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Islam politico e militari non sono nostri compagni di strada

Due cose vanno affermate subito e per chiarezza:

a) Un colpo di stato militare è sempre un colpo di stato dall’alto e non è una rivoluzione

b) Dentro uno scontro che presenta molteplici soggetti e fattori in campo, la tifoseria appare del tutto fuori luogo.

Seguendo la dinamica di quanto sta accadendo in Egitto, la memoria non può che andare ad un altro colpo di stato militare rivelatosi decisivo per gli sviluppi recenti dell’Islam politico. Nel 1992 infatti in Algeria, furono i militari – sostenuti dal consenso di tutte le potenze occidentali – a realizzare un golpe per sbarrare la strada alla annunciata vittoria elettorale del Fronte Islamico. Ne scaturì una guerra civile sanguinosa e piena di orrori alla quale fu posta fine dieci anni dopo con un accordo che sancì la sconfitta dell’Islam politico in uno dei paesi più integrati (e corrotti) del Maghreb.

Quel colpo di stato segnò la impraticabilità della via elettorale per l’Islam politico in Medio Oriente e fu decisivo per lo scatenamento di quello che fu definito l’Islam combattente.

Su questo passaggio si sono innescati doppi e tripli giochi e strumentalizzazioni pesanti. L’Islam combattente ha prestato i suoi servigi all’imperialismo Usa – tramite l’Arabia Saudita – in diversi teatri di crisi come i Balcani e la Cecenia, così come aveva fatto in Afghanistan contro i sovietici.

Ma la strumentalità del rapporto e l’abitudine Usa di scaricare i propri alleati temporanei, ha innescato un’onda di risentimento che si concretizzò con il network islamico che diede vita negli anni Novanta al Al Qaida e ad uno scontro globale contro gli interessi Usa e i regimi arabi “apostati” loro alleati.

Gli Stati Uniti con la guerra permanente hanno provato a imporre il tallone di ferro nella regione invadendo l’Iraq, l’Afghanistan, schiacciando la resistenza palestinese. Ma qualcosa non ha più funzionato come in passato.

L’opzione dell’Islam politico, sia nella versione più moderata che in quella militare, ha cominciato a guadagnare consensi dentro la crisi generale del Medio Oriente. La formuletta “la risposta è nell’Islam” è stata la soluzione indicata per ogni problema dei popoli della regione, dall’economia all’identità perduta. In qualche modo questa soluzione è sembrata funzionare, soprattutto quando ha trovato il sostegno degli ingenti capitali delle petromonarchie del Golfo.

“La risposta è nell’Islam” ha dunque ripreso corpo sul piano politico riuscendo a realizzare quello che il colpo di stato in Algeria nel 1992 aveva stoppato. Ha funzionato in Turchia, dove il Partito Islamico si impone su un regime fortemente condizionato dai militari, funziona in Palestina dove Hamas mette alle corde la leadership di Al Fatah, funzionerà poi in Tunisia e in Egitto nel quadro di quelle che sono state definite “le primavere arabe”.

E’ evidente come in questa escalation trionfale abbia pesato l’alleanza tra l’imperialismo Usa e l’Islam politico garantita dalle petromonarchie del Golfo. Questo compromesso prevedeva che Washington tenesse buoni i suoi interlocutori principali (i militari) in Turchia, Egitto, Tunisia; le petromonarchie forniscano i soldi per dare un minimo di risposte alle aspettative sociali e alla miseria, e i partiti islamici che vanno al governo rinuncino a qualsiasi rimessa in discussione dei rapporti economici e dei trattati internazionali stipulati dai regimi precedenti (gli accordi con Israele per esempio).

Con i partiti islamici al potere l’economia rimane sottomessa al liberismo e non vi è alcuna traccia di nazionalizzazioni delle risorse strategiche. Il welfare, pur in condizioni di miseria e disoccupazione di massa, viene affidato alla “zakat”, la carità islamica, e al sistema di servizi sociali nelle mani delle organizzazioni religiose.

L’imperialismo Usa ma anche quello europeo, Francia e Gran Bretagna soprattutto, chiedono in cambio un impegno dell’Islam politico per rimuovere i leader arabi meno subalterni agli interessi occidentali. L’operazione riesce in Libia contro Gheddafi e si cerca di replicarla in Siria contro Assad. Nella Libia, più isolata, l’operazione riesce. In Siria, sostenuta dall’Iran e dalla Russia, l’operazione non riesce nonostante quasi tre anni di sanguinosa guerra civile.

Il problema è che i manovratori non sempre riescono a far quadrare il loro cerchio. La violenta deposizione di Gheddafi in Libia ha prodotto condizioni più vantaggiose alle multinazionali dell’energia, ma ha provocato una destabilizzazione del paese che appare difficile normalizzare. L’uccisione del console statunitense a Bengasi suona come un serio campanello d’allarme per Washington. I gruppi islamici che hanno ricevuto armi e finanziamenti dalle petromonarchie e dalle potenze Nato hanno un rapporto reciprocamente strumentale con i loro sostenitori di ieri. Gli Usa strumentalizzano e gli “strumentalizzati” si ritengono legittimati a fare altrettanto.

In Siria il limite e i pericoli di questo gioco spregiudicato ha mostrato tutta la sua evidenza. Armare i gruppi jihadisti per deporre Assad non sembra essere stata una idea geniale, soprattutto se poi non produce risultati utili sul campo ma rafforza solo i gruppi che domani potrebbero rivolgere le armi contro i loro sostenitori di oggi.

In secondo luogo, i governi islamici eletti democraticamente come in Turchia, Egitto o Tunisia, non possono più cavarsela con la formuletta “la risposta è nell’Islam” di fronte alle aspettative cresciute e maturate nelle giovani e giovanissime società mediorientali. Alla mancata soluzione concreta dei problemi economici e sociali si aggiunge poi la pretesa di imporre rigidità di stampo religioso alla cultura, ai costumi e ai diritti civili. E’ una contraddizione che non regge e non può reggere alle dinamiche del processo storico. Chi propone la regressione non può che soccombere. E su questo dobbiamo operare per farlo soccombere.

Assistiamo allora ad un repentino cambio di cavallo da parte dell’imperialismo e delle petromonarchie del Golfo. Gli sponsor dei Fratelli Musulmani si sfilano uno dopo l’altro, dagli Usa al Qatar, e affidano un nuovo tentativo di normalizzazione agli interlocutori di sempre: i militari. Le Forze armate in questi paesi non rappresentano solo un apparato di coercizione ma sono anche una parte rilevante della struttura economica (in Egitto hanno in mano direttamente almeno il 30% dell’economia, lo stesso si può affermare per la Turchia).

Il colpo di stato militare in Egitto suona indubbiamente come campanello d’allarme anche per Erdogan in Turchia (che ha condotto uno scontro durissimo contro i militari) o per il partito Ennhada in Tunisia. E’ noto che quanto avviene in Egitto ha una enorme influenza sul mondo arabo-islamico.

Il golpe dei militari, checchè ne pensi una certa tifoseria di sinistra piuttosto miope, è un atto grave e una seria ipoteca. Il motivo è semplice. Nelle forze armate egiziane non c’è stata alcuna spaccatura (sempre auspicabile e necessaria) tra chi appoggia una rivoluzione e i vertici conservatori. Lì dove settori militari hanno prodotto processi rivoluzionari (dall’Egitto di Nasser alla Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, da Sankara in Burkina Faso a Chavez in Venezuela) ciò è avvenuto attraverso una spaccatura delle forze armate. E’ utile ricordare come i bravissimi compagni nepalesi, che pure erano ad un passo dall’insurrezione generale e dalla presa della capitale Katmandu dopo aver conquistato le campagne, si fermarono proprio perchè nelle forze armate non c’erano stati segnali di divisioni e dunque ci sarebbe stato solo un bagno di sangue.

Che un colpo di stato militare tolga di mezzo uno degli avversari – l’islam politico come nel caso dell’Egitto – è un fatto, ma è un fatto che difficilmente potrà rivelarsi positivo se il processo rivoluzionario non produrrà una spaccatura in quello che oggi si conferma come il fattore principale dell’ennesimo tentativo di stabilizzazione imperialista in Medio Oriente. Nella polarizzazione tra militari e Islam politico manca ancora la terza opzione, quella rivoluzionaria. La gente che riempie le piazze rischia di rimanerne stritolata. E’ ancora presto per brindare e festeggiare su quanto sta accadendo in Egitto.

 

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2 Commenti


  • alfredo

    Molti pare che abbiano dimenticato le vergognose parole di Vendola quando esaltando le cosiddette “primavere arabe”,disse che bisognava proseguire con Cuba. Le persone oneste e corrette dovrebbero urlare in coro a Vendola che quei paesi arabi per liberarsi dallla schiavitù dovrebbero prendere esempio da Cuba e dalla sua Rivoluzione.


  • Alaa Nasser

    eccellente analisi compagno, ha reso una fotografia molto nitida su ciò che accade in medioriente per mano dell’imperialismo atlantico e del becero capitalismo neoliberista. complimenti davvero

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