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I comunisti napoletani e la rivoluzione civile


*Napolimonitor

Quelli romantici e rivoluzionari, che col fiocco rosso assaltavano il Palazzo di inverno; quelli della Baia dei porci, quelli catturati nella quebrada del Yuro, La Higuera, Bolivia; quelli della rivoluzione culturale. Quelli che credevano che la lotta armata fosse la via e quelli del centralismo democratico; quelli ottusi e intransigenti, ma anche sensibili e fedeli fino all’atto estremo, nel Mistero napoletano di Rea; quelli che da ragazzino mi raccontavano (Antonio Ricca, Antonio Amoretti, Vincenzo Leone, partigiani) in un garage adibito a sezione, di come era stata la resistenza, e ancora esibivano orgogliosamente un nome e un simbolo che andava oltre i destini di uno già sgangherato partito, o di una ics messa a matita su un pezzo di carta. Considerando tutto questo, e che era tempo che non vedevo in giro i comunisti, devo dire che li ho trovati molto peggiorati.

Alla stazione marittima di Napoli, nel giorno del settantesimo anniversario della cacciata dei nazisti da Stalingrado, i comunisti sventolano – simbolicamente, perché in sala non ce n’è nemmeno una – le loro bandiere a sostegno di un ex magistrato che si propone come l’alternativa di questa tornata elettorale. Al loro fianco, in una coalizione che fa rimpiangere le gioiose macchine da guerra del passato, ci sono gli ambientalisti pro-inceneritore, i bene-comunisti che svendono il patrimonio immobiliare pubblico e i legalitari a ogni costo, che però non disdegnano, in qualche regione del nord Italia, di scaricare dalle spese del gruppo regionale cosmetici, calze e slip da donna. Cibo per gatti, cene, vacanze e bagni termali.

Il candidato dei comunisti è Antonio Ingroia, ex magistrato alla procura di Palermo, protagonista di processi storici come quello al senatore Dell’Utri e quello sulla trattativa tra stato e mafia. Essere indulgenti nei suoi confronti vuol dire non tirare conclusioni affrettate basandosi sulla magra figura fatta nei dibattiti televisivi, dove è riuscito a uscire sconfitto non solo nel duello con lo squalo Fini, ma persino in quello con il pluricondannato Sallusti e con la Tatcher salernitana Mara Carfagna. Per lui, però, come per gli altri, vale il principio che rende poco simpatico chiunque lasci a metà un impegno preso, tanto più se per dedicarsi al salvataggio di non si capisce bene quale patria.

A sentire Ingroia, sabato pomeriggio, alla stazione marittima di Napoli, sono venuti in tanti. L’ex (anche lui: aridaje!) assessore D’Angelo, candidato nella lista di Rivoluzione civile, fa notare ai giornalisti, all’inizio del suo intervento, la capienza della sala: «Dico subito che in questa sala c’entrano settecento persone, non come quella di Bersani, che ne teneva centocinquanta». Le facce dei militanti napoletani sono più o meno le stesse di una, due, tre  campagne elettorali fa. I dirigenti, invece, sono gli stessi senza neanche il più o meno. I complici, per capirci, dei disastri della neo-amministrazione comunale, e che (a intermittenza) lo sono stati anche delle precedenti regionali o comunali. Gli stessi che in barba a qualsiasi logica del buon gusto e del pudore si ostinano a utilizzare l’appellativo di cui sopra, incuranti di essere stati sbugiardati dalle pratiche (amministrative ma anche di partito e di piazza) messe in atto negli ultimi anni. Gli stessi che hanno provato, negli anni, a convincermi che bisognava essere di lotta e di governo, poi invece meglio soli che male accompagnati, poi bisognava trovare la luce nell’arcobaleno, poi dopo lo sfascio di nuovo soli, e poi ancora, per tornare in parlamento e non sparire, che era il momento delle alleanze. E va bene che solo gli stupidi non cambiano idea, ma cambiarla ogni ventitre minuti dimostra quantomeno una difficoltà ad avere le idee chiare.

Prima dell’inizio dei lavori mi attardo in sala a chiacchierare con qualche vecchio amico/compagno. Sono pochi quelli entusiasti della nuova lista (che giudicano per la maggior parte come un’operazione elettorale), ma per tutti «andare in parlamento era necessario purtroppo, perché se saltiamo questo turno rischiamo di sparire». In sala ci sono anche un po’ di giovani, divisi tra realisti e ottimisti per natura, ma anche tra loro nessuno sembra essere particolarmente contento del candidato. Ingroia ci mette del suo a non farsi apprezzare, con un discorso soporifero, vago (come quelli di chi l’aveva preceduto, sindaco di Napoli incluso), che ripete ossessivamente le parole d’ordine della politica 3.0 – legalità, onestà, pulizia, giustizia – mentre la prima questione concreta (il lavoro) viene affrontata solo dopo nove minuti di discorso, a platea già tramortita. Mi accorgo, a quel punto, preso dalla necessità di distrarmi, che a parte qualche apprezzabile irriducibile, mancano quasi del tutto quelli della mia generazione, tra i venticinque e i trenta, che i mal di pancia per lo sfascio dei due minipartiti comunisti se li sono fatti tutti. Qualcuno è andato via (Olanda, Roma, Torino), molti altri non vanno più a votare, qualcuno continua a cercare sulla scheda elettorale la falce e il martello “più a sinistra degli altri”, rovistando tra residuati calcarei che vanno ben oltre le ceneri di Gramsci. Altri ancora (come condannarli) hanno preferito una birra prepartita in vista dell’atteso Napoli-Catania delle 20:45.

Appena Ingroia finisce il suo discorso, quando sono sicuro di non perdermi più nulla, stringo qualche mano e vado via, intristito. Riconosco alcuni Di Pietro’s che negli anni, dall’alto di una percentuale di votanti a doppia cifra, ce ne avevano dette di tutti i colori, mentre ora che il vento sembra contrario riservano ai “compagni” un atteggiamento più tollerante. Abbondano, tanto tra i di pietrini che tra i rossi, le sigarette elettriche, che allo stato attuale mi sembrano essere l’elemento di unione e complicità più rilevante tra le varie anime rivoluzionarie civili.

Mi viene da pensare, uscendo dal porto, ai (pochi) compagni che nel partito ci credono ancora veramente, e vorrei dirgli che a questo punto se l’obiettivo è sopravvivere, a qualunque costo o quasi, tanto valeva andare con il Pd, e far parte di un governo-accozzaglia come quello che si configura di qui a breve. Poi ho un sussulto e mi ricordo che persino dal Pd non li hanno voluti. A quel punto non resta che andare allo stadio con un magone che in fondo non mi è ancora passato, nonostante le segnature di Hamsik e di Cannavaro Paolo, o Cannavaro II, come si sarebbe detto una volta.

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