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La repressione ai tempi del governo Monti

In Italia, dagli anni settanta in avanti, il metodo di governo è consistito interamente in un avvicendarsi di emergenze. In questo Paese esiste da sempre una complicata dialettica dell’incostituzionalità, al cui interno l’emergenza ha stabilito una propria retorica, un compiuto ma fluido sistema di metafore, un peculiare modo di cristallizzarsi nel diritto scritto e nel costume nazionale.
Le emergenze servono a introdurre misure coercitive nella divisione sociale del lavoro, del controllo sociale, a prevenzioni di probabili “devianze” e “conflitti”.
Emergenza “spread”, emergenza debito, emergenza blocchi autotrasportatori, emergenza neve, emergenza disoccupazione, emergenza No Tav. Il governo Monti è il “governo dell’emergenza nazionale” e proprio dall’emergenza trae l’unica sua legittimità.
Si tratta di un tipo di governo che in questo paese abbiamo già visto: il governo Andreotti 1976-1979 con il decisivo appoggio esterno del PCI e con Napolitano capo delegazione del partito guidato da Berlinguer per i rapporti con l’esecutivo. Allora il Pci, in nome del “governo di unità nazionale” a tutti i livelli e con ogni mezzo, si dedicò alla metodica demolizione dei movimenti nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università, nei quartieri: fino alla trasformazione delle sezioni in commissariati ausiliari, all’intimidazione verso gli intellettuali, all’utilizzo di ogni strumento nella battaglia contro il “terrorismo” e “l’eversione”. Il disorientamento della base operaia del partito viene incanalato nell’odio isterico per gli “estremisti”, i “gruppettari”, gli “autonomi”, i “terroristi”. Il Pci diffuse la psicosi anche tra le proprie fila: la dirigenza non poté digerire il fatto che alcuni brigatisti arrestati siano stati ex-militanti del partito, e fece partire pressanti inviti alla delazione. Quella stagione ha portato oltre ottomila militanti in carcere, 40.000 inquisiti e più di 100 mila indagati. Cifre da regime dittatoriale latino-americano. Nessun paese in occidente ha avuto una fase cosi repressiva.

Oggi la logica di guerra contro la gente della Val di Susa parla già un linguaggio che deve accendere urgentemente segnali d’allarme. La costruzione del consenso intorno al governo Monti, in nome delle “emergenze” sta raggiungendo modalità inquietanti, con una criminalizzazione sistematica di qualsiasi forma di opposizione.

Cosi come è inquietante, il continuo richiamo al dogma della legalità. L’aver santificato personalità come il giudice Caselli come custode della stessa, da un lato vorrebbe impedire di dissentire dalla sue scelte quando confliggono con la democrazia, dall’altro stanno lacerando e polarizzando opportunamente, settori come il popolo viola, girotondini, etc. che avevano costruito un feticcio della legalità nell’epoca berlusconiana del tutto avulso dalla sua relazione con i contesti sociali, il senso di giustizia, la natura degli attori sociali – ossia dei soggetti viventi – chiamati a rispettare o violare le leggi che, in quanto tali, possono essere giuste ma anche ingiuste. Anche un sistema di leggi ingiuste definisce a suo modo una “legalità” che gli apparati dello stato vengono chiamati a far rispettare, anche con la forza. La Val di Susa, come in altri tempi le leggi razziali, testimonia questa contraddizione.

Abbiamo così l’evidenza plastica dei frutti avvelenati dell’antiberlusconismo “sempliciotto”, contro il quale abbiamo condotto per anni una battaglia politica, culturale, se volete anche ideologica. Per quasi venti anni, la lotta e la vita politica di questo paese è stata ingabbiata dentro uno scontro tra gli interessi di un gruppo editoriale-finanziario (De Benedetti-Caracciolo-Repubblica) contro un altro gruppo editoriale-finanziario (Mediaset). Il gruppo de La Repubblica ha operato affinché i propri interessi diventassero interessi generali in conflitto con quelli del blocco belusconiano. Ma l’idea di società, di stato, di paese che prende corpo dalle pagine de La Repubblica o dai canali “democratici” della Rai – che agiscono ormai come apparati ideologici dello stato – non è quella della democrazia, né di un stato fondato sulla coesione e giustizia sociale.

Di fronte a questo scenario governativo/mediatico si inquadra la repressione e gli arresti ai danni degli attivisti No Tav.

Il Procuratore capo Giancarlo Caselli, ha operato chirurgicamente degli arresti cercando di selezionare alcuni prototipi di manifestanti che potessero essere funzionali alla sua strategia comunicativa: il militante di vecchia data della sinistra extraparlamentare e giovani appartenenti ai centri sociali o all’area anarchica, meglio se con qualche precedente. E poi anche qualche membro della valle, tanto per far vedere che esiste un concreto rischio di estremizzazione e contaminazione delle lotte. Caselli poi ha condito il tutto, in pieno stile Monti, con toni “sobri” e pacati e con un riconoscimento politico della legittimità della lotta contro la Tav come tentativo di dividere il fronte sul tema della solidarietà.

Ma fin da subito è emerso chiaramente che Caselli ha sbagliato il bersaglio, perché la solidarietà è esplosa in modo immediato e fragoroso da tutta Italia e la Valle stessa è rimasta unita a fianco dei propri “figli” e “fratelli”. perché quella contro la Tav non è una lotta di avanguardia in cui qualche rivoluzionario improvvisato fa i balzi in avanti e si dimentica il popolo alle spalle. Quella della Val Susa e dell’opposizione alla Tav è una battaglia condivisa che è allo stesso tempo territoriale ma che ha radici universali nel rifiuto di una cultura dello sviluppo vorace e distruttivo. Ed è una battaglia condivisa nel metodo e nel merito cosi come lo è stata il 3 luglio scorso durante l’invasione dei cantieri. Basta vedere che sul rapporto fra costi e benefici iniziano a crollare anche le certezze del giornale di Confindustria, il Sole 24 ore, che in un recente editoriale ha messo in dubbio l’impatto economico della Tav in rapporto agli altissimi costi di realizzazione che l’Unione Europea finanzia solo in minima parte mentre il resto grava sulle casse dello Stato.

Per questo è impensabile che gli arresti, cosi come l’occupazione militare della valle e la feroce repressione causino divisioni nella lotta e isolamento. In questi giorni in tutta Italia ci sono state manifestazioni e presidi di solidarietà, ma nonostante tutto il governo e i media continuano a criminalizzare il movimento come “nemico della civiltà” da reprimere ad ogni costo. A quanto pare, leggendo i giornali e seguendo i dibattiti televisivi, sarebbero i No Tav il pericolo per la ripresa economica del nostro paese, una ripresa che anche questo governo (con i vari partiti e le massime autorità) vorrebbe perseguire sprecando ingenti capitali e provocando danni irreparabili a un’intera popolazione. Così, gli arresti ordinati da Caselli, la violenza contro i manifestanti alla stazione di Torino e il blitz che è costato l’incidente a Lucca Abbà, sono giustificati perché costi necessari alla difesa della ripresa economica.

Chissà se un giorno gli insigni tecnici al governo, la gerarchia delle polizie e l’autorità giudiziaria spiegheranno come fanno i conti e la portata storica della loro determinazione nella persecuzione accanita dei terribilissimi No Tav. Intanto, appare certo che il primo obiettivo di questa condotta degna della più forsennata brutalità è quello di distruggere la speranza dell’agire politico da parte di chi non si sottomette passivamente alle scelte dei poteri finanziario-politici. Ancora una volta deve prevalere quell’asimmetria di potere che costringe i dissidenti a gesti disperati o a subire e stare zitti. Sino a che punto questi poteri pensano di poter tirare la corda? Credono che a forza di massacrare ogni dissenso ci rassegneremo per sempre al neo-totalitarismo “democratico”?

Un governo che in nome dell’”emergenza” non tiene conto delle esigenze sociali, in Val di Susa come nei luoghi di lavoro, che non manifesta alcuna esigenza di mediazione, che ritiene nemiche ogni forma di opposizione, anche pacifica e che agisce direttamente in rapporto con istituzioni sovranazionali, innesca una realtà della democrazia che somiglia troppo ad un modello coloniale. E’ un scenario che obiettivamente non può e non deve essere accettato.

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