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Adolfo Pansini e la legalità di Napolitano

Quattro mesi fa teppisti armati di spray al peperoncino intossicarono cinquanta malcapitati, causando crisi d’ansia, difficoltà respiratorie e due ricoveri in ospedale. «Il consiglio è quello di farsi visitare sempre da un medico», scrisse il Corriere della Sera. Ora che lo spray è in dotazione alla forza pubblica – non bastavano manganelli, lacrimogeni e pistole – è un coro di rassicurazioni: non nuoce alla salute. Sono tempi in cui le parole hanno più peso: sono scelte di campo.
Vedo all’opera gente in divisa e penso a milizie padronali; ignoro l’identità di chi «tiene l’ordine» in piazza e non so nulla dei picchiatori impuniti, al lavoro in mattatoi che chiamiamo carceri. La polizia irrompe nelle scuole occupate e non si contano i «caporioni denunciati»; invano protesta la madre di Federico Perna, ennesimo detenuto morto di botte in galera: i ministri pensano a tirar fuori gli amici e Napolitano è impegnato a sostenere che un Parlamento nato da una legge fuorilegge può cambiare la Costituzione scritta col sangue dei partigiani.
Non so perché, ma il pensiero va lontano,  penso agli esiti di una ricerca svolta tra archivi e sede dell’Anpi e ostinata mi si presenta la figura di un giovane antifascista, Adolfo Pansini, repubblicano di formazione mazziniana che avrebbe oggi più o meno l’età di Napolitano; non bestemmio, se dico che sarebbe stato un degno Presidente della Repubblica che contribuì a far nascere. Nel 1940, non ancora diciottenne, «assieme ad alcuni coetanei, aveva creato una associazione a sfondo nettamente antifascista che si applicava nella diffusione in pubblico di foglietti stampigliati recanti la scritta ‘Morte a Mussolini’». Il Pansini, scriveva il questore, «deve ritenersi uno dei principali responsabili del movimento, per avere ideato e coordinato la attività antifascista ». In quegli anni, Napolitano, concittadino di Adolfo, faceva la fronda nei GUF, ma lì si fermava. Pensava forse che, sebbene fascista la legalità andasse rispettata e, sia come sia, non fece nulla per violarla.
Pansini, al contrario, riteneva che una legalità lontana dalla giustizia sociale fosse uno strumento di controllo in mano al potere, sicché, entrato in contatto con Ferdinando Pagano, un ragazzo espulso dalle scuole d’Italia per il rifiuto di cantare l’inno fascista,  e coi giovani comunisti del circolo «Karl Marx» di Torre Annunziata, ottenne che i due gruppi clandestini lavorassero uniti, ignorando le  distanze ideologiche. Ne nacque un’attività che non fu solo propaganda. Individuati i picchiatori della milizia, gli antifascistil infatti, li sorprendevano quando erano isolati e rendevano loro pan per focaccia, spendendoli difilato al pronto soccorso. In termini di legalità, quei giovani avevano torto: benché formata da squadristi che non andavano per il sottile, la Milizia, riconosciuta dalla legge, era un corpo dello Stato «coperto» dal potere. Arrestato in seguito alla delazione di una cameriera, insospettita da una pistola scoperta in un cassetto – gli trovarono in casa una stampiglia costituita da caratteri tipografici di piombo e «numerosi fogliettini stampigliati che si accingeva a diffondere» – Pansini, «pericoloso all’ordine pubblico», ma non ancora diciottenne, se la cavò con un anno di carcere espiato in un istituto per minori.
Liberato, si iscrisse ad Architettura, ma fece la fronda: tornò all’attività clandestina e i conti col fascismo li chiuse tragicamente il 30 settembre del 1943, quando morì, armi in pugno, combattendo nelle Quattro Giornate di Napoli. Aveva contribuito così alla sconfitta del regime, ma non ebbe medaglie: quelle andarono soprattutto a «scugnizzi», perché si volle ignorare il valore politico della sommossa. I popoli che si rivoltano in armi per la libertà, non piacciono a nessuno, nemmeno alle democrazie nate da una guerra di popolo. In quanto a Pagano e ai comunisti del «Karl Marx», rifiutato l’accordo con Badoglio e l’alleanza con la DC, lottarono tra i lavoratori per tutta la vita, ma sparirono dalla storia, espulsi dal PCI in cui, intanto, apparso con gran scelta di tempo, Napolitano, immacolato, vergine e schierato per la continuità dello Stato, iniziava una carriera fulminante.
E’ trascorsa una vita. Le carte con cui mi misuro e il tempo nel quale vivo pongono domande complesse, ma alcune risposte sono nei fatti. Il giovane Pansini fu un delinquente? La sua figura è per i giovani un modello positivo, o i Mazzini e i Pertini sono diventati esempi negativi? Cosa farebbe oggi Adolfo, mentre il Paese che volle libero e per il quale fu imprigionato, lottò e perse la vita, torna lentamente servo?
Spry o manganello, Pansini sarebbe un ragazzo libero e ardimentoso, un eroe, se ha senso ancora la parola abusata, e non c’è dubbio: si rivolterebbe contro l’idea che un Parlamento illegittimo metta mano alla «sua» Costituzione e finirebbe schedato tra i nuovi «caporioni». E’ vero, sì, l’antifascista di ieri troverebbe questori pronto a denunciarlo, poliziotti autorizzati a manganellarlo e la «legalità» che lo condannerebbero. I nuovi pennivendoli lo definirebbero certamente «violento» e «terrorista», ma «bandito» fu Pansini per i nazifascisti e a questo siamo: bisogna scegliere: o «malfattori» o inquadrati nella legalità rappresentata da Giorgio Napolitano, che «bandito» non è mai stato.

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