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Forza e limiti dello sciopero Fiom

Se dovessi dare una definizione concisa della linea della Fiom, almeno per quella che si è palesata dal comizio finale di Landini in occasione della manifestazione del 9 marzo a Roma, sarebbe questa.

Il corteo e, a quanto pare, anche lo sciopero, sono stati molto partecipati da parte dei lavoratori, da tempo bersagliati da continui provvedimenti anti-sociali e dagli snervanti rumors continui riguardanti la prossima riforma del mercato del lavoro e l’articolo 18; ciò mostra una diffusa disponibilità al conflitto, nonostante la crisi; ma molti nodi restano da sciogliere, tutti plasticamente palesatisi nel comizio finale di Landini.

Andiamo con ordine: il corteo è partito con poco ritardo rispetto all’orario previsto delle 9:30 da Piazza della Repubblica ed è terminato a Piazza san Giovanni dopo solo un’ora e mezza o due. E’ stata una sfilata operaia, ma con buona presenza di studenti, molto sentita, ma non molto conflittuale nelle pratiche e un po’ generalista sui contenuti. Qualche tensione c’è stata in azioni a mergine, cui la Fiom era estranea. Dopo l’arrivo si è dato il via ad una lunga (eccessiva) serie di comizi dal palco. Sono intervenute rappresentanze operaie, che hanno palesato una certa radicalità e combattività, rappresentanze di vertenze sociali e territoriali, fra cui quella No TAV, nelle veste istituzionale del Presidente della Comunità Montana della Val Susa , l’esponente della Segreteria nazionale della CGIL Vincenzo Scudiere, contestato e, infine, Landini.

Il Segretario della Fiom ha avuto, come punti cardine del suo ragionamento, che inevitabilmente ha toccato lungamente la prossima riforma del Mercato del Lavoro, del Welfare e dell’articolo 18, la necessità di difendere la democrazia, percepite come in crisi, a partire dal lavoro e la necessità che non si faccia passare l’idea che la ripresa economica e, quindi, la competitività del sistema industriale italiano necessariamente passano per l’abbattimento delle tutele dei lavoratori; di qui gli strali contro la FIAT, che vuole smantellare i propri impianti in Italia ed impone un modello di relazioni industriali anti- democratico ed anti- costituzionale che potrebbe generalizzarsi e, in parte, contro Federmeccanica, che vuole dismettere tutta la produzione non afferente al comparto militare.

Viceversa, secondo Landini, la ripresa del nostro paese passa attraverso l’estensione delle tutele dei lavoratori e l’elaborazione, attraverso la ricerca e l’innovazione, di un nuovo modello di sviluppo basato sull’eco-sostenibilità e su un piano di investimenti “pubblici e privati” che vadano in tale direzione; in direzione contraria, a suo avviso, va, ad esempio, l’ingente investimento per il cantiere del TAV in Val Susa, specialmente date le condizioni precarie in cui versano le linee e i treni frequentati dai pendolari.

Tuttavia, questi elementi di reale lotta per una tenuta democratica e di buone intenzioni sono sostenuti da rivendicazioni ed argomentazioni a mio avviso non adeguate al momento storico che stiamo vivendo.

Ad esempio, nonostante le ampie allusioni ad un nuovo modello di sviluppo, non vi è stato alcun accenno al carattere globale e sistemico della crisi, anzi, in alcuni passaggi, è parso quasi che solo l’Italia sia in crisi a causa di alcuni esponenti del capitalismo nostrano, i quali puntano a stare nella competizione globale attraverso la distruzione del diritto del lavoro, e non attraverso l’innovazione, come, invece, si farebbe in altri paesi “virtuosi”. Nessun accenno, inoltre, alle politiche di strangolamento decise dall’UE (portatrice di ben determinati interessi che andrebbero identificati come bersaglio) nei confronti del nostro e di altri paesi, e all’utilizzo, a tal fine, del debito pubblico; solo generici accenni alla “finanza che non crea ricchezza,ma la distrugge”.

Seguendo tale linea di ragionamento, l’emergenza democratica italiana non viene indagata nella sua genesi vera, inerente al passaggio delle sedi decisionali reali dalla sedi rappresentative, ridotte ad organi di ratifica, a quelle dei burocrati delle grandi multinazionali e del grande capitale finanziario dei paesi più forti; si derubrica tutto ad un processo di degenerazione e di staccamento dai cittadini che stanno subendo i partiti italiani, giudicati non in grado di ottemperare ai loro compiti per limiti dovuti all’inadeguatezza del personale politico.

Sicuramente, in tali riflessioni, vi è un pezzo di verità, tuttavia esse non inquadrano i problemi nella loro globalità e portano a trarre una conseguenza politica a mio avviso molto dannosa per i lavoratori in questo momento: il Governo Monti non viene inquadrato come portatore degl’interessi che esigono lo smantellamento delle garanzie democratiche e dei diritti dei lavoratori e quindi come un soggetto cui bisogna fare opposizione come si faceva col precedente esecutivo, bensì come governo tecnico chiamato provvisoriamente a risolvere problemi economici impellenti e a colmare il vuoto lasciato dai partiti in rotta; con esso, pertanto, va cercato l’accordo sulla riforma del mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali partendo da un confronto paritario, che si è relativamente sicuri verrà concesso.

Pur tenendo conto della natura inevitabilmente agitatoria, propagandistica e non molto analitica di un comizio di fine corteo, riproporre questo tipo di argomenti generalisti sulla crisi dei partiti (in parte riecheggianti un anti-berlusconismo di maniera fuori tempo massimo) e sull’ illusione di confronto paritario, non partendo da una posizione di opposizione, con l’attuale esecutivo non può che confondere ulteriormente i lavoratori, lasciandoli disarmati di fronte alle prossime “inevitabili” riforme anti-sociali, alle quali si dovrà giocoforza collaborare. Come si fa, oltretutto, a non vedere che il Governo non vuole alcun tipo di concertazione sostanziale, ma va avanti in maniera autoritaria? Di fronte a ciò, ritengo fosse il caso di pronunciare parole chiare sul fatto che un confronto col Governo passa solo attraverso una prosecuzione inevitabile (non a definirsi in futuro, com’è stato affermato) del conflitto e della mobilitazione, in maniera tale da poter accumulare forze e “potere contrattuale”. Così come credo andassero spese parole altrettanto chiare sul fatto che questo esecutivo continui e, anzi, accentui i processi di svuotamento della sedi democratiche che Berlusconi perseguiva.

Un ulteriore punto interessante toccato da Landini riguarda le forme di lotta: egli ha affermato che la Fiom pone la discriminante della non-violenza, ma appoggia tutte le lotte democratiche; Tuttavia, poi dice anche che ” In passato le conquiste operaie e contadine in questo paese sono passate anche per le occupazioni dei campi, i grandi scioperi operai, ecc”. Come si pone, allora, il suo sindacato nei confronti di episodi di repressione come quello della mattinata stessa del corteo a Roma, che ha visto arresti e denunce per la “resistenza passiva” e pacifica operata da diversi attivisti durante un sit-in per il diritto alla casa? come si pone, inoltre, nei confronti delle forme che sta assumendo la lotta No TAV in conseguenza dell’occupazione militare della valle? Questi sono nodi che prima o poi andranno sciolti con chiarezza. La condanna incondizionata del salto di qualità nella repressione che si è avuto dall’insediamento del Governo Monti e la solidarietà attiva nei confronti delle vittime sono oneri cui il più grande sindacato metalmeccanico non dovrebbe, a mio avviso, sottrarsi.

Infine, la stessa Fiom dovrà essere conseguente alla ripetute dichiarazioni d’intenti sulla volontà di estendere la democrazia sindacale sui posti di lavoro, con proposte che non si limitino a voler impedire future intese separate in ambito interconfederale, ma che tendano anche ad includere nella rappresentatività il sindacalismo di base.

In conclusione, dallo sciopero del 9 marzo viene fuori una Fiom che sicuramente si pone come punto di tenuta democratica e difesa delle principali conquiste sindacali del passato (contrattazione nazionale, articolo 18,ecc); cose, queste, che la maggioranza della CGIL è ben lungi dall’assumere o sostenere. Tuttavia, le pratiche, le rivendicazioni e le analisi della fase risentono moltissimo della gabbia bipolare del sistema politico italiano e di molti retaggi del recente passato (non ultimi l’anti-berlusconismo e l’intima convinzione che, anche nelle maglie dell’attuale fase politico-economica, si possano trovare controparti disponibili alla mediazione a prescindere “per il bene del paese”) che, se già prima si sono dimostrate illusioni di breve durata sempre destinate a concludersi con cessioni in termini di diritti dei lavoratori e di welfare, nell’attuale situazione di crisi profonda hanno spazio pressoché nullo di vivere. Ciò, alla lunga, potrebbe portare la Fiom a rientrare completamente nei ranghi della maggioranza CGIL, se non altro per l’impossibilità di poter trovare un appiglio politico che attualmente non c’è e, come detto, non ha spazio per crearsi. Ciò, evidentemente, sarebbe un danno gravissimo.

Diversamente, il ruolo di un sindacato conflittuale nella fase attuale, a mio avviso, non è quello di confinarsi in un’azione di stimolo e di persuasione nei confronti delle forze politiche, dell’opinione pubblica e dei lavoratori a conservare le conquiste degli anni passati (in più alludendo genericamente a modelli diversi di sviluppo), proclamando ogni tanto qualche sciopero (cosa tutta’altro che semplice, dati i tempi attuali) destinato a rimanere una mobilitazione isolata, ma è quello di concorrere attivamente alla costruzione di un vasto fronte di opposizione sociale e politica alle misure di austerità e di distruzione della democrazia che ci vengono imposte dal capitalismo in crisi, senza rifugiarsi in letture italianocentriche e schematiche.

In questo momento è in corso un tentativo simile, animato dalla minoranza della Fiom “Rete 28 aprile” e dall’USB, sostanziato nel Comitato No Debito, che tiene assieme un vasto fronte politico-sociale su pochi temi qualificanti. Tale esperienza è sicuramente da preservare ed estendere.

Compagno Giovanni

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