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L’istruzione riparte?

Ieri mattina il Consiglio dei Ministri ha approvato il nuovo decreto legge firmato Maria Chiara Carrozza, che “punta a garantire un miglior avvio del nuovo anno scolastico e accademico” e a “gettare le basi per la scuola e l’università del futuro, restituendo ai settori della formazione centralità e risorse.” Dal titolo, appunto, “l’istruzione riparte”.

Come già si può evincere la nuova visione del ruolo dell’istruzione si distacca da quella dei precedenti governi, dall’impressione che la formazione culturale fosse più che altro un peso, un onere finanziario da smaltire cercando di limare le spese superflue, e non solo. Qui si mira davvero a inaugurare un nuovo corso, a immettere linfa in quello che potrebbe una delle fonti produttive del paese. Ma in che modo? E sotto quale aspetto la formazione dei giovani s’intende come “produttiva”?

Pur essendo una riforma di finanziamenti anziché di tagli, esistono elementi che fanno pensare a una scrematura dal punto di vista della popolazione studentesca stessa. Se infatti tagliare i fondi si è rivelato un fallimento, perché non provare a ridurre il numero degli studenti che intendono rimanere tali per un periodo consono a una formazione di buon livello, annoverandosi dunque nella voce “uscite” delle casse dello stato? Ricorrono più volte nel corso della lettura del contenuto del decreto parole come “motivati”, “capaci”, meritevoli” tra i requisiti per gli studenti destinatari di borse di studio e affini. Ma questa osservazione semantica non basta certo a spiegare il perché delle nostre perplessità, né aggiunge molto al solco già tracciato che vede la corsa individualistica verso l’eccellenza ed il successo come fil rouge preponderante nel mondo degli studi.

Come già avevamo scritto in un articolo precedente, si individuano snodi cruciali della questione nella trattazione di tematiche come i percorsi di avviamento alla scelta di studi o al lavoro e la selezione per le facoltà a numero chiuso.

L’orientamento sarà potenziato durante la scuola secondaria di secondo grado, con possibilità di partecipazione per Camere di commercio e Agenzie per il lavoro, fin dal quarto anno di studio.

Come se non bastasse lo sfruttamento di forza lavoro a costo zero costituito dagli stage di avviamento al lavoro svolti durante gli anni scolastici – nonché universitari – la prospettiva della scelta di percorso assume tinte ancora più fosche alla luce, appunto, del procedimento selettivo per le facoltà a numero chiuso. La conferma della collocazione, a partire dal prossimo anno, dei test in primavera rimarca la differenziazione netta dei percorsi tematici, e dunque di fatto rende necessario scegliere il proprio indirizzo di studi già in coincidenza con la scelta del liceo o istituto a cui iscriversi. Nel caso degli studenti di istituti tecnici e professionali soprattutto – già penalizzati fortemente dal sistema italiano negli ultimi anni – sarà ancora più grosso il deficit di preparazione nei confronti dei colleghi liceali (per quanto il decreto preveda tra le altre cose anche la reintroduzione di un’ora settimanale di geografia, abolita con la riforma Gelmini). Non soltanto decadono i mesi estivi come possibile periodo di preparazione al test, ma decade anche un altro elemento, influente nella valutazione e dunque nell’ammissione all’università, che molto ha fatto discutere negli ultimi mesi: il bonus maturità.

Tale bonus, da un minimo di uno a un massimo di dieci punti, applicato alla valutazione del questionario in base a un complesso calcolo, viene abrogato dal decreto approvato ieri, con la promessa di “definire proposte alternative per la valorizzazione del percorso scolastico”, sulle quali una commissione sta lavorando. Se è vero che il meccanismo di attribuzione di tali punti stava creando scompiglio proprio in questi giorni poiché foriero di situazioni di disparità, a detta degli esaminati (ad esempio casi in cui uno studente uscito dal liceo con un voto migliore prendeva meno punti di un altro con un voto minore, questo perché influisce nel calcolo la media dei voti attribuiti dalle varie commissioni d’esame), questo bonus costituiva anche uno dei pochi elementi di equiparazione dei titoli di studio conseguiti. Infatti nel calcolo non influiva il tipo di scuola di provenienza, mentre ora che è abolito si fa strada l’ombra del ben noto pregiudizio che crea differenze tra istituti e licei, e tra licei di un tipo e licei di un altro.

Tutto questo a scapito della parte della popolazione studentesca che già fatica di più a ritagliarsi la strada verso un percorso universitario consono, quei ragazzi che spesso per motivi socio-economici sono già disincentivati a frequentare gli atenei, e messi di fronte a una selezione sempre più esclusiva e premeditata da un lato e a un rapporto sempre più stretto con il mondo lavorativo dall’altro, durante gli anni dell’orientamento, potrebbero trovarsi di fronte ad una scelta obbligata, diventando tuttavia nient’altro che carne da cannone nel selvaggio mercato del lavoro, precari e sfruttati del futuro.

Queste sono tra le maggiori criticità di un decreto che registra l’impegno a sostenere il mondo della formazione, ma non tradisce in fin dei conti le linee guida della nuova gestione: selezionare il meglio, se possibile fin da subito, al fine di rimettere il paese in corsa nella competizione con le potenze occidentali. Peccato che questo “meglio” sia spesso selezionabile solo tra chi fin da subito se lo può permettere, escludendo menti e idee a priori e cercando di fare in modo che le nuove leve del futuro siano uno stampo e una figura con la classe dirigente di oggi.

 

Non è, dunque, la svolta verso il diritto allo studio che molti invocano, e meno ancora un cambio sostanziale di indirizzo del sistema formativo verso la solidarietà e il cambiamento sociale e politico che sarebbero necessari.

Coordinamento Giovani Rete dei Comunisti – 11 settembre 2013

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