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Calcio da morire

È sempre difficile ragionare freddamente sui perché della morte di un ragazzo nel pieno della forza fisica, allenato, seguito dai medici, economicamente benestante (sia pure per un periodo decisamente breve della vita).

Ma bisogna cercare di farlo, perché nella vicenda di Piermario Morosini – come per gli altri caduti sui campi sportivi – cogliamo l’evidenza di un limite che per il business non deve nemmeno esistere.

Si gioca troppo, ogni tre giorni, non c’è tempo di riposare”, stanno dicendo in questi giorni tanti campioni e non. Hanno ragione, nessuno può sapere meglio di loro dove si nascondano le cause della rottura improvvisa che ti uccide. Anche se un giocatore di B ha ritmi leggermente inferiori.

Che sono tutte sotto gli occhi di tutti. Le elenchiamo solo per chiarezza, ve ne fosse sfuggita qualcuna.

Il calcio è lo sport che – in Europa, almeno – muove le cifre maggiori. Per questo motivo bisgna creare il numero di spettacoli più alto possibile, a ogni livello. Per questo i tempi di riposo fisiologico vanno compressi e limitati, al massimo un po’ di turnover per le figure di spicco. Per questo, riempiendo palinsesti televisivi, si spalmano partite su ogni giorno della settimana – tra campionato e coppe, anticipi e posticipi, partite a mezzogiorno, alle 15 o alle 18 o alle 21 – e viene spezzato in più punti e più riprese il ciclo circadiano.

Siamo macchine organiche, però. Siamo allenabili, più o meno scientificamente, per migliorare anche molto la nostra prestazione. Ma non in una progressione all’infinito. La saturazione dello sforzo sostenibile è sempre dietro l’angolo. E non c’è additivo, anabolizzante, integratore, che possa cambiare di molto questo dato. Piccoli spostamenti del limite, che avvicinano la soglia del rischio fino a sfiorarla. Qualche volta a superarla.

Accade più spesso che salti un legamento o una cartilagine, in un arto la cui muscolatura è stata tirara a lucido e gonfiata senza poter fare altrettanto con le parti meno elastiche. Accade che sia il muscolo a cedere sotto o sforzo, strappandosi. E il cuore è un muscolo.

Non è bello – ma è necessario – intravedere il funzionamento di un “sistema” dietro una morte individuale. Un modo di produzione – per quanto fredda possa suonare questa definizione – spinge per la massimizzazione del guadagno d’impresa, volgarmente detto profitto. La massimizzazione della prestazione individuale segue questo principio, su ogni posto di lavoro. Che sia in fabbrica, dove sono sempre più numerosi i lavoratori che “si rompono” diventando così “inidonei” (primi candidati al “licenziamento per motivi economici” non più coperto dall’art. 18), o su un campo di gioco.

Siamo tanti, “siete troppi” ci dicono ogni giorno. Una morte sul alvoro vale al massimo qualche riga in un trafiletto. Una strage può muovere anche le troupe tv. Una morte in campo, sotto l’occhio della telecamera, li costringe a fingere dispiacere mentre contano i click sul video di quell’attimo e calcolano a memoria il ritorno pubblicitario. Mentre pregano che d’ora in poi sempre più gente si sieda davanti alla tv con la segreta speranza che lo spettacolo della morte in diretta possa ripetersi.

Non c’è problema. Basta alzare ancora un po’ i ritmi. È statistico che si ripeta. Sotto i vostri occhi. O magari a voi stessi.

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