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Il “lavoro” della politica

La vicenda fa seguito ad altre “tragedie” lavorative similari, che hanno somiglianze e differenze tra loro ma una cosa un comune: racchiudono anche simbolicamente il fallimento di una cultura politica e di una stagione. Che con la logica e l’etica “da compagni” c’entra ben poco.

Parliamo per brevità di soli tre casi emblematici: il manifesto, Liberazione e appunto l’apparato di Rifondazione.

L’ex quotidiano di via Tomacelli è quello con la storia più lunga. Lo gestiva una cooperativa editoriale fondata all’inizio degli anni ’70 da militanti politici, espulsi dal Pci, alcuni dei quali con competenze giornalistiche (e capacità teoriche) di prim’ordine. Una cooperativa “vera”, quasi in assemblea permanente, rigorosamente “comunista” (ognuno ha la sua eresia preferita, ma la matrice è comune), con lo stipendio eguale per tutti, dal direttore alla centralinista, al di sotto dei minimi stabiliti dal contratto dei giornalisti. Ebbero alti e bassi, precipitando al minimo nel ’77 (quando proprio non capirono cosa stava accadendo in Italia), per poi altalenare fino al massimo storico, intorno al 25 aprile del ’94, data della prima vittoria elettorale di Berlusconi e dei suoi giannizzeri, con i fascisti di An “sdoganati” che entravano per la prima volta nel governo.

Dopo quel picco un calo continuo di vendite, investimenti presuntuosi, appiattimento politico sull’antiberlusconismo generico (con notevoli eccezioni per la parte esteri e le pagine economiche di Galapagos). Ma soprattutto troppe assunzioni fatte senza criteri politici, l’emergere di una tendenza a interpretare il mestiere giornalistico come “professione” e basta, senza “pregiudizi ideologici”. Una spoliticizzazione progressiva che emergeva a tratti, in alcuni articoli, ma esplosa poi, quando la crisi gestionale è diventata incontenibile. Alla fine del 2012 la vecchia società veniva liquidata e il giornale affidato a una “nuova cooperativa” che non comprende né le firme storiche (tranne un paio), né in generale la “sinistra” interna.

È finito l’egualitarismo salariale, i giornalisti si sono attribuiti il minimo sindacale della categoria (quindi si sono alzati lo stipendio, a circa 1.900 euro mensili), i poligrafici prendono come in qualsiasi altro posto di lavoro. Stipendi più alti, vendite in calo, un giornale inutile per chi lo legge… Non è difficile prevedere una crisi a breve termine, ma il solito ricorso alla sottoscrizione tra i lettori potrebbe riservare stavolta amare sorprese. Si raccoglie quel che si semina, e il “nuovo manifesto” non semina nulla. Tanto meno idee.

Da qui, comunque, non sono giunte proteste clamorose, picchetti sotto la redazione, ecc. Chi se n’è andato o è stato cacciato – le due cose spesso coincidono – non ne ha fatto una “questione sindacale”. Un giornale politico è una scelta politica e di vita, non “soltanto un posto di lavoro”.

Tutt’altra storia per Liberazione. Qui un “padrone” c’era, per quanto atipico: un Partito comunista. Non è mai stato un giornale per cui la gente si accapigliasse davanti all’edicola, e nonostante alcuni direttori di grande mestiere, come Alessandro Curzi; le vendite sono state sempre assolutamente insufficienti a coprire i costi di una redazione ipertrofica e di non stratosferica qualità giornalistica.

Per di più, a ogni cambio di direzione, si aggiungevano altre assunzioni, gli stipendi erano altamente individualizzati e spesso anche molto al di sopra del minimo contrattuale, ecc. La gestione economica era da fallimento immediato, ma il Prc – finché ha avuto decine di parlamentari e accesso a generosi contributi pubblici per l’editoria – copriva le perdite senza problemi. Tra la metà degli anni ’90 e il 2008, per l’universo bertinottiano è stato il regno di Bengodi. Stipendi alti, assunzioni a gogò, impegno scarso, posti di lavoro facilmente accessibili (se non direttamente nel partito o nel giornale, negli staff degli eletti di ogni ordine e grado.

Con la sconfitta dell’Arcobaleno – che segna l’avvio della “fase extraparlamentare” del Prc – questo universo si spacca, i finanziamenti si prosciugano, sorge l’impensabile necessità di dover stringere la cinghia. Chi, come noi, l’ha sempre fatto, ci può anche sorridere sopra. Ma chi si ritrova improvvisamente a passare dall’agio alle ristrettezze non sorride affatto.

Tanto più che l’”apparato” del Prc – e soprattutto il giornale, Liberazione – era pieno di personale assunto dalla precedente gestione politica e che faceva dunque ancora riferimento a Bertinotti e Vendola, sconfitti nel congresso di Chianciano esubito promotori di una scissione che darà poi vita a Sel.

Situazione singolare: un partito con un livello dirigenziale “di sinistra”, ma con buona parte dell’apparato e quasi tutto il giornale decisamente “contro” (basta rileggere qualche articolo dell’ultima fase “sansonettiana” per sentirsi ancora prudere le mani, tanto era l’anticomunismo volgare che ne trasudava). Quando il giornale, alla fine del 2011, viene chiuso, la redazione dà vita a tre mesi di “occupazione”. Ma nel frattempo continua a essere pagata a stipendio pieno… Persino i sindacalisti di Fnsi e Cgil, che gestiscono la vertenza, non credono ai propri occhi. Nessun altro “padrone” ha mai distribuito stipendi anche sotto occupazione degli stabilimenti.

E siamo arrivati a oggi, alla “chiamata dei carabinieri”, fatta da un gruppo di ex “lavoratori dipendenti” di un partito politico. È un ossimoro doppio, un “apparente paradosso”. Vuol dire che c’è qualche contraddizione reale.

Cosa ci raccontano queste tre storie diverse? Che è finita una cultura per cui “far politica” poteva tradursi senza sforzo in “un posto di lavoro”. Almeno per chi si colloca fuori dal quadro e dalle pratiche dell’”inciucio” sistematico. Del resto, i finanziamenti pubblici “alla politica” saranno certamente ridotti ai minimi termini. Il ceto politico utile al potere riceverà sussidi di altra origine, magari anche più copiosi. Per la forze antagoniste, invece, si torna all’arte di arrabattarsi.

È insomma finita l’epoca della simulazione dell’antagonismo, quella in cui si poteva prendere una posizione “un sacco alternativa” e contemporaneamente mettere in tasca uno stipendio senza troppo sforzo.

È iniziata – o è tornata – l’epoca in cui fare politica da comunisti è una fatica con poca ricompensa, un metterci del proprio, collettivo e individuale, per ottenere risultati che tornano – forse, se va bene – a vantaggio di tutti. L’epoca in cui l’uso delle poche risorse disponibili viene regolato in modo decisamente “parsimonioso”.

È finita l’epoca dei “lavoratori dipendenti” in una “organizzazione comunista”, un autentico insulto alla storia del movimento operaio. Qualsiasi dimensione abbia quest’ultima, poche decine o molte migliaia, avrà bisogno di militanti. Sia per il posto di segretario generale che per quello di centralinista.

Chi cerca un lavoro e basta, “senza pregiudizi ideologici”, non ha che l’imbarazzo della scelta: “il mercato” è ampio, ancorché in una fase di contrazione. Buona fortuna.

p.s. Come si noterà, qui non si è mai affrontato il problema delle scelte politiche fatte in questi ultimi anni dal Prc. Che abbiamo criticato sul piano politico quando ci è sembrato necessario, fino alla disastrosa esperienza della “lista Ingroia”. L’oggetto del ragionamento, in questa sede, è “soltanto” il rapporto tra organizzazione politica comunista, militanza e/o “posto di lavoro”.

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