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Le minacciose slide di Draghi

Ci risiamo: ancora una volta ci troviamo a commentare un intervento del presidente della Banca Centrale Europea.
Sono ormai anni che seguiamo con una certa attenzione i contributi di Mario Draghi: sin da quando, da governatore della Banca d’Italia, segnando una discontinuità con i suoi predecessori,  si distingueva per la capacità di rappresentare pienamente il punto di vista e gli interessi del grande capitale europeo fuori da logiche di tipo nazionale. Una capacità di sintesi e di raccordo che lo ha portato a presiedere la Bce, l’istituzione comunitaria che di fatto in questi anni ha scalzato tutte le altre, avviando un processo di centralizzazione delle funzioni esecutive e d’indirizzo politico inimmaginabile fino a pochi anni fa.
La crisi dell’Eurozona e la conseguente necessità di interventi di politica monetaria, tesi a stabilizzare i mercati e in particolare a difesa dei debiti sovrani, ha posto la Bce nella possibilità di poter imporre ai governi dei singoli Stati europei la propria “agenda” condizionando così la propria azione di tutela all’applicazione di determinati provvedimenti.
La lettera inviata il 5 agosto 2011 dalla Bce al governo italiano (che ha imposto misure durissime come l’anticipo del raggiungimento del pareggio di bilancio al 2013 e che successivamente ha determinato le dimissioni di Berlusconi e la nomina di Mario Monti alla guida dell’esecutivo con il compito di riformare pensioni, mercato del lavoro e di tagliare il welfare) è esemplificativa del nuovo ruolo assunto dalla Banca Centrale Europea.
Un  ruolo e un meccanismo che è stato poi di fatto istituzionalizzato nel settembre 2012 attraverso l’adozione del piano per leOutright Monetary Transactions, il cosiddetto piano anti spread.
Questo piano prevede che la Bce proceda all’acquisto illimitato dei titoli di stato a breve termine sul mercato secondario per gli stati che ne facciano richiesta al fine di ridurre i rendimenti. L’attivazione del piano di OMT è però legata ad una “rigida ed efficacia condizionalità” ovvero la sottoscrizione da parte degli stati di un programma del fondo ESM (
European Stability Mechanism). I programmi dell’ESM sono misure vincolanti per gli Stati che “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite”. In parole povere il “salvataggio” è condizionato alla cessione  della propria sovranità, ad una sorta di commissariamento da parte dell’ESM – con modalità simili a quelle utilizzate dal Fondo Monetario Internazionali di cui ricordiamo i “brillanti” interventi dei decenni passati che hanno distrutto le condizioni di vita e di lavoro di decine di milioni di lavoratori a tutte le latitudini ed in particolare nei paesi sudamericani…


Draghi sale in cattedra: l’analisi delle slide

Fatta questa breve premessa, necessaria a delineare il contesto, passiamo ora all’oggetto vero e proprio dell’articolo. Nonostante i media nazionali non ne abbiano quasi fatta menzione, troppo occupati a celebrare il nuovo Papa e a seguire l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, a Bruxelles il 14 e 15 marzo si è tenuto il Consiglio Europeo di primavera. La notizia non sta tanto nello svolgimento del summit, in cui non si è presa nessuna decisione di particolare rilevanza, ma nell’intervento fatto da Draghi nel corso del Consiglio. Il governatore della Bce ha infatti radunato tutti i leader dei paesi dell’Unione, li ha fatti accomodare e, con fare quasi scolastico, con l’ausilio di una ventina di slide ha fatto il punto della situazione per poi concludere “assegnando” i compiti da fare a casa. Dati i precedenti e soprattutto la rilevanza assunta dalla Bce e dal suo governatore, così come ricordato nella premessa, pensiamo sia il caso di sederci virtualmente anche noi in quella sala, analizzare le slide e fare il punto sulle conclusioni.

Il documento si intitola “Euro area economic situation and the foundations for growth”, ovvero “La situazione economica della zona Euro e le basi per la crescita”. Le prime slide ci forniscono semplicemente una serie di dati macroeconomici come l’andamento del Pil nell’area Euro dal 2007 ad oggi, andamento che mostra una recessione pari quasi all’1% per l’anno in corso, per poi passare ai dati sulla disoccupazione sempre per lo stesso periodo che vedono primeggiare Spagna e Grecia che in meno di sei anni hanno più che raddoppiato il proprio tasso arrivando rispettivamente al 26,2% e al 26,4% (approfittiamo per ricordare come questo genere di statistica riguardante il tasso di disoccupazioni siano di fatto falsate a causa  della non armonizzazione dei sistemi di welfare e quindi possono indurre a visioni distorte della realtà, come nel caso dell’Italia, che si attesta al di sotto della media dell’area euro, ma che finora aveva un sistema di ammortizzatori sociali che lasciava il lavoratore anche nei periodi di inattività dovuta a crisi e/o ristrutturazioni legato alla propria azienda).
Draghi è poi passato all’analisi della bilancia dei pagamenti, all’andamento dei conti pubblici e in particolare al rapporto deficit/Pil e Debito/Pil  oltre che all’andamento del credito alle imprese (che segnala una forte flessione per Spagna e Italia). Si tratta di dati abbastanza noti su cui non occore fermarsi più di tanto.
La parte interessante del documento arriva con la ottava slide intitolata “basi per la crescita”. Qui il nostro caro Draghi pone una domanda: da dove viene la crescita? Come ogni bravo insegnante ci fornisce la risposta. La crescita deriva dal:

  • rafforzamento della domanda globale;
  • sostegno della politica monetaria di ancoraggio alla stabilità dei prezzi;
  • ripristino di fiducia, competitività e credito.

Queste risposte meritano a nostro giudizio un paio di considerazioni.

Per quanto riguarda il primo punto è interessante vedere come il governatore si guardi bene dal parlare di un rafforzamento della domanda per quanto concerne la zona euro (che tra l’altro sarebbe l’area di sua competenza), ma usa il termine globale. Questo perché è cosciente del fatto che le politiche che intende mettere in campo indeboliranno ulteriormente la domanda interna attraverso l’abbassamento dei salari e diventa quindi fondamentale, in un modello produttivo orientato alle esportazioni, che ci sia un rafforzamento della domanda a livello globale.

La seconda affermazione invece pone come condizione per la crescita il sostegno incondizionato a quello che da sempre è il mandato della Bce: mantenere l’inflazione sotto il 2%. Un mandato che tutela uno degli interessi principali del grande capitale e in particolare di quello finanziario bancario, ovvero non vedere erosi i propri profitti dalla svalutazione della moneta.

La terza risposta pone la questione della fiducia e della competitività, ovvero la certezza da parte di chi investe che si concretizzino le condizioni necessarie alla profittabilità del proprio business. Tradotto in altri termini: governi autoritari capaci di imporre le proprie decisioni e aumento dello sfruttamento dei lavoratori.

Infine si parla di credito inteso come tutela delle banche in modo che possano svolgere tranquillamente e soprattutto senza rischi la propria attività di intermediazione finanziaria. Nelle slide seguenti è lo stesso Draghi a spiegare nel dettaglio le problematiche legate a competitività e fiducia.

La slide 9 mostra due grafici che rappresentano: l’andamento dei salari dal 1999 al  2011 e l’andamento della produttività nel medesimo periodo di due insiemi di paesi: quelli in surplus e quelli in deficit (i paesi sono assegnati al gruppo Surplus/Deficit se hanno avuto un avanzo di conto corrente/disavanzo nel 2007, l’ultimo anno pre-crisi). Senza grandi sorprese scopriamo che nei paesi in surplus i salari sono cresciuti molto di meno rispetto a quelli in deficit. E, anche per quanto concerne la produttività, la tendenza viene confermata: i paesi in surplus hanno una maggiore produttività rispetto a quelli in deficit. Questi dati non fanno altro che dare una conferma empirica a quella che è da sempre una caratteristica del modo di produzione capitalistica, ovvero più si abbassano i salari, più intensi sono i ritmi di lavoro, tanto più aumentano gli investimenti e si può esportare e conquistare nuove fette di mercato attraverso la possibilità di applicare prezzi più bassi ai prodotti finiti.

Il governatore passa poi nella slide 10 ad analizzare l’andamento dei salari e della produttività nei singoli paesi dell’area Euro. La Germania risulta chiaramente il paese in cui sono cresciuti di meno i salari ed è aumentata di più la produttività: ecco spiegato, a chi ancora non l’avesse capito, il tanto celebrato miracolo tedesco frutto di 10 anni di blocco degli aumenti delle retribuzioni e di riforme del lavoro e del welfare devastanti, come nel caso della Hartz IV. Situazione speculare invece per l’Italia dove gli stipendi sono aumentati nella media dell’UE e il livello di produttività è rimasto quasi immutato dal 1999, sia per la capacità da parte dei lavoratori di porre un argine agli attacchi del padronato che per un arretramento strutturale del modello produttivo.

La slide 11 è intitolata “profitability problems”, letteralmente problemi di redditività. Qui si pone la questione centrale per la borghesia europea ovvero la possibilità di far profitti. Vengono mostrati due grafici (sempre riguardanti i due medesimi insiemi di paesi): in uno viene mostrato l’andamento dei margini di profitto e nell’altro una curva che rappresenta i “contratti negoziati” e il tasso di occupazione. Anche per quanto concerne i margini di profitto i paesi in surplus ovviamente battono di gran lunga i paesi in deficit, dato che viene confermato anche per il tasso di occupati. Un’altra ovvietà dato che è normale che solo chi è in condizione di mantenere bassi i salari può competere, quindi esportare e realizzare profitti. Lo stesso vale per il tasso di occupazione, in quanto più esistono condizioni di profittabilità più aumentano gli investimenti e quindi il numero di occupati.

Seguono poi una slide sulla “Fiducia” misurata con l’andamento dei rendimenti dei bond societari e dei titoli di stato che testimoniano negli ultimi anni un ritorno di fiducia con tassi più bassi. L’unica a fare eccezione è l’Italia che presenta negli ultimi mesi una leggera inversione di tendenza.

La tredicesima slide invece riguarda la questione del credito ed in particolare l’andamento del Tasso di interesse sui nuovi prestiti alle imprese dei principali paesi della zona Euro. Qui i dati divergono nettamente e mostrano come Italia e Spagna siano penalizzate da tassi d’interesse molto più alti rispetto a Francia e Germania, questo differenziale è dovuto a quelle che sono le prospettive di crescita per i singoli paesi. I tassi alti hanno però l’effetto di aggravare ulteriormente la situazione innescando un circolo vizioso dove all’aumento del costo del denaro corrisponde un peggioramento degli outllook che porta ad un nuovo aumento dei tassi d’interesse.

Il penultimo grafico rappresenta invece il rapporto deficit/pil dei singoli paesi, mostrando i risultati raggiunti negli ultimi anni dalle politiche di austerity. Ma il pezzo forte è la slide finale intitolata “Conclusioni”, di cui pensiamo sia opportuno riportare  la traduzione letterale:

  1. riesaminare i mercati dei prodotti e del lavoro per verificare se sono compatibili con la partecipazione all’unione monetaria;
  2. riforma dei contratti di lavoro per i paesi con pressanti problemi di competitività;
  3. piena attuazione della legislazione sul mercato unico.

Il primo punto suona come una vera e propria minaccia. O si è in grado di orientare la produzione  verso settori che possano permettere di esportare e si forniscono condizioni di lavoro perché ciò sia profittevole o si è fuori dall’unione monetaria.
La seconda affermazione è un vero e proprio bagno di realtà. Se si vuole l’incremento degli investimenti, la crescita e quindi l’aumento dei profitti, non c’è altra strada che aumentare lo sfruttamento. Come Marx ci ha insegnato, l’incremento del saggio di profitto può essere raggiunto esclusivamente diminuendo i salari, allungando la giornata lavorativa e aumentando la produttività. Quando
Mario Draghi parla di riforma dei contratti di lavoro intende esattamente questo: abbassamento delle retribuzioni e incremento dell’orario e dei ritmi di lavoro. Probabilmente la lettura di queste slide sarebbe molto utile a coloro i quali (in particolare nell’ultimo periodo nel nostro paese) in buona fede ragionano in termini di compatibilità con questo modo di produzione o rivendicano una sua riforma che porti a un capitalismo dal volto umano magari depurato da corruzione e disonestà.   

Il terzo ed ultimo punto invece appare a una prima lettura più criptico. In realtà è una precisa esortazione a eliminare tutti gli ostacoli presenti a una vera concentrazione dei capitali nell’area Euro. È un appello, rivolto ai governi di tutti i paesi dell’Unione e in particolare a quelli cosiddetti periferici, a non intralciare le fazioni di borghesia più forti nella loro opera di assimilazione di mercati e settori produttivi.

La ricetta è chiara, il piatto è servito: non ci resta che ingoiare il boccone amaro?

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