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Cambiare è difficile

Due mesi fa, in settanta (diversi per storie e provenienza ma uniti negli obiettivi), abbiamo lanciato il documento “Cambiare si può”. Volevamo verificare la possibilità di una presenza alternativa alle elezioni politiche del 2013. Alternativa al liberismo, al governo Monti e a chi ne è stato il socio di riferimento (le destre da un lato e il Pd dall’altro) sulla base di una diversa idea di Europa, di sviluppo, di politiche per uscire dalla crisi, di centralità del lavoro (e non del capitale finanziario). E, poi, alternativa al sistema politico che ha caratterizzato gli ultimi decenni (anche a sinistra) portandoci allo sfascio attuale: un sistema soffocato da un rapporto corrotto con il denaro e con il potere economico, dalla trasformazione della rappresentanza in delega incontrollata, dalla incapacità di affrontare i problemi reali della vita delle persone; un sistema da trasformare nel profondo con segni tangibili di radicale discontinuità e con nuovi metodi, nuove pratiche, nuove facce (designate dai territori, all’esito di un dibattito pubblico, senza quote o riserve per ceti politici).

A che punto siamo oggi, due mesi dopo? Vale la pena ripercorrere le tappe del percorso. Abbiamo suscitato un entusiasmo impensato coinvolgendo in centinaia di incontri e assemblee, decine di migliaia di “cani sciolti” e orfani di partiti e sindacati ma anche associazioni, movimenti, gruppi, comitati: se ne facessimo l’elenco raggiungeremmo numeri a tre cifre. Sempre con lo stesso riscontro: se andate (andiamo) avanti forse torneremo ad appassionarci alla politica, forse andremo di nuovo a votare o voteremo finalmente con convinzione anziché per abitudine. E abbiamo avviato una contaminazione con alcune forze politiche: talora con asprezze, ma anche con l’aprirsi di nuove dimensioni dell’agire politico in vista di una collaborazione virtuosa (ancorché difficile). A metà percorso abbiamo incontrato il Movimento arancione (espressione di alcuni sindaci e, in particolare di Luigi De Magistris) che ci ha portato in dote, come possibile leader, Antonio Ingroia. Non era il nostro progetto e anche quella candidatura – al di là della stima personale per Ingroia – non era la nostra: per ragioni di forma (riteniamo che anche il candidato premier debba essere scelto dal basso e non precipitato dall’alto), per il rischio di un appiattimento della lista sulla questione giustizia (che è un tema fondamentale ma solo dentro una prospettiva più ampia di società e di sviluppo), per le posizioni aperturiste di Ingroia nei confronti del Pd e delle sue politiche in una dimensione di (auspicati) colloqui di vertice che non ci appartiene. Nonostante questo abbiamo accettato di avviare un processo unitario, anche per evitare che divisioni e settarismi (reali o presunti) travolgessero le speranze di cambiamento che avevamo suscitato. Lo abbiamo detto, peraltro, espressamente: il nostro candidato presidente non sarà il leader ma uno tra gli altri e il nostro portavoce non sarà un singolo ma un gruppo (in cui dovranno trovar posto un operaio licenziato dalla Fiat, una precaria del Sud, un esponente del Movimento no Tav: non come “fiori all’occhiello” ma come espressione visibile delle nostre priorità); tutti gli altri candidati dovranno uscire da un dibattito pubblico sui territori ed esserne espressione: la campagna elettorale andrà fatta con l’entusiasmo e la partecipazione (come accaduto nei referendum) e non con i soldi residui, portati da qualche partito, di quel finanziamento pubblico che tutti a parole contestano.

Forse eravamo (siamo) degli ingenui. Certo oggi, all’esito di quel percorso e alla vigilia delle elezioni, la lista alternativa che si delinea sotto la leadership di Ingroia va in una direzione diversa. Debole nel programma, subalterna alla logica del partito personale (basta guardare il simbolo…), pronta a proiettare in primo piano le candidature dei segretari di partiti e partitini alla ricerca di un seggio (anche di chi si è distinto, in un recente passato, per il sostegno a quelle grandi opere il cui rifiuto è il cuore di un progetto veramente alternativo), essa ripete la logica della Sinistra Arcobaleno del 2008. Non basteranno a modificare il segno dell’operazione le candidature di alcuni (validi) esponenti della cosiddetta società civile, la cui esposizione finirà, al contrario, per indebolire e demotivare proprio quella società. E non basterà un pugno di eletti – se ci saranno – a dare prospettive di cambiamento al quadro politico. Questa la situazione ad oggi. Può ancora cambiare? Forse. Se Ingroia avrà il coraggio di rovesciare il tavolo e di privilegiare il rapporto con la società piuttosto che quello con il ceto politico, se metterà al centro i grandi problemi del Paese anziché le polemiche personali, se abbandonerà il leaderismo promuovendo la partecipazione. Ma dubito che lo farà e, dunque, questa lista, pur meno impresentabile di altre, non sarà la mia.

La domanda è, a questo punto, obbligata: abbiamo sbagliato nel buttarci in questa impresa? Non credo perché abbiamo, almeno, aperto una strada. E, dunque, non smobiliteremo, ma ci attrezzeremo meglio per le prossime scadenze. Sì, forse siamo degli ingenui. Ma abbiamo ogni giorno sotto gli occhi che cosa ha prodotto la politica dei cinici.

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2 Commenti


  • teresa

    Non abbiamo proprio nessuna speranza?


  • luciano panato

    mi sembra, abitando a Vicenza che sia stata la società civile che si trovava in prima fila nella lotta al Dal Molin, a privilegiare, l’accordo con il ceto politico, più che il rapporto con la famosa gente della strada. in questo caso come la mettiamo. diamo la colpa anche di questo ad Ingroia e a quel ceto politico, di cui faccio parte, pur lavorando in fabbrica e nei movimenti o è che nessuno è immune da accordicchi con il potere poltico costituito. ringrazio comunque il compagno Pepino per il suo impegno con i movimenti che hanno putroppo anche loro delle magagne e i loro liderini.

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