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Il disegno antioperaio di Monti

Il violento attacco di Mario Monti dell’altro giorno, l’affermazione che lo Statuto dei Lavoratori ha frenato l’occupazione, è stato da molte parti (dal PD ad alcuni organi di stampa) liquidato come un’affermazione non condivisibile, una “mancanza di tatto” da parte di un non politico o, al massimo, come una gaffe. Non è così! Le parole del premier sono solo il disvelarsi definitivo (apice di mesi e mesi di dichiarazioni in tale direzione, ultima solo in ordine di tempo quella della Fornero sull’Alcoa, i posti di lavoro si possono anche mantenere ma devono essere “economicamente sostenibili”) di un vero e proprio disegno ideologico anti-operaio da parte di questo governo e di chi lo sostiene.

 
Forse con un eccesso di semplificazione, ma possiamo interpretare lo Statuto dei Lavoratori sotto due aspetti. Il primo è ovviamente quello giuridico: nel quadro normativo lo Statuto dei Lavoratori sancisce i diritti della controparte più debole tra i contraenti il contratto di lavoro, in esso lo Stato esercita il suo compito di perseguire l’uguaglianza (difendendo appunto il più debole e cercando di portarlo al livello di “forza giuridica” del più forte) tra i cittadini.
Ma questa concezione non basta, non è soddisfacente e non rende giustizia alla storia del movimento operaio e di chi ha lottato per la nascita dello Statuto dei Lavoratori. Una storia che è intessuta anche di fortissimi radici ideologiche e che è una vittoria importantissima della storia del movimento operaio italiano nei confronti della classe padronale. Con lo Statuto Italiano la classe operaia ha conquistato i propri diritti, i diritti sacrosanti, umani e naturali di chi lavora. Con termini marxisti potremmo definirla una vittoria avanzata della lotta di classe.
 
La globalizzazione negli ultimi decenni ha scompaginato la realtà sociale, abbattendo (per alcuni…) le frontiere nazionali e riscrivendo le strategie e i campi d’azione del mondo industriale. Questo scompaginamento ha spaccato le due classi, quella operaia e quella padronale, che prima nello scontro apparivano granitiche: i padroni da una parte e i lavoratori dall’altra. La classe lavoratrice si è spaccata sostanzialmente a metà: alcuni che hanno i mezzi per potersi spostare e quindi migrare lì dove le condizioni economiche, sociali e lavorative sono più favorevoli e coloro che, per mancanza di mezzi, sono incatenati ad una determinata realtà territoriale. E non è questo solo un riferimento alla ripresa del fenomeno emigratorio, ma una spaccatura ancora più profonda: tanto è vero che i primi sono spesso i lavoratori super-qualificati, con tenore di vita medio-alto, e i secondi sono spesso lavoratori senza grandi qualifiche e che si avvicinano, in alcuni casi, al proletariato e sottoproletariato di antica memoria. La classe padronale si è invece trasformata in una vera e propria piramide: alla base piccole imprese, in alcuni casi artigiane, legate al territorio e ad esso vincolate e, salendo in verticale, imprese sempre più grandi che invece hanno possibilità di delocalizzare o sono già presenti in più nazioni, fino alla sommità dove troviamo le grandi multinazionali. Monti, così come altri esponenti del suo governo, ha da sempre fatto la sua scelta, preferendo e sostenendo le grandi imprese, quelle che possono permettersi di chiudere e aprire dove gli pare. Quelle grandi imprese multinazionali che, nell’epoca della globalizzazione, sono la punta più avanzata della guerra di classe in corso e considerano i diritti, la dignità dei lavoratori e la loro stessa umanità (eh si, forse Monti, Marchionne e Fornero non se ne sono mai accorti, ma anche gli operai e le operaie sono persone, donne e uomini, in carne e ossa…) costi e variabili. Nel momento in cui quindi questi “costi” aumentano o sono già alti, le multinazionali non fanno altro che spostarsi lì dove questi costi sono molto più bassi (per noi, dall’altro della barricata, pare si chiama “sfruttamento” o, se preferite, “schiavitù”) o pretende che vengano drasticamente abbassati (leggasi, sempre per noi ideologizzati “cancellazione dei diritti e della dignità”). Dichiarazioni come quella dell’altro giorni di Monti non fanno altro che rispondere affermativamente e chinarsi proni (ma con le nostre teste) davanti a queste pretese, schierandosi con la classe padronale in questa guerra. Il lavoratore non viene visto come persona, come essere umano, ma solo come variabile economica comprimibile o espandibile a seconda del capriccio del padrone, i diritti si pretende di trasformarli in concessioni dall’alto.
 
Tornando quindi alle due interpretazioni, giuridica e di classe, dello Statuto dei Lavoratori, Monti e il suo governo portano avanti un chiaro disegno antioperaio e disumano. Se vogliamo vederla dal punto di vista giuridico, è la cancellazione di ogni tutela del lavoratore, quello che dovrebbe essere la parte “più debole”: praticamente la legge diventerebbe il darwinismo sociale, l’arbitrio di chi gode di una posizione privilegiata e dominante, il fallimento del diritto e della giustizia. Dal punto di vista sociale, ideologico e della storia del movimento operaio è la più violenta controffensiva padronale da secoli, una vera e propria guerra di classe contro i lavoratori. Una guerra disumana e disumanizzatrice. Nel 1970 lo Statuto fu chiamato non a caso “dei Lavoratori” mettendo al centro il lavoratore come protagonista sociale, legittimo titolare (in quanto lavoratore e persona umana) di diritti, garanzie e tutele. Si vuol oggi solo considerare in maniera puramente finanziaria e mercantilistica il lavoro, un fattore economico quantificabile in termini monetari e totalmente scisso dalla persona, una variabile come un’altra da modificare, comprimere, manipolare, su cui agire come fosse soltanto astratti numeri di un’operazione aritmetica. Comunque la si vuol leggere il disegno finale è quindi la cancellazione del lavoratore, la sua consegna inerme nelle mani del datore di lavoro, la sua considerazione esattamente come se ne aveva centinaia e centinaia di anni fa: uno schiavo da sfruttare il cui valore è allo stesso livello di una merce.  

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