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Dentro gli scaffali e fuori dal portone di casa

Gli scaffali sono pieni e non bisogna aver paura di prendere (e sfogliare però leggendo) anche quelle pagine che non appartengono immediatamente alla formazione di ciascuno. Siamo, cioè, sicuri che l’opposizione tra difesa degli interessi nazionali e lotta al capitale sia reale (tanto nei testi della tradizione marxista quanto nei processi storici) e non, invece, fittizia e molte volte funzionale alla sopravvivenza stessa del modo di produzione capitalista? Qualche biblioteca (privata) sembra avere, infatti, uno scaffale prioritario (variamente declinato a secondo delle proprie identità) mentre gli altri mensoloni reggono tutte le coniugazioni all’eterno presente che si presume (erroneamente) essere il tempo della storia. Giustamente la Redazione di Contropiano si è perciò chiesta: «il nemico è sempre e solo in casa nostra?». Come a dire: è chiaro che il nemico è a casa nostra ma è dentro non perché abitiamo una vecchia dimora infestata di notte da fantasmi che essa stessa genererebbe («il governo e la borghesia italiana – come li chiama Contropiano – entità a sé stanti») ma perché la notte sta fuori e fa penetrare quel buio che – si sa – nella ragione genera mostri. Facciamo, allora, Aufklarüng.

Mao pensava fosse opportuno distinguere la contraddizione principale da quelle particolari: la prima è universale e non può essere confusa con le altre, che sono però dominanti e concrete in ogni singolo contesto particolare. È vero che bisogna, alla lunga, vincere la contraddizione principale (il modo di produzione capitalista), ma per riuscirci è necessario aggredire quella particolare (in questo caso la subordinazione e la limitazione della sovranità) facendola diventare il fulcro della lotta, impegnandosi come fosse quella principale. Insistere sulla contraddizione universale come fosse concretamente la principale può essere, dunque, un errore indice di dogmatismo. Sostenere che la difesa degli interessi nazionali, della Sovranità di uno Stato, coincide con il sostegno alle borghesie di quella nazione, ha inoltre alla base un equivoco storico-politico e anche ideologico. Il primo è di scambiare l’affermazione della classe lavoratrice all’interno di uno Stato con l’isolamento (sebbene è chiaro che la proposta dei PIIGS, che è il vero motore di questa polemica, non è un’ipotesi nazionalistica né tanto meno relativa a una singola nazione poiché riguarda un’area), il secondo è pensare che lo Stato sia, come sostengono i liberali, una costruzione sopra le parti. Mentre lo Stato, spiega Marx, è l’esito della società civile borghese moderna senza nessun hegeliano superamento ma prolungamento. E se lo Stato è sempre il luogo dove maturano e si svolgono i rapporti materiali di esistenza senza estinguerli, senza, cioè, annichilire la lotta di classe, la difesa della sovranità nazionale è anche la difesa della lotta dentro la contraddizione particolare. Pensare, invece, di omettere questo passaggio, rischia, forse, di trasferire la battaglia politica su un piano metafisico. Lo Stato, dunque, non è mai un luogo pacificato: è sempre attraversato dal conflitto (con sconfitte e vittorie) delle classi in lotta. Il rapporto tra società civile e stato – come chiarisce Gramsci – è, infatti, un caso della relazione dialettica tra struttura e sovrastruttura ma si tratta di una dialettica vera, dove cioè il nesso non è meccanico e si aprono tutti i sentieri possibili dettati dalla battaglia per l’egemonia che dovremmo riprendere a percorrere.

La posta in gioco in Italia come nel resto d’Europa è quindi, ancora una volta, la presa del potere. Abbattere il potere politico della borghesia è un passaggio obbligato per la successiva trasformazione del modo di produzione. Nessun estremismo, nessuna scorciatoia o intransigenza dogmatica (non santifichiamo, dunque, nessuno scaffale della nostra biblioteca), come ammoniva Lenin può, però, aggirare questo nodo. Prendere tatticamente in considerazione ipotesi di riforma e percorsi di fuoriuscita dall’Unione Economica e Monetaria Europea per i Paesi PIIGS non serve, quindi, a difendere gli interessi delle borghesie di quelle nazioni ma sia ad accrescere la massa critica dell’insieme delle forze che vanno dirette nella lotta per l’autodeterminazione (e poi, con un più vantaggioso rapporto di forze, per il socialismo) per renderle sufficienti ad affrontare l’ostilità del mondo capitalista, sia a distinguere il senso di una riforma progressiva e democratica (perché dentro una possibilità realmente alternativa) dal riformismo di maniera o conservatore insito in tutte le concezioni liberali riformistiche che sempre Gramsci considerava sottoposte a una «storia a disegno». Perché lì, nel riformismo dei liberali (che rischia di essere il pendant speculare di chi non vede le concrete contraddizioni dialettiche che si annidano nella forma-Stato), è chiesto che le forze in lotta si moderino entro i limiti della conservazione dello Stato liberale, mentre, nella realtà della lotta, «i colpi non si danno a patti» e ogni antitesi deve porsi come radicale negazione della tesi: vero motore del cambiamento.

Rivendicare il diritto a una sovranità diversa, è quindi una difficile ma irrinunciabile critica politica marxista che vuole ‘scomporre’ la forma-Stato. Anche perché dentro la sovranità vi sono ‘pezzi’ di Stato borghese da difendere e rilanciare nella lotta: quelli rappresentati dall’intero patrimonio delle conquiste realizzate nel tempo dal movimento dei lavoratori e da quello comunista. Solo partendo da questa scomposizione, infatti, è possibile cogliere, negli interstizi tra le parti dello Stato, l’intervento politico da calibrare sull’analisi di classe dei processi in atto. Con ancora più forza quest’argomentazione vale per l’Italia, dove il dominio è da sempre esercitato da una classe borghese che non è mai stata ‘dirigente’ e ‘nazionale’. Quando applichiamo un rigoroso criterio storico-politico non possiamo che insistere sulla distinzione tra classe ‘dirigente’ e ‘dominante’: una classe è dirigente rispetto alle classi cui si allea, è dominante, invece, nei confronti di quella cui si oppone.

Prima di diventare dominante, una classe può (deve) essere dirigente. Le necessarie congiunture della storia hanno fatto sì che questo fosse, in momenti e in luoghi ben determinati, il tipo di relazione che è intercorso tra il movimento operaio e il più generale movimento di classe dei lavoratori. Anche l’incapacità della borghesia italiana di competere alla pari con le altre borghesie europee, frutto di questa sua storica mancanza di funzione direzionale e nazionale, determina una contraddizione interna allo Stato e alla sua classe dominante tale da permettere ampi spazi di agibilità politica realmente antagonisti.

Quali forze possono approfittarne e come dirigerne la leva politica? Neanche qui si può fare riferimento a uno schema concettuale rigido. L’oggettività dei rapporti di forza tra le classi, che come marxisti spesso evochiamo, non è da intendersi nel senso che questi rapporti sono dati una volta per sempre, ma che vanno ‘registrati’ di volta in volta nel grado storico d’avanzamento dello stato di conflitto. Il materialismo storico e anche quello dialettico, d’altra parte, non sono (e non volevano essere) una «metafisica della materia» volta a sacralizzare l’oggettività in senso naturalistico. È vero, infatti, che le ideologie sono determinate dalle condizioni sociali oggettive ma è altrettanto vero che i fattori ideologici interagiscono sulla struttura e contribuiscono a loro volta alla trasformazione delle condizioni sociali oggettive: è qui che si compie la battaglia per l’egemonia. Altrimenti nessuna rivoluzione sarebbe mai stata possibile. Il tema delle alleanze necessarie e quello delle riforme possibili, essendo entrambi frutto della battaglia per l’egemonia, sono, infatti, un aspetto non secondario nei processi rivoluzionari. Essere culturalmente attrezzati e politicamente pronti ad alleanze per esercitare egemonia e dirigere la lotta è, dunque, un imperativo sempre più stringente soprattutto durante una crisi sistemica del capitale qual è quella attuale. Riprendendo l’intervento di Contropiano, è possibile, allora, «far finta di niente e indicare ai lavoratori, ai disoccupati, ai precari che devono affrontare le terapie d’urto della Bce (apertamente ispirate dai grandi gruppi capitalistici tedeschi e dai loro partners francesi etc.) che ogni azione politica contro l’imperialismo rischia di farci diventare subalterni alla nostra borghesia (fino a giungere ad affermare che non bisognava fare la Resistenza contro i nazisti perché ne avrebbe tratto vantaggio solo la borghesia italiana)»?

La storia fa giustizia e non è neanche necessario ricorrere all’esempio chiarissimo della Resistenza. Già davanti alla guerra franco-prussiana, il movimento operaio non allontanò da sé, infatti, la responsabilità di una diversa sovranità nazionale: «E’ giusta questa guerra? No! E’ nazionale questa guerra? No! Essa è esclusivamente dinastica. In nome della giustizia, della democrazia e dei veri interessi della Francia, noi aderiamo completamente ed energicamente alla protesta dell’Internazionale contro la guerra» [1]. Nelle Tesi di aprile, Lenin, a proposito dell’atteggiamento da tenere verso lo Stato, auspicava che fosse modellato sull’esperienza della Comune di Parigi; costruita su quell’idea di diversa sovranità nazionale. E ancora: l’intero processo di decolonizzazione, nella seconda metà del secolo scorso, non sarebbe avvenuto senza la funzione oggettivamente svolta dai Paesi Socialisti verso una nuova sovranità nazionale. Tutto questo è semplicemente un fatto. Chi oggi teorizzasse l’esclusione di fasi intermedie nei processi di conseguimento del socialismo apparirebbe, invece, frutto puro di una fenomenologia della testimonianza.  



 

[1] Primo indirizzo del Consiglio generale sulla guerra franco-prussiana in K. Marx, La guerra civile in Francia.

 

 

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2 Commenti


  • angelo

    Non si capisce la tesi, non è chiaro – se c’è e con chi potrebbe essere – l’intento polemico, non è chiaro nulla. Siamo abituati a leggere cose anche poco diìgeribili, e non da oggi, però – prima di metter le mani sulla tastiera – bisognerebbe aver deciso cosa dire, a chi dirlo, con quali argomenti. Altrimenti… non si viene più letti. Come singoli, resta un un problema del singolo. Come giornale, magari è più grave.
    Saluti comunisti,
    Angelo


  • ROBESPIERRE

    certo affrontare la questione della forma stato non è semplice però, per iniziarlo a fare, occorre per lo meno non dichiarare guerra alla sintassi…

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