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“La guerra che verrà…”

La guerra che verrà non è la prima.

Prima ci sono state altre guerre.

Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Fra i vinti la povera gente faceva la fame.

Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.

Bertolt Brecht

L’aggressione alla Libia, ufficialmente cominciata il 19 marzo 2011 con i bombardamenti umanitari della “Coalizione di Volenterosi”, obbliga oggi l’intero movimento contro la guerra ad uno sforzo di analisi e di comprensione. Nella quinta impresa bellica in cui si è imbarcata l’Italia dal 1991, ci sembrano infatti essere diversi gli elementi di novità, e soltanto individuando questi elementi e la loro collocazione in uno scenario ampiamente mutato possiamo provare ad essere efficaci nella nostra lotta. È quello che proveremo a fare nelle pagine seguenti, che segnano un piccolo tentativo di interpretazione degli avvenimenti, a partire dai dati di fatto più che da posizioni ideologiche prestabilite.

Per cominciare, possiamo dire che la “vecchia” equazione imperialismo=Usa, già logora da moltissimi anni, si è fatta ormai praticamente insostenibile. Ci sembra infatti che, per meglio comprendere la cornice nella quale è stato progettato e realizzato questo attacco, sia necessario guardare in “casa nostra” ed interrogarci su quale ruolo abbia giocato il polo europeo nel decidere il conflitto. Forse è proprio perché la guerra contro la Libia è la “nostra” guerra che è così difficile parlarne: non solo i media hanno effettuato una vera e propria operazione di rimozione (tanto che già a due giorni dal primo attacco aereo ha perso il primato sulle pagine dei giornali e nelle scalette dei tg, scivolando verso il fondo), ma stiamo anche assistendo – forse come mai prima d’ora – ad un’operazione di criminalizzazione di chiunque si opponga a questo conflitto ed alla violenta mistificazione delle ragioni di questa opposizione. Non ci soffermeremo sul presunto “sostegno a Gheddafi” attribuito a – quasi – chiunque stia provando a fare controinformazione o a mobilitarsi contro la guerra: questa è una manovra ideologica che era già stata tentata alla fine degli anni ’90 per i Balcani, e poi per l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq. È persino ovvio che opporsi a queste guerre e smascherarne le reali ragioni e interessi non rappresenta in alcun modo una forma di sostegno ai vari leaders di questi paesi (rappresentati per l’occasione come “Male assoluto” e “nuovi Hitler”): questa impostazione ci sembra quanto meno risibile, quando non puramente opportunistica. Noi in piazza contro la guerra ci siamo sempre scesi, e crediamo che oggi, a giustificarsi, debbano essere gli assenti.

Se lo scenario in Nord Africa sembra ancora oggi soggetto a mutamenti non di misura, quello che ci proponiamo di fare qui è un passo indietro, ragionando su quali siano i passaggi che hanno portato, negli ultimi anni, a creare le condizioni per l’attacco alla Libia, su quali rapporti siano intercorsi nel recente passato tra aggressore e aggredito, senza cimentarci nella – pur fondamentale – analisi delle rivolte e delle situazioni peculiari dei vari paesi nordafricani.

Questo percorso a ritroso ci servirà, in primo luogo, a smentire l’idea diffusa di un attacco deciso in maniera improvvisata e repentina e in un’ottica di pura “rapina”, e a leggere, in questo quadro, le rivolte in Nord Africa come condizione necessaria per un’offensiva imperialista nel Mediterraneo. Infatti, difficilmente un’opzione militare sarebbe stata possibile in un quadro di stabilità dell’Africa settentrionale. La caduta di governi come quelli di Ben Ali e Mubarak – che avevano solidi rapporti con Gheddafi – è stata indispensabile per determinare un contesto politico adeguato all’intervento europeo, così come senza i movimenti popolari in Maghreb e in Egitto difficilmente le potenze imperialiste sarebbero riuscite a trovare un sponda, seppur modesta, all’interno della popolazione libica. L’imperialismo europeo e americano ha colto quindi le rivolte come una possibilità di rilancio dei propri programmi nell’area dimostrando da subito un ottima capacità di gestire la “transizione”, e neutralizzare le spinte più radicali, così come testimonia il caso egiziano. Allo stesso tempo però è proprio quest’azione – che mira ad un’integrazione delle economie dei paesi del mediterraneo e spinge di fatto verso una sempre maggiore proletarizzazione delle popolazione della “riva sud” – a creare condizioni e prospettive inedite per le forze progressiste e antimperialiste sia del Nord Africa che del vecchio continente.

In secondo luogo vorremmo provare a leggere i fatti delle ultime settimane come cartina di tornasole per le trasformazioni interne all’assetto dell’UE e l’orientamento e gli interessi strategici europei nell’area mediterranea. Proveremo perciò a superare la concezione che vuole ridurre questo conflitto a “guerra per il petrolio” o, peggio, a semplice ritorno al “colonialismo” (come controllo diretto delle risorse dei paesi colonizzati), o ancora che lo interpreta come potente riaffermarsi dello “Stato-nazione” sullo scenario internazionale. Per quanto a prima vista possa sembrare paradossale, ci sembra infatti che la politica “estera” dell’Unione Europea esca rafforzata, non indebolita, da questo attacco, tanto più necessario dal momento che l’egemonia dell’UE sul Mediterraneo e l’Africa è disputata ogni giorno di più non solo con lo storico avversario statunitense, ma anche con altri astri nascenti, come Cina e Russia.

Maturazione dell’imperialismo europeo

Ad una prima lettura dei fatti il protagonismo dell’imperialismo europeo in questo conflitto – l’Europa che si muove non più a rimorchio degli USA – appare come l’elemento di maggiore novità rispetto al passato. In realtà questa autonomia dal blocco statunitense era emersa con forza già nel 2003 relativamente al conflitto in Iraq, quando Germania e Francia, stati trainanti nel processo di costruzione europea, si erano opposte tenacemente all’intervento provocando una profonda frattura con GB, Italia e Spagna. All’epoca in pochi però credevano nella capacità da parte delle borghesie del vecchio continente di muoversi sul piano militare in maniera indipendente dall’alleato americano: quello che è accaduto in Libia, con le incursioni dell’aviazione francese a poche ore dall’approvazione della risoluzione 1973 dell’ONU e gli aerei a “stelle e strisce” costretti ad inseguire l’iniziativa di Sarkozy, dimostra esattamente il contrario. L’esempio francese è stato seguito a ruota, dopo un primo momento di esitazione, dalla presa di posizione tedesca a favore dell’intervento: è di pochi giorni fa la dichiarazione del Ministro degli Esteri Westerwelle secondo cui la Germania si è detta pronta ad inviare truppe di terra in caso di necessità (si tratta dei reparti militari facenti parte dell’operazione “Eufor Lybia”, il cui quartier generale si trova a Roma, nell’aeroporto «Francesco Baracca» di Centocelle). Evidentemente non vogliamo liquidare con queste poche parole il ruolo che gli Stati Uniti stanno in ogni caso avendo in questo attacco – e soprattutto nel “cambio della guardia” avuto in seguito alle rivolte in altri paesi del Nord Africa e in particolare in Egitto – né le relazioni, nebulose, che intercorrono tra USA e alcune componenti dell’insurrezione libica, ma solo evidenziare il “passo in avanti”, da un punto di vista dell’autonomia e della centralità dell’UE.

Il fattore che invece ci appare qualitativamente nuovo rispetto ai conflitti degli ultimi anni è, a nostro avviso, costituito dalla capacità di mantenere, seppur a fatica, coeso il blocco europeo. A differenza del 2003, questa volta, pur partendo da una situazione difficilissima che vedeva paesi come Italia e Germania inizialmente critici, seppur per ragioni differenti, rispetto alla possibilità di un intervento in Libia, si è riusciti, dopo le frizioni iniziali, a ricomporre le posizioni evitando di creare crepe significative all’interno del fronte interventista. E’ evidente che ciò è stato possibile non in virtù del ricorso alla mediazione, ovvero al tentativo di conciliare tendenze – e soprattutto interessi – differenti all’interno dell’Unione, attraverso una consultazione trasversale e a più voci tra i vari paesi membri, ma grazie alla capacità delle fazioni di capitale più forti – in questo caso di GB e soprattutto Francia – di determinare le regole del gioco, di dettare una linea ed imporla agli altri. In questo senso il caso dell’Italia è paradigmatico: il “nostro” paese, che in questi anni, attraverso una politica essenzialmente bilaterale, era riuscito a rafforzare ulteriormente la propria posizione in Libia, si è visto costretto in pochi giorni a rivedere radicalmente la propria posizione e ad aggregarsi alla coalizione dei cosiddetti “volenterosi”. L’aspro dibattito circa il passaggio del comando delle operazioni alla Nato rappresenta un altro tassello importante che ci permette di capire come nel tempo l’Alleanza Atlantica, da mero strumento militare ad egemonia USA, in un percorso che parte dalla fine della Guerra Fredda, vada trasformandosi sempre più nel luogo dove vengono ricomposti e mediati gli interessi dei blocchi imperialisti.

La Libia come nodo strategico per la penetrazione dell’UE nel Mediterraneo

Come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, molti, anche nel movimento contro la guerra, sembrano essere stati colti di sorpresa da questa escalation militare, tanto da arrivare a parlare di “attacco improvvisato” da parte delle potenze imperialiste, che avrebbero agito da sprovveduti senza sapere bene cosa trarne dalla situazione, se non il petrolio e il gas. Ma basta fare un passo indietro e rivedere il dibattito interno all’UE negli ultimi anni e il ruolo svolto dalla Libia nel processo di creazione dell’Unione per il Mediterraneo (UpM) promosso dalla Francia, per verificare che anche in questo caso si rivela vero il motto di Von Clausewitz, secondo cui “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”.

Nell’ottobre del 2006, durante la campagna elettorale per le presidenziali francesi, Sarkozy lancia per la prima volta la proposta dell’UpM come fulcro del programma di politica estera del suo partito UMP (Union pour un Mouvement Populaire). Da subito il futuro presidente parla della Libia come nodo centrale per la realizzazione del progetto, visto e considerato che proprio la forte opposizione di Gheddafi era stata uno degli elementi che aveva determinato precedentemente il fallimento del Processo di Barcellona. Vale la pena fare quindi un passo indietro: il Processo di Barcellona, ovvero la strategia comune europea per l’area mediterranea, era stato avviato nel 1995 ponendosi ambiziosi obiettivi, tra i quali la realizzazione di un area di libero scambio entro il 2010, ma negli anni si era poi arenato fino al clamoroso insuccesso del vertice del 2005, disertato – ufficialmente per divergenze in materia di terrorismo – dai capi di Stato di tutti i paesi della riva meridionale ad eccezione di Israele, Turchia e Autorità Nazionale Palestinese.

I motivi alla base del fallimento del Processo di Barcellona sono diversi, a cominciare dalla maggiore attenzione dedicata dall’UE dal ’95 al 2005, su spinta del capitale tedesco, al processo di integrazione dei paesi dell’est europeo. La tendenza da parte dei paesi che sono stati i principali promotori della costruzione del blocco europeo, Francia e Germania, è dunque quella di individuare due aree di influenza e di “allargamento” dell’Unione, sia pure in forme e modi differenti: se la Germania va, e con essa l’intera UE, con successo “verso est”, la Francia prepara il terreno per estendere la sua influenza nell’area mediterranea, forte anche dei legami con le ex-colonie. Nello stesso periodo la politica particolarmente aggressiva degli USA in Medio Oriente ha rappresentato un ulteriore ostacolo a questa espansione a “sud”, cui si è aggiunto l’ostruzionismo della Turchia, preoccupata di un arresto del proprio percorso di adesione all’UE in cambio della semplice partecipazione al partenariato euromediterraneo.

Il Processo di Barcellona ha poi  incontrato non poche resistenze proprio a causa dell’opposizione della Libia che, in virtù anche delle sue accresciute capacità finanziarie, negli stessi anni è riuscita ad esercitare sempre maggiore influenza sui paesi della sponda sud inducendoli spesso ad atteggiamenti di intransigenza rispetto alle politiche dell’Unione Europea. In risposta a tutti coloro i quali sostengono che questo attacco militare nulla abbia che vedere con l’imperialismo in quanto per i capitali europei Gheddafi era il “miglior alleato possibile” e sarebbe stato superfluo, anzi dannoso, “farlo fuori” possiamo dunque dire che il leader libico rappresentava sì per la borghesia italiana, e in particolare per quel blocco facente capo all’attuale Governo, un ottimo partner economico e commerciale, ma in una prospettiva “europea” – quale quella adattata dalla Francia – di estensione della sfera di influenza UE in area mediterranea, Gheddafi costituiva un ostacolo. Per fugare ogni dubbio teniamo a sottolineare come il leader libico costituisse uno scomodo interlocutore, non certo grazie alla sua spesso millantata tendenza all’antimperialismo o addirittura al socialismo, ma piuttosto al suo – legittimo, visto che parliamo di libero mercato – desiderio di vendersi al miglior offerente ritagliandosi un certo margine di autonomia.

Il 6 maggio 2007, vinte le elezioni, Sarkozy dedica gran parte del suo discorso alla politica estera ed in particolare all’Unione per il Mediterraneo, che viene definita come una priorità per il nuovo esecutivo. Alle parole seguono i fatti. La diplomazia francese comincia a lavorare allo sdoganamento di Gheddafi e in pochi mesi si arriva (dicembre 2007) alla storica visita del leader libico a Parigi, dove viene ricevuto in pompa magna e vengono conclusi accordi commerciali per 10 miliardi di euro. A Roma, dopo pochi giorni, Sarkozy, Prodi e Zapatero firmano l’accordo che sancisce l’inizio del percorso per la creazione dell’UpM. Anche stavolta il progetto incontra però le prime difficoltà: in particolare pesano le critiche della Germania preoccupata dall’impostazione data a quest’unione dai francesi. L’UpM è infatti inizialmente pensata come organizzazione esclusivamente riservata ai paesi rivieraschi e con l’UE è previsto un semplice coordinamento e non l’incorporazione all’interno del Processo di Barcellona. Nello scontro tra queste due tendenze si afferma infine la posizione tedesca: l’approvazione del progetto da parte del consiglio europeo il 18 marzo 2008 riconduce il tutto alla cornice comunitaria. Si arriva così ad organizzare il primo vertice della neonata unione previsto a Parigi il 13 e 14 luglio 2008 in concomitanza con il semestre di presidenza francese, ma anche stavolta sorgono nuovi problemi. Ancora una volta è il governo libico a criticare aspramente l’UpM, inizialmente salutata con un certo favore, in quanto tale progetto, così come il Processo di Barcellona, è giudicato assolutamente sbilanciato a favore dell’Europa. Il 10 giugno 2008 a Tripoli si svolge un vertice, su iniziativa di Gheddafi, a cui partecipano il presidente tunisino Ben Ali, i colleghi dell’Algeria Bouteflika e della Mauritania Abdallahi, il premier marocchino El Fassi, i presidenti della Siria, Assad, e dell’Egitto Mubarak, proprio per far sì che questi Paesi arrivino al vertice di Parigi con una posizione comune. I paesi della sponda sud decidono di aderire alla nascita dell’Unione per il Mediterraneo, seppur con posizioni abbastanza critiche, mentre la Libia preferisce partecipare solo come osservatore. Il summit di Parigi sancisce la nascita dell’UpM, ma, a parte le solite dichiarazioni solenni e i buoni propositi, dal punto di vista pratico l’esito è semplicemente interlocutorio. I due anni successivi non danno i risultati sperati e così anche l’Unione per il Mediterraneo entra in una fase di stallo. La crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 ha infatti cambiato l’agenda dell’UE e ha fatto in modo che le risorse venissero maggiormente concentrate all’interno dei confini comunitari mettendo momentaneamente da parte i progetti per l’area mediterranea. Inoltre alla ferma opposizione posta dalla Libia si è aggiunta, nel 2008 e nel 2009, una caduta di interesse verso l’UpM da parte degli altri paesi del Nord Africa che, forti di un ottima tenuta delle proprie economie, hanno privilegiato altri partner commerciali tentando di impostare nuovi equilibri nei propri rapporti con l’Europa.

Il 2010 con il consolidamento della ripresa economica in paesi come Francia e Germania ha portato invece ad un nuovo dinamismo dell’Unione sia sul fronte interno, attraverso politiche di taglio dello stato sociale e di aumento dello sfruttamento della forza lavoro, sia sul fronte esterno, con la ripresa dei progetti per l’ampliamento della propria sfera di influenza. Contemporaneamente l’aumento del prezzo delle materie prime (specie alimentari) aggravato da manovre speculative, è stato fatale per la tenuta sociale dei paesi della sponda sud del Mediterraneo. Proprio questi mutamenti hanno creato le condizioni ideali per un rilancio nell’area mediterranea dell’imperialismo europeo che ha immediatamente concentrato i propri sforzi nel rimuovere quelli che, negli ultimi venti anni, si erano posti come ostacoli nell’area.

La virata sostanziale rispetto al progetto dell’UpM riguarda dunque non tanto l’area da penetrare, quanto la differenziazione degli strumenti di penetrazione da paese in paese: Catherine Ashton (Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza) ha ad esempio proposto, nell’ambito del vertice straordinario dell’Ue di metà marzo sulla crisi libica, ‘‘traendo le lezioni da quanto accaduto”, di sperimentare una “Partnership per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo Sud’’ che si fondi su un “approccio di differenziazione e di incentivi’’… L’area mediterranea non va più dunque considerata come un blocco unico che in quanto tale poteva avere una forza e un’autonomia maggiori. La guerra alla Libia può dirci molto riguardo a quest’“approccio differenziato” – la strategia di intervento per la penetrazione del capitale europeo nei paesi nordafricani si sta mostrando in effetti variegata: per alcuni il logorio sotterraneo di servizi e diplomazia, per altri il boato delle bombe. D’altro canto questo conflitto fa anche crollare una volta per tutte il tanto propagandato mito della collegialità decisionale e della natura profondamente democratica e paritetica nelle relazioni tra gli Stati membri dell’UE e mostra, come forse mai prima d’ora, l’emersione e l’egemonia di alcuni Stati-guida – la cui politica estera promuove, sia pure attraverso percorsi differenti, quella del blocco europeo e coincide con essa – e la “messa da parte” di tutti quei Paesi che, pur non costituendo un semplice bacino di forza lavoro a minor costo (come potremmo considerare, non senza differenziazioni e sfaccettature, quelli esteuropei) sono il fanalino di coda dell’Unione e hanno poca o nessuna voce in capitolo nelle sue scelte strategiche sul piano politico ed economico. È in quest’ottica che abbiamo proposto l’equazione tra attacco francese e politica di espansione europea.

L’Italia, e in particolare il blocco di borghesia facente capo al centro-destra, oggi paga il suo orientamento “conservatore” – nel senso profondo del termine – e le sue resistenze al processo di formazione europeo, dovute evidentemente più che a scelte di carattere ideologico, all’immaturità della sua economia e al tentativo di defilarsi da un piano che non riesce non solo ad egemonizzare, ma nemmeno a fronteggiare. Il fatto che, ad esempio, il “nostro” Paese oggi non venga nemmeno interpellato riguardo alla scelta di attaccare un suo storico partner e protégé, e che la richiesta di Maroni di applicare la direttiva 55/2001 sulla “protezione dei rifugiati in zone di guerra” sia placidamente ignorata dal Governo francese, non sono, a nostro avviso, sintomo di un rallentamento o addirittura di una “disgregazione” nella costruzione dell’UE, ma semplicemente di una polarizzazione delle forze al suo interno, della predominanza sempre più netta di alcune frazioni di borghesia sulle altre, frazioni uscite persino rafforzate dalla crisi, e quindi in grado di ristrutturare i livelli istituzionali e i meccanismi decisionali degli Stati e dell’Unione.

Questa polarizzazione, similmente a quanto avviene per il processo di concentrazione dei capitali, lungi da produrre un indebolimento, ci sembra andare nelle direzione di un consolidamento e di una maggiore aggressività della politica dell’UE e della sua vocazione imperialista. Senza dunque pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire in merito al caso libico, o ancor di più, in merito alle rivolte che hanno attraversato il mondo arabo, ci interessa attirare l’attenzione su quest’aspetto, per provare in qualche modo ad anticipare l’esito dei processi in atto, e non solo a reagirvi.

Napoli, 13 aprile 2011

Collettivo Politico Fanon – Napoli

Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli

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