dalla funzione delle forze passive e latenti come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la funzione eminente dei rapporti internazionali.[5]

Il 1848 è l’anno in cui in Europa scoppiano con più fragore le contraddizioni covate negli anni precedenti e l’Ancien regime vacilla pericolosamente, preannunciando il crollo definitivo che si verificherà negli anni successivi con la nascita di Stati nazionali costituzionali.

In Italia la scintilla dei moti insurrezionali del ’48 scoppia ancora una volta nel Sud a Palermo e si estende subito nel napoletano, costringendo Ferdinando II di Borbone a concedere il 29 gennaio del 1848 una costituzione sul modello di quella francese del ’30, nonostante che in un primo momento avesse invocato l’intervento delle truppe austriache, senza successo, però, per il rifiuto di Pio IX di farle passare sul proprio territorio. Leopoldo II, Carlo Alberto e Pio IX seguono a breve il re Borbone.

A proposito di Pio IX, Gramsci scrive:

[…] Che il liberalismo sia riuscito a creare la forza cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico cattolico e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano.[6]

Ma è nel Lombardo-Veneto ed in particolare a Milano, dove lo scontro diretto con l’Austria diventa inevitabile, che si realizza il banco di prova per testare la validità delle teorie politiche sulla realizzazione dell’unità nazionale e sui vari “partiti” che le sostengono.

Il 17 marzo un’insurrezione a Venezia proclama la Repubblica con a capo i patrioti Niccolò Tommaseo e Daniele Manin, precedentemente liberati dal carcere. Il giorno dopo, il 18 marzo, è la volta di Milano, che dopo cinque giornate di combattimenti, caccia dalla città le truppe del generale Radetsky. Come a Parigi, il contributo degli operai all’insurrezione è notevole:

“La maggior parte degli uccisi, annota ancora il Cattaneo, doveva ben essere tra gli operai; le barricate e gli operai vanno insieme come cavallo e cavaliere”. [7]

Il Consiglio di guerra che guida la sommossa è diretto dai democratici-federalisti di Carlo Cattaneo, nonostante che gli stessi avessero frenato lo scoppio della rivolta, temendo di esporre la città, poco armata e poco difesa, alla repressione di generali austriaci feroci e temendo, anche, che un intervento piemontese vincente avrebbe soffocato le ambizioni indipendentiste e autonomiste dei milanesi.

L’aristocrazia milanese, che fino a qualche giorno prima aveva ossequiato gli austriaci, attraverso il Governo provvisorio sollecita ora l’intervento armato contro l’Austria da parte di Carlo Alberto, che per suo conto già coltivava, insieme con i reazionari del cosiddetto partito “municipalista”, il disegno di un allargamento del regno nel Lombardo-Veneto, ma temeva che l’egemonia dei federalisti-repubblicani sulla rivolta in atto ne pregiudicasse il raggiungimento.

L’intervento piemontese caccia definitivamente gli austriaci, che si rinchiudono nel cosiddetto “quadrilatero” (le fortezze di Verona, Legnago, Peschiera e Mantova) e suscita entusiasmi in tutti gli stati della penisola. Accorrono volontari da tutte le parti e per effetto della Lega promossa da Balbo, lo Stato Pontificio, il Gran Ducato toscano ed il Regno dei Borboni mandano truppe a sostegno della guerra anti-austriaca.

La conduzione politico-militare della guerra da parte dei piemontesi è fallimentare. La “piemontesizzazione” delle prime vittorie ed il contestuale esautoramento della Lega, favoriscono il ritiro dal conflitto degli Stati fino a quel momento alleati. Pio IX e Ferdinando II revocano le Costituzioni poco prima concesse nei loro Stati.

Anche sotto il profilo più propriamente tecnico-militare, il rifiuto preconcetto dei generali piemontesi di coordinare all’esercito regolare i volontari accorsi e la lentezza di movimento delle truppe, che favorisce l’arrivo di rinforzi per l’esercito austriaco, portano alla grave sconfitta di Custoza, dove vengono sbaragliate le truppe sabaude il 23-25 luglio 1848. Dopo aver promesso la sua difesa, Milano viene vergognosamente abbandonata alla vendetta dei vincitori.

[…] Il fallimento della guerra regia ed il naufragio dell’ ipotesi moderata e neo-guelfa aprono la strada ad un impetuoso ritorno dell’iniziativa democratica mazziniana della “guerra di popolo”. Alla Repubblica di Venezia guidata da Manin, si aggiungono il Granducato di Toscana….e Roma dove…si era costituita la repubblica retta da G.Mazzini, C.Armellini ed A.Saffi [8]

Di fronte alla possibile concretizzazione del disegno di uno Stato unico democratico nell’Italia centrale, il Governo sabaudo, dopo un iniziale tentativo di Gioberti di offrire aiuto a Pio IX e Leopoldo II, si decide a dichiarare nuovamente guerra all’Austria (Governo Chiodo-Rattazzi).

Questa volta Carlo Alberto subisce a Novara il 23 marzo 1849 un’altra pesante sconfitta, che lo costringe all’abdicazione in favore di V.Emanuele II. La reazione austriaca riporta il Granduca in Toscana, mentre un esercito francese, sceso in Italia in aiuto al Papa, costringe alla resa la Repubblica Romana dopo una difesa eroica condotta dai volontari sotto la guida di Garibaldi.

Il 1848 rappresenta un po’ la fase terminale dell’onda lunga che, considerata in maniera unitaria, dalla Rivoluzione francese del 1789 si protrae fino al 1870, assumendo, dopo il 1815, più la caratteristica di rivoluzione passiva-guerra di posizione, che quella di rivoluzione attiva-guerra di movimento come era stato fino ad allora.

[…] Il rapporto «rivoluzione passiva – guerra di posizione» nel Risorgimento italiano può essere studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si può chiamare del «personale» e l’altro della «radunata rivoluzionaria». Quello del «personale» può essere appunto paragonato a quanto si verificò nella guerra mondiale nel rapporto tra ufficiali di carriera e ufficiali di complemento da una parte e tra soldati di leva e volontari-arditi dall’altra. Gli ufficiali di carriera corrisposero nel Risorgimento ai partiti politici regolari, organici, tradizionali, ecc., che al momento dell’azione (1848) si dimostrarono inetti o quasi e furono nel 1848-49 soverchiati dall’ondata popolare-mazziniana-democratica, ondata caotica, disordinata, «estemporanca» per così dire, ma che tuttavia, al seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di formazioni precostituite come era il partito moderato) ottennero successi indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la Repubblica romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto notevole. Nel periodo dopo il 48 il rapporto tra le due forze, quella regolare e quella «carismatica» si organizzò intorno a Cavour e Garibaldi e diede il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour.

Questo aspetto è connesso all’altro, della «radunata». È da osservare che la difficoltà tecnica contro cui andarono sempre a spezzarsi le iniziative mazziniane fu quella appunto della «radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da questo punto di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia col Ramorino, poi quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc., paragonato con la situazione che si offrì a Mazzini nel 48 a Milano e nel 49 Roma e che egli non ebbe la capacità di organizzare. Questi tentativi di pochi non potevano non essere schiacciati in germe, perché sarebbe stato maraviglioso che le forze reazionarie, che erano concentrate e potevano operare liberamente (cioè non trovavano nessuna opposizione in larghi movimenti della popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate meglio di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo (1859-60) la radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di Garibaldi, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità di costituire piazze d’armi per radunate organiche, ma non si propose di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo democratico milanese. [9]

In Italia il biennio 1848-9 è il periodo in cui i moti insurrezionali su tutto il territorio, se è vero che non ottengono il risultato di costituire una nuova realtà, scuotono, però, dalle fondamenta l’assetto istituzionale di stati e staterelli, semplificano il quadro politico complessivo e pongono al centro del dibattito e dell’agenda politica la questione dell’unificazione territoriale.

[…] Mi pare che gli avvenimenti degli anni 1848-49, data la loro spontaneità, possano essere considerati come tipici per lo studio delle forze sociali e politiche della nazione italiana. Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i reazionari moderati, municipalisti –, i neoguelfi – democrazia cattolica –, e il partito d’azione – democrazia liberale di sinistra borghese nazionale –. Le tre forze sono in lotta fra loro e tutte e tre sono successivamente sconfitte nel corso dei due anni. Dopo la sconfitta avviene una riorganizzazione delle forze verso destra dopo un processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e scissione. La sconfitta più grave è quella dei neoguelfi, che muoiono come democrazia cattolica e si riorganizzano come elementi sociali borghesi della campagna e della città insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di destra liberale conservatrice.[10]

Il biennio 1848-9 rappresenta uno di quei momenti, come se ne presenteranno anche in seguito, in cui il popolo italiano si trova unito a risolvere un problema comune. Dalla comune esperienza maturano delle riflessioni:

[…] Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnovò, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l’ala sinistra del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè dall’interno, furono i saggi del Pisacane, che però non divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale italiana.[11]


[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.1997

[2] A.Gramsci, Op.cit. pag.2037

[3] A.Gramsci, Op.cit. pag.1988

[4] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2061-2

[5] A.Gramsci, Op.cit. pag.961

[6] A.Gramsci, Op.cit. pag.1164

[7] P.Ortoleva e M.Revelli,Storia dell’Età Contemporanea.Ed scolastiche Bruno Mondatori. Milano 1988. pag.118

[8] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.119

[9] A.Gramsci, Op.cit. pag.1772

[10] A.Gramsci, Op.cit. pag.944

[11]A.Gramsci, Op.cit. pag.1769

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