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“Temperare” il capitalismo, la più vecchia delle illusioni

Nei primi giorni di novembre abbiamo verificato la divaricazione strategica (oltrechè pratica e teorica) sulle soluzioni e le alternative alla crisi delle principali economie capitaliste. Mentre a Milano il presidente dell’Ecuador Correa riaffermava che il debito non va pagato, che occorre procedere alle nazionalizzazioni e a forme di integrazione tra i vari paesi che rompano i vincoli imposti dalle istituzioni finanziarie del capitale, al Social Forum di Firenze, ancora una volta, una serie di economisti riformisti lanciano attraverso la Rete europea degli economisti progressisti proposte in chiave tardo-keynesiana come cura possibile della crisi sistemica del capitalismo in atto. Dimostrando così ancora una volta o di essere in mala fede, e quindi non meriterebbero in tal senso alcuna risposta, o di essere speranzosi in una futura uscita dalla crisi in chiave riformista (ma di quale riformismo sono figli?), ignorando che non ci sono più i presupposti economici, politici e sociali per una crescita equilibrata e con capacità redistributive attraverso i vecchi e non più proponibili modelli di Stato sociale; improponibili sia per le dinamiche del conflitto capitale-lavoro che vedono avanzare sempre più un conflitto di classe dall’alto, sia poiché si tratta di politiche economiche incompatibili con la strutturazione stessa della competizione globale interimperialistica.

Anche questa volta associazioni, sindacalisti ed economisti hanno discusso a tavolino, fuori dai problemi di vita reali e quotidiani reali del mondo dei lavoratori in carne ed ossa , contro le politiche della Troika per esaminare le possibilità alternative alla crisi, o meglio per dare indicazione di come uscire “a sinistra” dalla crisi, come si trattasse di un bel gioco a Risiko per i dopocena della sinistra salottiera.

Andiamo per ordine.

Ancora una volta, ma la mamma del cretino è sempre incinta!,nelle interpretazioni sull’attuale crisi mondiale, assistiamo ad una polifonia diretta dalla evoluzione apparente e specifica degli avvenimenti; di volta in volta, la crisi internazionale dei paesi centrali è stata spiegata come una crisi finanziaria globale, una crisi di debito, una crisi fiscale e di passaggio, una conseguenza dei salari eccessivi (crisi della competitività) o dei salari troppo bassi (crisi di domanda).

Questa ultima interpretazione ha un certo seguito tra le organizzazioni che si considerano “di sinistra”, le quali propongono come alternativa all’aggiustamento fiscale e dei salari, un aggiustamento fiscale più lento che permetterebbe di generare un volume di investimento pubblico che si trasformerebbe in motore della crescita, e grazie alla crescita, si potrebbe spalmare nel tempo “l’aggiustamento” delle altri componenti della crisi: i prezzi, le finanze, il credito, il commercio estero.

In base a questa visione ( proprio di una fantascientifica visione si tratta), puntare su un aggiustamento fiscale e sulla riduzione drastica dei salari a breve termine, porterebbe solo alla contrazione della domanda, all’arresto della crescita del PIL e all’aumento del peso del debito sul prodotto.

Il problema di questa interpretazione è che parte da una analisi sbagliata, molto spesso volutamente sbagliata,perché la crisi non è affatto una crisi della domanda come pensano gli economisti di impostazione keynesiana e tanti che dicono di richiamarsi all’analisi marxista. La domanda mondiale continua a crescere anche oggi, ed è cresciuta anche nei momenti più gravi della crisi (2008-2009). In termini correnti, il PIL mondiale si è ridotto solo nel 2009, quando fece registrare una caduta di 3,5 bilioni di dollari rispetto all’anno precedente, dato che dice molto della profondità della crisi. Però, nonostante questa caduta, l’investimento mondiale è rimasto sui livelli abituali (21,7% del PIL) e ha continuato ad aumentare nel 2010 e nel 2011 (22,9% e 23,6%) di fronte ad una media del 22,3% nei dieci anni precedenti allo scoppio della crisi (1998-2007). Di conseguenza, nel 2010 il PIL mondiale è cresciuto di 5,2 bilioni di dollari e di 7,1 nel 2011: dove sta quindi la crisi della domanda?

Questo vuol dire che i capitalisti su scala mondiale non hanno identificato un problema keynesiano di “domanda effettiva”, di realizzazione del valore (di fatto, in parità di potere d’acquisto, anche nel 2009 il PIL mondiale è aumentato di 68 mila milioni di dollari) e hanno continuato ad investire, come sempre, nel capitale – ovviamente cambiando sostanzialmente la geografia dell’investimento, sia da un punto spaziale che settoriale (Dati dell’FMI: World Economic Outlook database 09/2011) .

Se si trattasse di una crisi finanziaria, la gestione della stessa, pianificata dai governi centrali – basata su nuove regole finanziarie e maggiori controlli da parte delle autorità monetarie –, può rappresentare un’uscita capitalista dal problema. In questo contesto, la risposta delle sinistre deve porre l’accento su una riduzione drastica della dimensione delle finanze globali, proibendo direttamente le operazioni speculative, considerate – sbagliando –, operazioni di copertura dei rischi (perché si ha bisogno di un mercato di prodotti derivati da 600 bilioni di dollari, quando il prodotto mondiale è di 60 bilioni? Siamo davanti ad un vero e proprio meccanismo finanziario di trasferimento del valore tra agenti speculativi che sarebbe necessario far sparire). Queste sinistre dovrebbero incentivare la crescita della partecipazione del settore pubblico nell’attività produttiva finanziaria (creazione di una banca pubblica di incentivazione, imprese pubbliche e impiego pubblico per lo sviluppo dei servizi sociali, ecc.) o il controllo politico delle banche centrali affinché queste abbiano come priorità la crescita e non solo la stabilità dei prezzi.

Però, anche se inizialmente la crisi si è manifestata come una crisi delle finanze internazionali, neanche questa è la causa profonda della crisi. Le misure per ridurre il peso del mercato internazionale del denaro e del credito possono rientrare in un programma di emergenza, ma non sono mai una alternativa alla crisi globale.

In molti scritti abbiamo sostenuto anche in tempi non sospetti che bisogna parlare di “normalità” della crisi perché già Marx parlò chiaramente della modalità ciclica del sistema capitalista, che ha quindi come sue fasi le crisi economiche, così come l’espansione e i picchi di crescita.Ed è proprio attraverso la crisi che il sistema ripristina il suo stato di equilibrio distruggendo forze produttive, lavoro e capitale in sovrabbondanza rispetto ai processi di valorizzazione voluti; la distruzione del capitale finanziario per esempio significa eliminare una specifica componente del capitale sovrabbondante; la crisi è quindi una regolarità distruttrice necessaria per tentare di realizzare una nuova fase di crescita economica ricostruendo ciò che era stato distrutto in precedenza e realizzando il saggio di profitto desiderato.

Pertanto ovviamente, quindi, tutte le misure per uscire dalla crisi sono sempre contro i lavoratori prima, durante e dopo, attraverso disoccupazione, precarietà, attacco al salario diretto, indiretto e differito; determinando l’allargamento delle aree di miseria oltre che nelle terre di nessuno anche nella semiperiferia e negli stessi paesi a capitalismo maturo ma anche distruggendo imprese, effettuando fusioni, concentrazioni, distruggendo capacità tecnico-produttive, capitale fittizio e produttivo.

Ovviamente l’obiettivo del capitale è quello di espellere così forza lavoro occupata o veicolando denaro pubblico alle imprese sottraendolo alla spesa sociale, in ogni caso tentando la ripresa di una qualche crescita economica per garantire quei processi di accumulazione necessari con sempre però maggiore sfruttamento del lavoro.

Ne deriva che i tentativi di uscire dalla crisi anche applicando le ricette keynesiane hanno ormai da lunghi decenni assunto la forma dell’abbattimento della spesa sociale per favorire l’economia di guerra (keynesismo militare con il passaggio dal Welfare al Warfare) e il sostenimento dell’impresa con ad esempio rottamazioni, sgravi fiscali, aiuti alle banche, ecc. (keynesismo del Profit State con la determinazione del “Welfare dei Miserabili”).

La particolarità è che questa crisi è prima strutturale e poi si è trasformata in sistemica, e determina quindi sicuramente la fine del predominio del capitalismo e imperialismo statunitense e allo stesso tempo preannuncia la fase terminale del sistema stesso capitalista, proprio perché le possibilità di accumulazione reale del sistema hanno raggiunto il loro limite.

E se nella lunga fase espansiva il modello fordista-keynesiano e gli Stati di welfare keynesiani hanno permesso la crescita quantitativa del capitale, è anche vero che la finanziarizzazione dell’economia, le privatizzazioni forzate, l’attacco ai diritti e al costo del lavoro,al salario diretto, indiretto e differito in tutte le sue forme non ha potuto risolvere questa crisi attraverso distruzione di valore del capitale proprio perché è crisi di sistema.

La crisi attuale è molto di più di una crisi finanziaria di dimensioni globali. È il sintomo di due fenomeni strutturali: da un lato, la fine del ciclo dell’egemonia del capitale statunitense, in attività dalla fine degli anni ’60, e di conseguenza l’esaurimento dei procedimenti posti in atto dal capitale statunitense alla fine degli ’70 e all’inizio degli anni ’80 per continuare a captare risorse materiali e forza lavoro sotto forma di merci dal resto del mondo, sempre a credito.Dall’altro lato c’è un netto rallentamento della produttività che genera difficoltà nell’ampliare la massa dei profitti e nell’arrestare la tendenza alla diminuzione del tasso generale di profitto.

Questi fenomeni pongono una questione chiave dalla cui risposta dipende la prospettiva dell’uscita dalla crisi: come mai dopo trenta anni immersi nella “nuova rivoluzione industriale”, l’economia non cresce? Quale è il significato della stagnazione economica a lungo termine nei paesi centrali nel bel mezzo di una rivoluzione scientifico-tecnica come quella che si suole chiamare “rivoluzione dell’informazione della materia viva”?

Se la crisi diventa una crisi del capitalismo, una crisi della produttività, è perché lo sviluppo delle forze produttive è incappata in un limite oggettivo delle forme attuali delle relazioni sociali di produzione.

E le diverse misure basate sulla “rigenerazione” dell’accumulazione capitalista, sono condannate al fallimento.

Una prima risposta a questa crisi delle strutture e modalità dell’accumulazione capitalista, è stata la delocalizzazione. Il capitale si è lanciato in un tentativo di recuperare i profitti attraverso procedimenti di sfruttamento estensivo: delocalizzazioni e riduzione dei tassi dei salari nel centro, sono le principali ricette applicate, e ora assistiamo a un nuovo tentativo di continuare su questa via.

La seconda risposta è stata la finanziarizzazione dell’economia. Il volume del credito è cresciuto enormemente in molti paesi, soprattutto per la deregolamentazione finanziaria internazionale, e nel caso dell’Europa, ossia nella zona Euro, per la riduzione drastica dei tassi di interesse nei paesi della periferia europea. Tra il 1998 e il 2010, il peso del volume del credito sul PIL è aumentato dal 1,29 al 1,81 nella Eurozona (dati di Eurostat). Tutti i paesi hanno visto crescere il peso del credito nell’attività economica, eccetto la Germania e il Belgio .

In questo modo, la stagnazione dell’accumulazione è rimasta nascosta nella misura in cui si andava accumulando una massa sempre maggiore di debito, soprattutto privato.L’espansione del credito, non accompagnato da un incremento nella produzione e nella realizzazione di valore, si è tradotta in una crisi del credito globale, poiché le aspettative di redditività non sono state mantenute: la velocità con cui si è moltiplicato il credito, ponderata dalla riduzione dei tassi di interesse, è stata maggiore dei tassi di crescita ottenuti dalle economie del capitalismo centrale. Di conseguenza, non ha prodotto sufficiente plusvalore per remunerare il capitale finanziario come si prevedeva nel debito accumulato.

In un tale contesto, le proposte di espansione per la domanda e per la spesa pubblica sono chiaramente insufficienti e inefficaci, visto che una crisi del capitalismo comporta il fatto che le regole del processo di accumulazione – ossia, la forma in cui si lavora, le norme di distribuzione del valore tra il capitale e il lavoro e tra il capitale produttivo, finanziario e redditizio, lo spazio di intervento dello Stato, le forme di applicazione del cambiamento tecnico, la divisione internazionale del lavoro – hanno smesso di funzionare e necessitano di essere sostituite.

Vengono proposte istanze di cambiamento strutturale che non possono nascere dalla “cassetta degli attrezzi” keynesiana, in nessuna delle due versioni.

Rilanciare il conflitto di classe dal basso, riaprire il dibattito sull’uscita dall’Europolo per il superamento del capitalismo
Non esiste nessun argomento teorico che giustifichi il pensiero per cui il sistema capitalista sia l’ultima tappa nell’evoluzione della socializzazione umana, tra le altre cose perché per molti aspetti è una regressione rispetto a sistemi precedenti; mai come con il capitalismo è stata messa in discussione la stessa sopravvivenza della specie umana, sia dalla tecnica (le uniche bombe atomiche che hanno ucciso moltissime vite sono state sganciate da un paese capitalista) che dalla distruzione dell’ecosistema (molto grave con un sistema che valorizza solo ciò che ha un prezzo, ossia, ciò di cui si appropria in forma privata, ignorando il costo dell’ampio consumo di beni naturali non rinnovabili). Ecco perchè parliamo di crisi sistemica.

Da un punto di vista logico ed ideologico, esistono varie alternative possibili alla attuale competizione globale e poi fino alla più strategica determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, ognuna con distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. In ogni caso, qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo nell’individuare i soggetti, il blocco sociale, con i quali avanzare fino alla costruzione di una alternativa non capitalista, e da subito con il rapporto fra classe del lavoro e la tecnologia.

Anche questo fa parte del dibattito che dovrà inaugurarsi tra tutti i lavoratori e gli intellettuali militanti e organici alla classe dei lavoratori le società per orientarsi nel cambio tecnico in funzione del progresso tecnico. E in tutto ciò necessita un progetto pianificato centrale fiscale che sappia redistribuire indirizzando le risorse a investimenti in tecnologie a forte compatibilità ambientale e sociale per una dimensione socio-ecologica dello sviluppo a sostenibilità qualitativa.

In secondo luogo, si dichiara la necessità di un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA, e in particolare in Bolivia dove i movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.

Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia, a partire dalla centralità della pianificazione socio-economica.

Il superamento del capitalismo è una questione indubbiamente aperta. Utilizzando il termine “superare”, diamo per scontato il nostro orientamento verso principi etici e morali: è possibile intravedere un ordine sociale non capitalista che permetta il miglioramento delle condizioni di vita della gente e aumenti il benessere e la felicità?

Questa domanda esige una risposta a due questioni: è necessario superare il capitalismo? È possibile farlo?

Premesso che si pone ormai come inderogabile incanalare la ricerca scientifica e il dibattito politico-economico verso problematiche, modalità di scelta di teorie indirizzate da pratiche di lotta sociale capaci di stimolare processi decisori politico-economici che collochino come centrale la costruzione di un diverso modello di sviluppo che si ponga immediatamente su un terreno qualitativo fuori mercato, si possono da subito sviluppare temi di riflessione e di ricerca e di un programma minimo di controtendenza per riforme di struttura che almeno realizzino ipotesi di controtendenza rispetto alla scelta di sviluppo dello Stato-Impresa.

Va rilevato allora che, già da subito, a maggior ragione per dare un senso socio-economico alla costruzione di economie fuori mercato a compatibilità socio-ambientale è necessario effettuare delle scelte strategiche di politica economica generale che operino congiuntamente sulle emergenze sociali come quelle dell’occupazione e della salvaguardia ambientale.

I principi ispiratori di un diverso paradigma politico-economico a carattere socio-ambientale si lega indissolubilmente ad un nuovo modello di progresso sociale che possa partire dalle linee di un programma minimo di controtendenza che riguardano certamente la prevenzione e il miglioramento della performance ambientale d’impresa, ma mettano al centro del dibattito non la crescita economico-produttiva, ma la crescita della valenza sociale del vivere collettivo. Questi principi fanno riferimento non alle priorità aziendali ma alle priorità sociali, al miglioramento continuo della qualità della vita, alla formazione dei saperi non incentrata sulle logiche di competitività di un nuovo darwinismo economico, ma alla valutazione preventiva degli impatti socio-ambientali, dei prodotti e dei servizi orientati a una nuova qualità dei bisogni.

Le lotte sociali devono animare un dibattito sul netto rifiuto del neoliberismo ed anche e soprattutto sul superamento del sistema capitalista, che già può vantare eccellenti apporti, provenienti dal paese con il capitalismo più sviluppato del pianeta. La partecipazione o meno a queste lotte e al dibattito che si è aperto sarà la linea di demarcazione della riorganizzazione dello spazio politico tra le forze della sinistra radicale e di quella di classe, con progetti inseriti ancora nella logica capitalista e le nuove strutture sociopolitiche e organizzative alternativamente proiettate rispetto al sistema vigente e quindi in chiave anticapitalista.

Da un punto di vista teorico è possibile concepire un sistema nel quale la divisione del lavoro si stabilisca attraverso un sistema di relazioni orizzontali, basato su atti di reciprocità; dove il mercato non faccia a meno della gratuità e dove il conflitto non sia basato sulla dicotomia possesso/non possesso. Questo significa che qualsiasi siano le forme di un sistema post-capitalista, per rappresentare un avanzamento sociale e umano dovrà colmare la separazione capitalista tra l’economia e la politica, la quale permette soltanto a pochi privilegiati di passare da una regione all’altra come cittadini. Per questo, la democrazia partecipativa, politica ed economica è una dimensione chiave di qualsiasi progetto del futuro post-capitalista.

Alla fine ciò che affermiamo da tempo in vari nostri libri e anche ciò che dicono gli economisti più perspicaci come Lapavistas è che siamo di fronte ad una questione politica, di correlazione delle forze. L’euro è stata una decisione di difesa destinata a facilitare la continuità del mercato unico europeo nel contesto di una globalizzazione finanziaria imposta dal potere istituzionale degli Stati Uniti. Le politiche di aggiustamento sono la ricetta del capitale finanziario per caricare tutto il costo della crisi sui debitori, a beneficio dei creditori. Le privatizzazioni e i tagli nel settore pubblico, sono la risposta alle domande del grande capitale produttivo che reclama nuove fonti di ottenimento di plusvalore e profitto. I lavoratori, il cui potere è diminuito dal periodo delle grandi lotte degli anni ’70, sono quelli che pagano i costi della crisi, nella loro doppia condizione di produttori di valore e consumatori di servizi pubblici.

In questo contesto, un programma per superare la crisi della Eurozona a beneficio dei lavoratori può arrivare solo grazie ad una importante accumulazione delle forze che doti di maggior potere il movimento di classe dei lavoratori europei. Bisogna avere a disposizione una proposta alternativa all’Unione Monetaria subordinata ad una globalizzazione finanziaria imposta dal dominio mondiale del capitale statunitense. E una proposta alternativa al mercato unico creato in funzione degli interessi del capitale europeo. Per questa ragione, il dibattito sull’euro sta discutendo la costruzione di una alternativa al caos economico e sociale generato dalle politiche di gestione della crisi dell’UE.

I Paesi della periferia europea necessitano di un sistema monetario e finanziario alternativo all’euro e alla globalizzazione. Però non si può concepire un sistema di questo tipo nell’ambito del mercato unico neoliberista tale come è stato costruito nei Trattati europei. Le regole di funzionamento di questo mercato impediscono una soluzione che apporti stabilità al processo di accumulazione, almeno nel senso che s’intende per “stabilità” sotto il sistema capitalista, cioè un periodo relativamente lungo di crescita nel quale si susseguono cicli successivi di espansione e di contrazione economica. Per tutto questo l’alternativa monetaria e finanziaria deve inserirsi in una proposta di integrazione economica e sociale del tutto differente da quella perseguita dall’Unione Economica e Monetaria e dal mercato unico.

Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo sull’attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.

E’ altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi separatamente, e la sua capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità verso usi sociali.

La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo termine.

Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo profitto a breve termine.

La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.

La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile. Questi settori strategici sono le attività produttive che stanno ottenendo maggiori benefici, come risultato della gestione delle risorse naturali non rinnovabili sulla base di una intensa socializzazione dei costi che non vengono imputati come costi interni (i costi di inquinamento, la distruzione di risorse naturali ecc.), o comunque tali settori stanno ottenendo forti risultati positivi perché stanno beneficiando della privatizzazione di reti di comunicazione e tecnologie la maggior parte delle quali si sviluppano con risorse pubbliche.

È importante riflettere sulle possibilità di gestione di una economia nazionale europea altamente indebitata con l’estero dopo l’abbandono dell’euro (Che succede con i debiti in euro? Fino a quanto si alzeranno i tassi di interesse nazionali e l’inflazione? Come organizzare il neosistema finanziario nazionale e l’interazione con il sistema europeo dei pagamenti?).

Però la risposta a questi interrogativi dipende da come viene gestita la capacità politica di combattere gli interessi associati dei capitali finanziari e produttivi europei e statunitensi. Alla fine, l’euro è una questione politica.

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di pianificazione a compatibilità socio-economica con forme di investimento sociale e di accumulazione favorevole ai lavoratori.

L’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.

I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta comune (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro) all’Europa mediterranea; b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa.

Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti (una risposta simile a questa è quella difesa da Costas Lapavitsas e dal gruppo di ricerca sulla moneta e sulla finanza il “Eurozone Crisis: Beggar Thyself and Thi neighbour” marzo 2010 e in “The eurozone between austerity and default” settembre 2010 consultabile su www.researchonmoneyandfinance.org).

Sicuramente il capitalismo statunitense potrà restare ancora un attore importante ma si realizzerà la fine di un ciclo politico in cui gli USA non avranno una posizione dominante rispetto ad altri centri di potere come l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, che imporranno, anche se in maniera diversificata, nuove forme di potere politico del capitale, che così come per la natura economica della crisi di cui si è detto in precedenza, entrerà in crisi soltanto se le forze soggettive del movimento operaio e di classe sapranno trasformare la crisi economica e politica in crollo e superamento del sistema di produzione capitalista attraverso processi di costruzione di sistemi di relazioni socialiste. Ma da subito è possibile contrapporsi ai i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alleanza alternativa dell’ALBA. E per le organizzazioni sindacali e i movimenti sociali che agiscono in Europa si tratta di acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell’Europolo.

Costruire la strategia dell’alternativa di classe per il superamento del modo di produzione capitalista

Tutto ciò non è e non è stato in passato un mero esercizio teorico ma ha avuto ed ha delle esperienze concrete che rendono tale ipotesi realisticamente praticata e praticabile. Si pensi ad esempi storici dal Kemala ieri, all’ALBA oggi. In tali esperienze, con tutte le possibili diversità si sono affermati modelli di sviluppo autodeterminati , incentrati sulle risorse e le economie locali,l’autodeterminazione valorizzando al contempo le proprie tradizioni culturali e produttive. Si è anche dimostrato che sapendo valorizzare le proprie risorse si può rinunciare a tante merci inutili importate e funzionali ad un sistema di consumismo insostenibile.

Le lotte sociali della fine degli anni ’90, nelle loro varianti e diversità come in Europa nelle grandi manifestazioni contro la guerra e contro il neoliberismo e quelle in America Latina che hanno portato al potere Governi rivoluzionari e democratici come in Venezuela, Bolivia , Ecuador, Nicaragua, Salvador, Uruguay, Argentina, Brasile, tutti nelle loro diverse modalità hanno animato un dibattito sul netto rifiuto del neoliberismo ed anche sulla critica radicale allo stesso sistema capitalista nei suoi fondamenti teorici e alternativi,per il suo superamento in senso socialista,che già può vantare eccellenti apporti, anche provenienti soprattutto dal paese con il capitalismo più sviluppato del pianeta.

La partecipazione o meno a queste lotte e al dibattito che si è aperto sarà la linea di demarcazione della riorganizzazione dello spazio politico tra le forze della sinistra radicale, e di quella di classe, rispetto a quella con progetti inseriti ancora nella logica capitalista; le nuove strutture sociopolitiche e organizzative alternativamente proiettate rispetto al sistema vigente, continueranno i processi di transizione socialista e le battaglie in chiave anticapitalista e antimperialista.

Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova area , di una nuova ALBA mediterranea, con nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di una pianificazione economica per uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo per l’insieme della popolazione della nuova area monetaria ALIAS.

Nelle tendenze attuali non rimane da scoprire nessuna forza interna al sistema che permetta di pensare alla possibilità di una ricomposizione delle condizioni del Patto Sociale del periodo post-guerra, che ha dato origine al cosiddetto Stato sociale Keynesiano dei paesi centrali, molto meno per un’eventuale estensione dello stesso verso la maggioranza espropriata e impoverita del pianeta.

L’alternativa possibile e necessaria richiede una maggiore qualificazione e sofisticazione nelle richieste e nelle analisi dei lavoratori e dei loro rappresentanti, dei cittadini e delle loro organizzazioni. Richieste di miglioramento sociale, ma anche di ampliamento degli spazi di decisione democratica partecipativa, per inaugurare la fase della trasformazione tecnologica, le decisioni di produrre e distribuire sotto il controllo di tutti i lavoratori; decisioni subordinate ad un processo politico e sociale di discussione sul ruolo che devono occupare le macchine e la scienza nelle nostre vite. E’ inaccettabile che l’avanzamento tecnologico, invece che liberare l’umanità dal lavoro pesante, provochi la disoccupazione; invece di migliorare la qualità di vita, provochi nuove forme di inquinamento, invece di incrementare il sapere globale, sequestri la conoscenza nascondendola tra il muro dei brevetti e i diritti di proprietà.

Se le nuove richieste si dirigono verso lo spazio di produzione e distribuzione della ricchezza sociale, prima o poi si concretizzeranno in una strategia di rottura con lo stesso capitalismo.

E allora la risposta alla crisi non può avere altro carattere che quello del rafforzamento politico del conflitto di classe internazionale, nelle sue diverse forme di rappresentazione sociale e politica. Un’alternativa mondiale per la trasformazione radicale deve essere un progetto che contenga un significato di classe transnazionale, con da subito una strategia che si muova in un orizzonte capace di determinare processi politici che, anche nei momenti rivendicativi tattici, abbiano sempre chiara la strategia politica per il superamento del modo di produzione capitalista e di costruzione del socialismo.

Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia.

Costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito nella piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi per riaffermare attraverso la pianificazione socio-economica la volontà di autodeterminazione dei popoli nella democrazia politica partecipativa. Solo così l’autonomia di classe assume il vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da sempre lo stesso sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione capitalistico;e quindi in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi ma trovare anche nella crisi gli elementi del rafforzamento della sua soggettività tutta politica.

Subordinare l’economia alla politica sarebbe una alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente.

* Luciano Vasapollo, Joaquim Arriola, Rita Martufi sono gli autori de “Il risveglio dei maiali”, edizioni Jaca Book

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