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Su Monti e i “poteri forti”

In questi giorni svariati giornalisti mi hanno chiesto un commento su Mario Monti e sui suoi presunti rapporti con i famigerati “poteri forti”. Dal Foglio a Liberazione, passando per la trasmissione Piazza Pulita, questa domanda mi è stata rivolta da più parti. Qui di seguito provo a fornire una risposta un pochino più articolata di quella che la stampa e la tv del nostro tempo sembrano in grado di recepire.

In primo luogo, considero l’espressione “poteri forti” estremamente ingenua. Essa rientra nel repertorio tipico dei cosiddetti “cospirazionisti”, i quali commettono l’errore di concepire la Storia come se fosse una mera sequenza di complotti orditi da singoli individui o da gruppi organizzati, con tanto di nomi e cognomi. Oggi i cospirazionisti vanno molto di moda, ma la loro lettura del processo storico è semplicistica e fuorviante. Beninteso, che la meccanica politica sia sempre in fin dei conti riconducibile ad azioni individuali, a trame, a coalizioni e a “movimenti di truppe” è del tutto ovvio. Tuttavia, occorre comprendere che le azioni individuali o di gruppo che davvero contano sono soltanto quelle che si muovono lungo il solco tracciato da forze gigantesche di tipo “impersonale”. Il movimento della Storia, in altri termini, dovrebbe in generale esser considerato un “processo senza soggetto“.

Ora, alla luce di questa interpretazione non ingenua del processo storico, che giudizio possiamo dare di Mario Monti? E cosa possiamo attenderci da un eventuale governo da lui presieduto? Per tentare di rispondere può essere utile in primo luogo fornire un breve profilo dei contributi di Monti alla ricerca economica e alla vita politica.

Nel campo della ricerca, di grande rilievo è un suo articolo dal titolo “A theoretical model of bank behaviour and its implications for monetary policy” (L’Industria, 2, 1971). Meglio noto come “modello Klein-Monti”, questo lavoro si inseriva nell’acceso dibattito dell’epoca in merito alla opportunità o meno di disciplinare l’attività bancaria tramite vincoli amministrativi. In particolare, ci si interrogava sul rischio che una forte concorrenza sul versante della raccolta potesse accrescere prima i tassi sui depositi e poi, conseguenzialmente, anche quelli sui prestiti. Per evitare ciò venivano quindi introdotti per legge dei “soffitti” ai tassi massimi che le banche potevano offrire ai depositanti. Ebbene, Klein e Monti dimostrarono che, sotto date condizioni di mercato, i tassi d’interesse che le banche apllicano sui prestiti sono del tutto indipendenti dai tassi sui depositi, il che rende inutile il tentativo di controllare i primi introducendo vincoli amministrativi sui secondi. In aggiunta a ciò, Monti evidenziò pure che il tasso sui depositi deciso da una banca dipende dagli obiettivi che essa intende perseguire: massimizzare il profitto oppure massimizzare i depositi e quindi le dimensioni.

Dunque, fin dai suoi primi contributi scientifici, Monti ha elaborato delle analisi tese a evidenziare l’inefficienza dei controlli amministrativi. Anziché basarsi su di essi, l’azione politica dovrebbe essere orientata allo scopo di introdurre regole in grado di far funzionare al meglio i meccanismi del libero mercato. A questa impostazione Monti è rimasto fedele anche in ambito politico, specialmente in qualità di commissario europeo al Mercato interno e in seguito alla Concorrenza. Il suo può in fondo definirsi un “liberismo temperato”, vale a dire un tentativo di render compatibili il libero funzionamento del mercato e la sopravvivenza di un efficiente sistema di welfare europeo. Da un lato, infatti, Monti si è battuto per rimuovere gli argini e gli ostacoli nazionali all’unificazione del mercato europeo. Dall’altro, si è fatto promotore di svariate iniziative per avviare un processo di armonizzazione fiscale tra i paesi dell’Unione europea, soprattutto allo scopo di contrastare fenomeni di concorrenza al ribasso sulla tassazione dei capitali. Se però sul primo versante i risultati sono stati tutt’altro che trascurabili, sul secondo Monti è stato pressoché ogni volta bloccato e sconfitto.

Alla luce di questi profili, e sulla base su una concezione smaliziata della Storia, intesa come “processo senza soggetto”, è dunque possibile ipotizzare un nesso tra Monti e i cosiddetti “poteri forti”? In effetti un legame potenziale esiste, ma è molto diverso da come viene solitamente presentato. Per metterlo in luce, bisogna in primo luogo comprendere che l’odierna crisi della zona euro costituisce anche il riflesso di uno scontro in atto tra capitali “forti” situati in Germania e nelle aree “centrali” del continente, e capitali “deboli” situati in Italia e nelle altre “periferie” europee. Come gli eventi del passato insegnano, una eventuale preciptazione della crisi potrebbe attivare un potente meccanismo di acquisizione dei capitali “deboli” da parte dei capitali “forti”. La stessa eventualità di una deflagrazione della zona euro e di una svalutazione da parte dei paesi periferici potrebbe in effetti accelerare un processo del genere. La svalutazione infatti riduce il valore dei capitali situati nelle periferie e quindi li rende ancor più facilmente oggetti potenziali di “shopping a buon mercato”.

In termini marxiani, questo meccanismo si definisce “centralizzazione del capitale”. Semmai lo si volesse interrompere bisognerebbe di fatto reintrodurre in Europa dei vincoli alla libera circolazione dei capitali e al limite delle stesse merci. Ma, tali vincoli potrebbero mai essere avallati da Monti? Stando alla sua avversione nei confronti degli interventi amministrativi di limitazione del mercato, alla sua cristallina vocazione “liberoscambista” e alla sua strenua difesa del mercato unico, si direbbe assolutamente di no. A meno di negare le tesi di una intera vita, Monti si vedrebbe dunque costretto a sostenere o comunque a non ostacolare le acquisizioni estere. Egli potrebbe al limite accettare l’idea che la moneta unica venga meno, ma credo che si opporrebbe risolutamente a una implosione del mercato unico europeo. In questo senso, la sua posizione potrebbe in effetti esser considerata compatibile con gli interessi dei capitali europei più “forti”.

Si noti che questa interpretazione è in linea con una concezione della Storia quale processo impersonale e senza soggetto, e non necessita quindi di alcuna suggestione infantile riguardo ad azioni specifiche di singoli o di gruppi e alle connesse ipotesi sulle “trame” dei “poteri forti”, della Trilaterale o del gruppo Bildberg.

Un sospetto non ingenuo tuttavia sembra lecito. Viene infatti da chiedersi se, a seguito del cambio di governo, la Banca centrale europea si renderà nuovamente disponibile ad effettuare acquisti in massa di titoli pubblici italiani al fine di contrastare la caduta dei loro prezzi e l’aumento conseguente degli spreads. In effetti, una eventualità del genere renderebbe la strategia della BCE sotto più di un aspetto opaca, e in un certo senso più difficile da giustificare. Se così davvero andasse la tesi dei “complottisti” potrebbe quindi riprender vigore: si rivangherebbe sul passato comune di Draghi e Monti in Goldman Sachs, e così via. La realtà, tuttavia, è che anche l’eventualità di un mutamento negli indirizzi della BCE può trovare una spiegazione valida solo nell’ambito di una interpretazione “impersonale” del processo storico. Infatti, se si assume che tra il governo Berlusconi dimissionario e un eventuale governo Monti sussista una differenza cruciale nelle modalità di gestione delle eventuali vendite di assets nazionali, e se si ritiene che il consiglio direttivo della BCE consideri quelle vendite decisive per la solvibilità futura dei paesi periferici, allora anche una eventuale svolta negli indirizzi di politica monetaria potrebbe esser concepita come uno dei molteplici riflessi della disputa in corso tra capitali europei “forti” e “deboli”.

* Università del Sannio

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