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La decolonizzazione come fenomeno violento nell’analisi di Frantz Fanon

Questi due elementi vanno insieme, formano una parte di un solo sistema, sono inseparabili, anche se una delle due, la “colonialità”, è resa invisibile in molti casi, resa opaca dall’apparente risplendere moderno dei prodotti sempre più sofisticati che si consumano e vengono venduti nei mercati decolonizzati e che alienano impunemente le persone. Si può dire quindi che la modernità si costituisce e si riproduce attraverso il colonialismo. Si tratta di un sistema perverso. Il sistema-mondo moderno-coloniale è un mondo di diseguaglianze, disumanizzazione, dove la riproduzione e il dominio, lo sfruttamento e l’alienazione sono ormai resi elementi naturali.

Il processo di colonizzazione si è imposto con la violenza, e ha preso diverse forme. In un primo momento si è tradotto in una colonizzazione politico-militare accompagnata dal dominio economico. L’occupazione con la forza delle armi di un territorio si è anche espressa nella dominazione politica sui proprietari di quel territorio imponendo loro un sistema economico di sfruttamento irrazionale, molte volte nei rapporti lavorativi indigeni. Ma fino a qui, la soggettività del colonizzato non è stata trasformata. Per garantire la tenuta nel tempo della colonizzazione, e quindi della modernità, si è imposta la trasformazione della soggettività indigena. L’indigeno aveva fino a quel momento una soggettività libera, anche se era dominato attraverso l’uso della forza. Si è lavorato quindi perché assimilasse un’identità di schiavo, di inferiorità.

La colonizzazione della soggettività si è manifestata attraverso l’evangelizzazione, l’educazione, il trattamento servile, ed è stata anche una colonizzazione dell’essere e del sapere. La violenza coloniale ha “bestializzato” l’indigeno attraverso il maltrattamento corporale e la denutrizione. Attraverso evangelizzazione e educazione l’indigeno si convince che l’unica cultura, la civilizzazione e la scienza sono solo quelle “moderne”, mentre la sua cultura originaria non è altro che folklore e superstizione. In questo modo si cercava di cancellare totalmente la cultura indigena. Una volta persa l’identità indigena il colonizzatore ha potuto giustificare la sua posizione-occupazione.

Il colonizzatore è arrivato ad affermare in quel momento, come spiega Frantz Fanon, che non solo l’indigeno non ha mai posseduto valori, ma che è impermeabile all’etica, e non è capace di acquisirla. In questo modo, si è giustificato e si giustifica il suo sfruttamento. La colonizzazione dell’identità ha garantito il persistere della modernità-“colonialità” anche al di là della presenza fisica del colonizzatore nel territorio della colonia, vale a dire dopo le indipendenze delle colonie stesse.

Nonostante questo, qualcosa della cultura indigena si mantiene nel colonizzato, magari mimetizzata nei riti pagani ora diretti al dio cristiano e alla vergine dentro una chiesa. Questo elemento rimasto sarà la spinta a non sprofondare nel deserto, gli darà forza per attuare e lottare contro il colonizzatore, e immaginare un orizzonte nuovo.

Fanon ci dice anche che come ogni processo di colonizzazione è un processo violento, anche la decolonizzazione lo è. La pressione violenta che si esercita sul colonizzato in diversi modi, per molto tempo, si converte in una rabbia vulcanica accumulata che esplode in qualunque momento con violenza anche per una rivendicazione elementare: il cibo, l’acqua e la terra. La vita che conduce il colonizzatore è anche in gran parte la vita che è stata tolta al colonizzato. Quest’ultimo, nella situazione permanente di sottomissione e sfruttamento, decide di lottare per recuperare la propria vita, andare avanti per una vita dignitosa o morire definitivamente nel tentativo di averla. Questo è successo in Bolivia ad esempio, con la Guerra dell’Acqua nel 2000, con l’Insurrezione di Febbraio e la Guerra del Gas nel 2003, che sono state determinanti per l’inizio dell’epoca postcoloniale.

Con la propria lotta il colonizzato diventa umano, il processo di liberazione che ha intrapreso gli da dignità e lo fa tornare umano. Non è più una semibestia che sogna di essere uomo, ma lo è effettivamente, per questo durante la lotta preferisce morire libero come uomo piuttosto che soggiogato come una bestia dal padrone. Per questo la violenza di cui ci parla Fanon non la si deve intendere solamente come azioni offensive e impetuose in ogni momento contro il colonizzatore, ma anche come coscienza di libertà; ad esempio come capire che nessuno porterà avanti il compito della decolonizzazione al posto nostro, quindi dobbiamo sviluppare un azione costante, in costante partecipazione, auto informazione, autoformazione, facendo uso della forza quando si rende necessario, perché questo è il nostro compito. Anche se il colonizzatore se ne è andato fisicamente, la decolonizzazione non arriva se smettiamo di essere protagonisti e deleghiamo tutta la responsabilità politica a un gruppo di rappresentanti che fanno parte di un governo, perché pensiamo che il processo di decolonizzazione vada avanti grazie al lavoro d’altri; se facciamo questo tutto è perso. Il padrone straniero se ne è andato ma ora il nostro fratello diventa il nuovo padrone.

Nel processo di decolonizzazione non si può affidare le attività principali e le responsabilità nemmeno all’intellettuale che scende dalla sua posizione sociale comoda e sicura, formato secondo i paradigmi della modernità, che dice di avere coscienza sociale perché è di sinistra, o dice a se stesso di essere indigenista. Fanon ci ricorda che, l’inserimento dell’intellettuale colonizzato nella marea popolare è lenta per l’esistenza in lui di un culto dei dettagli. Questo culto si traduce in formalismi e legalismi, e può arrivare a truccare, limitare il processo decolonizzatore e portarlo al fallimento. Se l’intellettuale però si immerge nel popolo durante la lotta e forma parte della lotta, può disimparare molto di ciò che ha imparato all’università. Scopre allora la falsità delle teorie e capisce meglio la vita comunitaria, le necessità e gli sforzi per liberarsi del povero, del lavoratore, dell’indigena, del contadino che pagano il peso più grande alla modernità-coloniale; impara a proporre, appoggiare le azioni e le strategie che si prenderanno e a rendere visibili gli orrori della condizione coloniale e le aspirazioni di liberazioni di fronte al colonizzatore e all’intera umanità. Così, l’intellettuale si trasforma in un fratello, in un uguale, che lotta alla pari col povero, insieme a lui, non sopra di lui come un padre o una guida o come rappresentante. Questo deve essere chiaramente compreso dal colonizzato che aspira a liberarsi della colonizzazione.

Molte volte, non è precisamente l’intellettuale colonizzato che prende il posto di guida, o di padre del movimento de colonizzatore, ma sono gli stessi colonizzati in lotta che gli affidano quel ruolo. Questo è il principale problema, frutto della colonizzazione dell’identità, che limita il colonizzato. È un soggetto che aspira a superare le barriere che lo tengono legato alla modernità-coloniale ma in fondo pensa  se stesso come incapace a costruire un mondo nuovo, si sente irrimediabilmente legato al sistema in cui vive. Per questo motivo Fanon ci dice che la decolonizzazione è la creazione di uomini nuovi, “la “cosa” colonizzata diventa uomo grazie al processo stesso di liberazione”. Questo significa che quella forza e quell’autonomia iniziale nella lotta per liberarci, che ci fa uguali di fronte al resto degli uomini, che ci debestializza, si deve mantenere sempre, per non cadere di nuovo nell’inferiorizzazione.

La decolonizzazione come processo violento significa, per Fanon, comprendere che necessariamente dobbiamo seppellire l’interno del sistema-mondo moderno-coloniale, per arrivare a liberarci della sua esteriorità. Non possiamo pensare che un mondo senza colonizzazione possa convivere con un mondo moderno, dal momento che quest’ultimo è possibile solo nella forma di modernità-coloniale. In questo modo, si deve distruggere la dicotomia in cui si presenta il mondo. Una volta seppellita la modernità, non ci potrà più essere colonizzazione. Quindi il compito della decolonizzazione ci si presenta come processo di costituzione di un mondo senza colonizzazione al di là della ragione moderna, svelata interamente nei suoi caratteri di ragione coloniale. La risposta è iniziare a gardare noi stessi, ri-conoscerci per chi siamo davvero, quali potenzialità de colonizzatrici abbiamo, cosa è rimasto in noi di propriamente nostro, cioè del nostro mondo prima del processo colonizzatore.

La cultura popolare è il centro più incontaminato e irradiativo della resistenza dell’oppresso contro l’oppressore, ci dice Dussel. Nella cultura popolare si trova ciò che è rimasto della nostra cultura ancestrale dopo il processo di colonizzazione della soggettività, ciò che siamo riusciti a non perdere in diversi modi per diverse generazioni. Per ciò dice Fanon “durante la colonizzazione il colonizzato non smette mai di liberarsi fra le nove di sera e le sei di mattina”. Vale a dire, nella sua condizioni di colonizzato cerca sempre un momento, nonostante la dura giornata di lavoro, nel quale poter sentirsi libero, ricordando la propria storia, trasmettendo i valori della sua cultura attraverso i suoi miti alle nuove generazioni, adorando i suoi dei, danzando le sue danze, cantando le sue canzoni. Si sente umano in quei momenti, dignitoso, e rinnega il colonizzatore, vuole tornare indietro nel passato, si immagina un mondo presente con elementi del mondo pre-coloniale.

Fanon ci dice anche, che attraverso alcune manifestazioni culturali proprie come la danza, il colonizzato sfoga la violenza accumulata, il suo desiderio di eliminare il colonizzatore, di farla finita con la colonizzazione. Quella stessa violenza deve orientarsi contro il colonizzatore e la colonizzazione. La violenza de-colonizzatrice del colonizzato è latente in fondo al suo spirito. Dalla sua posizione di dominato e sfruttato manifesta il suo malessere verso il mondo moderno-coloniale esprimendo il suo orrore verso quel mondo e allo stesso tempo il suo desiderio di vendetta contro chi ha fatto del suo mondo una terra piena di male. Così, la danza guarani-chiriguana del Yaguareté e il Toro esprime la vittoria del giaguaro (rappresentazione del mondo della selva) sul toro (rappresentazione del mondo moderno-coloniale).

In questo modo, il colonizzato resiste a perdere la propria cultura, molte volte in modo clandestino, nonostante il controllo e la repressione del colonizzatore. Così, più di 500 anni di colonizzazione non sono riusciti a cancellare la cultura ancestrale, e adesso questa si presenta camuffata con elementi culturali moderni, come cultura popolare. Per questo la valorizzazione delle nostre culture indigene originarie affiora quando, stanchi della dominazioni, alienazione e sfruttamento, tracciamo un orizzonte dove potremo vivere veramente come esseri umani. Vogliamo recuperare la nostra identità, i nostri valori, e costituire un mondo nuovo a partire dalle nostre culture originarie.

La decolonizzazione si manifesta in modo violento perché deriva dalla stanchezza del colonizzato della sua vita come inferiore nella dominazione; vale a dire, della stanchezza e il rifiuto della violenza coloniale. Allora, il colonizzato vuole smettere di esserlo, vuole governare se stesso, recuperare e ricostruire la sua cultura, vivere pienamente, cioè riumanizzarsi. In questo senso, l’esperienza di iniziare la lotta contro la modernità coloniale lo fa diventare uomo, pari agli altri uomini, e retrocedere sarebbe delegare le responsabilità della sua liberazione a terzi, e se lo fa, avrà perso. Il potenziale de-colonizzatore è dentro allo stesso colonizzato, questo deve pensare se stesso dentro la propria cultura popolare, dalla quale inizierà la ricostruzione della cultura ancestrale, e da qui potrà avere un pensiero de-colonizzatore che lo guidi verso il superamento del sistema-mondo moderno-coloniale.

La Paz, 6 de mayo de 2011

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traduzione a cura della redazione di Contropiano Bologna

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