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Pussy Riot. La solidarietà ipocrita dell’Occidente

*Da «The Nation» (Stati Uniti), su «Internazionale» n. 963-2012)

Le rockstar e i giornali di tutto il mondo hanno sposato la causa delle Pussy Riot. Ma per i motivi sbagliati
Da Madonna a Björk, dal New Yorker al populista Daily Mail, il mondo intero si è unito nel sostegno alle Pussy Riot, il collettivo punk e femminista vittima della repressione dello stato russo. Le tre ragazze sono state condannate da un tribunale fantoccio del presidente Putin a due anni di prigione con l’accusa di teppismo, ma le pressioni internazionali hanno trasformato il caso in un motivo di forte imbarazzo per il Cremlino. Nella solidarietà occidentale alla causa delle giovani russe c’è però qualcosa che dovrebbe farci sentire fortemente a disagio, perché la filosofia delle Pussy Riot, la loro attività politica e la loro musica sono passate rapidamente in secondo piano, e il gruppo è diventato solo uno strumento utile per screditare uno degli avversari degli Stati Uniti. Venti anni dopo la fine della guerra fredda è possibile che i dissidenti russi si stiano nuovamente trasformando in semplici pedine nella strategia antirussa dei paesi occidentali?
Negli anni Settanta, gli Stati Uniti e i loro alleati si interessavano ben poco a quello che dicevano effettivamente i dissidenti sovietici. A loro bastava che criticassero Mosca. Molti americani che non avevano mai letto un libro di Aleksandr Solženicyn apprezzavano i suoi attacchi all’Unione Sovietica, ma rimasero stupiti e offesi, e si sentirono perfino traditi, quando lo scrittore russo criticò la sua patria d’adozione.
«Non doveva essere dalla nostra parte?», si chiesero. Sfruttare i dissidenti per guadagnare punti contro il regime russo è pericoloso come adottare un tigrotto: per quanto possano sembrare addomesticati, alla fine sono sempre degli spiriti liberi, capaci di mordere la mano che li nutre.
Quanti, tra i fan della «preghiera punk» e delle dichiarazioni erudite di Tolokonnikova, sono stati altrettanto entusiasti per la sua partecipazione, all’ottavo mese di gravidanza, a un’orgia pubblica in un museo di Mosca nel 2008? Questa performance, organizzata dal collettivo radicale Voina («guerra» in russo) voleva rappresentare il modo in cui il governo russo fotte i suoi cittadini. In seguito Voina ha anche incendiato un’auto della polizia e ha disegnato un enorme pene su un ponte mobile di San Pietroburgo. In un’altra azione di protesta, un’attivista del gruppo ha rubato da un supermarket un pollo surgelato nascondendolo nella vagina. Ovunque, non solo in Russia, azioni simili porterebbero all’arresto immediato dei partecipanti. Chi vuole sposare la causa delle Pussy Riot e di Voina deve farlo per intero: non si può avere il femminismo divertente, filodemocratico e ostile a Putin senza l’anarchismo incendiario, le provocazioni sessuali, le oscenità esibite e le posizioni di estrema sinistra.
A meno che non siate d’accordo con tutte queste cose (e sospetto fortemente che il 99 per cento dei fan delle Pussy Riot nei mezzi d’informazione tradizionali non lo sia), schierarsi al loro fianco è puro opportunismo. E, proprio come ai tempi dei dissidenti sovietici, questo sostegno è non solo ipocrita, ma nuoce fortemente alla loro causa.
Alla base di gran parte dell’interesse internazionale per le Pussy Riot c’è un equivoco su quello che in realtà vogliono queste dissidenti russe. Qualcuno ha parlato di lotta per la libertà d’espressione o di altri elementi fondanti delle democrazie liberali. Ma il concetto di «libertà d’espressione» è estraneo al pensiero radicale russo. Le Pussy Riot non sono delle liberali che cercano di esprimere il loro punto di vista. Sono le discendenti dichiarate dei surrealisti e dei futuristi russi, determinate a cambiare radicalmente la società, se necessario con la violenza.
Chiunque si sia preso la briga di cercare di capire le loro posizioni, senza limitarsi a usarle come pedine contro il Cremlino, sa che queste ragazze disprezzano tanto il putinismo quanto il capitalismo. Le Pussy Riot prendono di mira non solo l’autoritarismo russo, ma anche – per usare le parole di Tolokonnikova – l’intero «sistema capitalista». E questo vale sia per la Russia sia per l’Occidente, compresi i gruppi editoriali stranieri che seguono il processo schierati dalla loro parte (come la News Corporation di Rupert Murdoch) e i protagonisti dell’opposizione russa, come l’uomo d’affari e attivista anticorruzione Aleksej Navalnij.
I sostenitori delle Pussy Riot in Occidente farebbero bene a capire che il dissenso delle loro eroine non si esaurirà con Putin e non si fermerà anche se la Russia dovesse diventare una «normale» democrazia liberale. Perché le Pussy Riot vogliono qualcosa che è terribile, provocatorio e minaccioso per l’ordine stabilito, in Russia come in Occidente: la libertà da una società patriarcale, dal capitalismo, dalla religione, dalla morale convenzionale, dalla diseguaglianza. Dobbiamo dare il nostro sostegno a queste coraggiose donne solo se anche noi siamo convinti di voler andare fino in fondo.

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2 Commenti


  • antonella

    Con l’arancione te la stai menando un po’ troppo, affibbiandolo a destra e a manca senza argomentare, ma limitandoti all’etichettatura acritica.
    Vadim Nakitin, autore dell’articolo, fa parte di chtodelat, piattaforma che si occupa di “decodifica comunista della realtà capitalista”, tanto per usare le loro stesse parole. E’ singolare il fatto che Nakitin venga tacciato qui di raccontar favole e criticato per il medesimo articolo su Avvenire http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/pussyriotmalattia.aspx.
    Ecco, come ho già osservato precedentemente, certe vicinanze con l’ala cattolica tornano ad affiorare, non c’è proprio verso di sdradicarle. Che almeno si prenda atto della sintonia che corre, su questi schermi, tra alcuni commentatori e i preti.


  • antonella

    Avevo risposto ad un commento, inviato via facebook, che ovviamente precedeva il mio e che sproloquiava senza senso sull’articolo di Vadim Nakitin. Non lo vedo più, dove è finito?

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