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Gli instancabili apologeti della dittatura del capitale

* Rete dei Comunisti (tratto da www.retedeicomunisti.org)

La difesa della dignità di chi – ogni giorno dentro l’infernale dispositivo della giornata lavorativa sociale – è costretto a vendere la sua forza lavoro nelle infinite pieghe con cui si connatura il moderno sistema dello sfruttamento capitalistico era un caposaldo invalicabile dai legislatori.

Per circa un ventennio la giurisprudenza vigente ha costruito un complesso articolato normativo di tutele le quali, per alcuni innegabili aspetti che hanno rappresentato un oggettivo punto di originalità, sono stati un autentico motivo di orgoglio, per le loro spiccate caratteristiche sociali, dell’ordinamento legislativo italiano anche rispetto agli altri paesi capitalistici occidentali.

Certo, come tutte le cose, anche queste originalità non cadevano dal cielo o erano collocate casualmente in quel particolare snodo della vita politica e sociale d’Italia.

Tali conquiste, perché di ciò si tratta, sono state il prodotto, diretto ed indiretto, di un formidabile ciclo di lotte operaie e popolari che, dentro una specifica congiuntura dello sviluppo del capitalismo tricolore afferente prima agli anni del cosiddetto boom economico e poi a quelli del ciclo ‘67/’73, ha generato, nell’oggettivo impatto con la società e i suoi meccanismi di riproduzione e sedimentazione, una cultura ed una prassi genuinamente garantista.

Questo portato culturale e materiale si è opposto, per un lungo tempo, al costante e generale processo di svalorizzazione della forza/lavoro il quale, a scanso di equivoci, ci sia consentito ricordarlo, è un aspetto fondante e costitutivo dell’attuale modo di produzione.

Da ciò la immanente caratterizzazione di un processo antisociale, a tratti devastante, il quale – anche solo se ci limitiamo ad osservare la realtà in cui oggi siamo immersi – ha configurato uno scenario ed un senso comune vigente dove il tema della garanzia del diritto è una eccezione, il valore universalistico della solidarietà è un concetto sconosciuto, l’invocazione dell’egualitarismo equivale ad una bestemmia e il principio della collettività viene associato ad una nefasta utopia tardo/bolscevica.

In questi giorni, frequentando, per motivi edonistici, una biblioteca di una facoltà di Giurispudenza, ci è capitato per le mani un libello “La Riforma del Lavoro 2012” scritto da tale Antonio Vallebona il quale ci ha negativamente impressionato per la lucida e spietata cattiveria associata all’autentico livore antioperaio con cui vengono esposti alcuni convincimenti di questo novello apologeta del capitale.

Il Vallebona per affermare, ad ogni costo, il suo fondamentalismo classista e scopertamente differenzialista scomoda filosofi, aporie, santi ed ogni altra suggestione pur di accreditare il suo odio di classe verso i ceti subalterni del mondo del lavoro e della società.

I nostri lettori si domanderanno perché ci soffermiamo su un testo, come questo del suddetto Antonio Vallebona, a fronte dei tanti manuali e commentari, di vario orientamento interpretativo, che abbondano circa il testo della legge di Riforma del Lavoro del 2012.

Proviamo a motivare questa nostre esigenza:

La Riforma del Lavoro 2012 del governo Monti elaborata dal Ministro Elsa Fornero e le successive modifiche ed integrazioni  sono state oggetto, da parte nostra, di molte critiche. Tali critiche hanno investito sia il versante squisitamente economico/sindacale e sia su quello, più complesso e subdolo, riguardante i profili politici di tale normativa anche in sintonia con i processi di più rilevante concentrazione/centralizzazione dell’Azienda/Italia nell’ambito della accresciuta competizione globale.

Nel complesso, questa che è meglio definire una vera e propria contro/riforma, costituisce un provvedimento di ulteriore penalizzazione contro i lavoratori, costruito sulle macerie già prodotte dai precedenti governi, che avevano già manomesso il diritto del lavoro, l’istituto del Contratto Collettivo Nazionale e aumentato, di fatto, come dimostrano i risultati delle ricerche effettuate dagli stessi istituti di rilevazione ufficiali, la precarietà.

Come se non bastasse la controriforma/Fornero ha proseguito l’attacco antisociale attraverso l’evidente allungamento dell’età pensionabile, l’aumento indiscriminato di tasse e tariffe e la riduzione delle spese sociali, appesantendo, ulteriormente, le condizioni di vita e la qualità del lavoro di chi è occupato.

Nel contempo ha penalizzato, ancora di più, chi purtroppo il lavoro non lo ha o lo perde, come è accaduto nel lasso di tempo dall’approvazione di tale normativa fino ad oggi, a causa dell’incidere degli effetti materiali del corso della crisi.

Come interpretare, altrimenti, la riduzione drastica del periodo di copertura del sistema degli ammortizzatori sociali, come valutare la decisione di lasciare inalterate le tipologie di lavoro precario prevedendone, anzi, il peggioramento attraverso la normativa del contratto a tempo determinato, che per la prima chiamata non ha più bisogno di alcuna motivazione vera ed oggettiva.

Inoltre lo stesso tema dell’Articolo 18 che è al centro della vicenda sindacale italiana da anni è stato fortemente incrinato a favore delle controparti datoriali. A questo proposito lo stesso Mario Monti ebbe a dichiarare, riscuotendo l’applauso interessato dei poteri forti, che il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”.

Eppure, nonostante la nettezza di tale contro/riforma, abbiamo riscontrato nel testo di Antonio Vallebona un surplus di vis polemica e di pathos ideologico che assume toni catartici per giustificare l’operato di Monti e della Fornero.

Particolarmente nella prima parte del suo libello, il Vallebona costruisce la sua cornice teorica ed interpretativa che accompagna la narrazione/illustrazione del provvedimento preso in oggetto.

Una esposizione che va ben oltre il (legittimo anche se non da noi condiviso) sostegno alle tesi del governo e che assume toni lirici ed evocativi quando intende affermare – scomodando San Paolo, Nietzsche, Buddha, Pasolini e Balzac – alcune perle di saggezza sulla cui scorta leggere il “caso Italia” per omologarlo agli standard ed alle dottrine più scopertamente liberiste e turbo/capitalistiche.

L’invito costante alla rapida e totale demolizione di ogni tutela individuale e collettiva, la cancellazione di ciò che residua del vecchio stato sociale, l’opposizione ad ogni intervento verso l’evidente evasione fiscale e la demonizzazione sistematica nei confronti di qualsiasi allusione verso strumenti tipo patrimoniale (anche in forma blanda e simbolica) sono la linea di condotta che Vallebona indica a commento della Legge del Lavoro 2012 e sono uno sprono per affondi più forti e devastanti per il corpo sociale dei subalterni.

Ma dove Antonio Vallebona raggiunge soglie preoccupanti è quando affronta il tema del conflitto sociale e sindacale che – facciamo notare – fino a qualche anno fa anche in ambienti riformisti e genericamente democratici era ritenuto il sale della democrazia.

Per Vallebona, invece, il conflitto è il male assoluto da aborrire perché rappresenta una volontà esplicitata, un agire collettivo, una identità forte e, quindi, a determinate condizioni, una possibilità di cambiamento, di modificazione, di avanzamento e di emancipazione.

Tutti temi che Antonio Vallebona stigmatizza perché da intellettuale(?) organico del capitale mette la sua disponibilità soggettiva al servizio di quella gigantesca operazione di rimozione culturale collettiva che oggi si sta affermando nelle università, nei posti di lavoro, nella società e nelle relazioni sociali disegnando una contemporaneità acefala e blindata.

Non bastano, quindi, solo gli atti, le leggi e i provvedimenti legislativi per affermare definitivamente i caratteri della (sostanziale) dittatura del capitale.

Occorre, sempre più, come è dato proprio delle società a capitalismo maturo, una sintesi più avanzata tra attacco alle condizioni di vita dei lavoratori e sviluppo dei processi di desolidarizzazione e di atomizzazione della classe.

Un compito – di stampo militare – di cui intellettuali come Antonio Vallebona si fanno carico ricevendone, però, tutto il nostro disprezzo!

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1 Commento


  • Radisol

    Vallebona è un avvocato della Cisl di Bonanni …

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