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Vita in trincea

Starci dentro o starne fuori? Se davvero fossero queste le alternative che ogni gruppo, collettivo, singolo militante della sinistra antagonista – ma anche ogni lavoratore “fisso” o precario, pensionato o partita Iva monocommittente, disoccupato o esodato – si trova davanti vedendo scorrere questa giornate sotto il segno del “forcone”, potremmo anche chiudere baracca e prenderci finalmente una vacanza definitiva. Ci sono un sacco di posti, nel mondo, in cui possono sopravvivere anche degli squattrinati come noi…

 

Eppure alcuni compagni, con cui abbiamo condiviso diversi momenti di lotta molto importanti, riducono a questo dilemma stile facebook (like, don’t like) la domanda principale sollevata da questi giorni. Sono quelli che – solo a Torino – hanno deciso di “esserci”, di “sporcarsi le mani”, di provare anche a “indagare la merda”. E che naturalmente difendono questa loro scelta con le unghie e con i denti, sommersi dalle critiche – spesso politiche e argomentate, alcune volte ideologiche e insopportabili – e (a occhio) anche da qualche dubbio interiore.

 

La scelta dei toni non è affatto produttiva, così come dalle loro cronache torinesi di questi giorni non si capisce granché di quel che s’è visto in città; si legge soltanto di quel che è avvenuto nelle piazze che loro stessi hanno deciso di tenere (alcuni presìdi, i cortei di studenti). Spariti o quasi i fascisti, che pure danno bella mostra di sé in molti reportage (anche di movimento). Si parla della chiusura imposta ai supermercati, ma non dell’identità sociale di chi l’ha realizzata (una cosa è – estremizzando per capire – se lo fanno i disoccupati che non ce la fanno a fare la spesa, altro è se lo fanno i piccoli esercenti schiacciati da quella concorrenza; le ragioni non coincidono). Ecc. E da questo ristretto angolo visuale, tutto in soggettiva, ritengono di poter trarre qualche insegnamento di valenza generale, “nazionale”, in senso lato “politica”.

 

L’arroccamento è evidente: “chi si sporca le mani” in questo caos ha diritto di parola, chi resta a pontificare dai siti o dai giornali, no. I primi “producono” qualcosa, gli altri – come i diamanti di De André – no. Fosse così, avrebbero ragione da vendere. Come dar loro torto quando irridono Gad Lerner o Corrado Zunino? Come non condividere la critica rivolta a quanti per decenni hanno teorizzato il “quinto stato” e “il popolo delle partite Iva” senza mai cavarne fuori un briciolo di movimento organizzato?

 

Ma davvero tutti coloro che li stanno criticando sono “benpensanti di sinistra”? Davvero sono tutta gente che predica bene e si fa i fatti propri? Davvero è tutta gente che non scende in piazza e non organizza conflitto “con la legna che c’è”, con “la gente” brutta, sporca e cattiva”? Davvero sono così soli nella battaglia del cambiamento?

 

 

 

Non diciamo cazzate, per favore. È una tattica retorica da vecchio Pci quella di descrivere i propri bersagli polemici come “tutti uguali”, tutti “da un’altra parte della barricata”, o al massimo “tifosi sguli spalti”.

 

Abbiamo costruito insieme le giornate del 18 e 19 ottobre, così come – con molti problemi in più – quella del 15 ottobre di due anni fa. Abbiamo iniziato insieme, lì, quello che pensavamo fosse un percorso conflittuale alto, duraturo, da far crescere in tempi anche rapidi. Abbiamo condiviso insieme le stesse strade, gli stessi scontri, preso le stesse manganellate e ricevuto denunce. Abbiamo discusso insieme di come migliorare la nostra informazione, quella che facciamo ognuno per conto proprio, con un spreco di forze, intelligenza e risorse che potremmo facilmente impiegare in modo molto più efficace. Lottiamo contro lo stesso nemico, che è piuttosto forte, multinazionale e multiforme, con molte sfaccettature quanto a strati sociali, progetti, interessi, sfumature ideologiche. In mancanza di una visione generale di questo nemico, a tutti noi – compresi alcuni compagni torinesi – piace soffernarsi sull’aspetto che ci colpisce per primo, il più vicino, quello a portata di mano.

 

Dopo il 18 e 19 ottobre c’è stato – e l’abbiamo detto subito – “un passo indietro”, un richiudersi nei propri orti di competenza, nelle pratiche abituali di ogni componente, nelle retoriche che ognuno sentiva più familiari. C’è chi ha ritenuto questo arretramento – alcuni torinesi tra questi – “un passo avanti”. Scusate la franchezza: in quale direzione? Quella di questi giorni? Quella che ha fatto scrivere a qualche “benpensante di centrosinistra” che erano scese in piazza le “larghe intese tra fascisti e antagonisti”? A proposito del “portar acqua” ad altri mulini, ci sarebbe da sbizzarrirsi parecchio…

 

Noi – non il nostro piccolo sito di informazione quotidiana, ma il nostro piccolo universo militante, dal piano sindacale a quello politico, dal sociale al “teorico” – organizziamo conflitto tutti i giorni e in tutta Italia (con qualche manchevolezza qui e là, certo). Siamo giocatori in un campo fangoso, non tifosi davanti al televisore o scribacchini in tribuna. Abbiamo mani sporchissime perché viviamo nelle fabbriche e nei quartieri, nei servizi e nel trasporto, nel pubblico impiego come tra i dannati delle cooperative della logistica, con i migranti e con gli occupanti di case; e altrove. Non ci accontentiamo e non ci guardiamo davanti allo specchio. Vorremmo fare di più e meglio, perché la posta in gioco in questa fase è enorme. Pensavamo di poterlo fare insieme a tutti quelli con cui abbiamo condiviso quelle piazze e quelle lotte; e soprattutto con quelli che ancora non avevamo raggiunto.

 

Per riuscirci – questa la nostra ferma convinzione, dopo anni di lavoro sociale e politico – c’è bisogno di far crescere un movimento complesso ma unitario, ricco di identità diverse ma accomunato da minimo di visione condivisa, con pluralità di obiettivi ma con un nemico comune. Ovvero l’Unione Europea e la Troika, il vero governo di questo e altri paesi.

 

Per riuscirci abbiamo bisogno di occupare le piazze di tutta Italia su contenuti chiari. Gli stessi che abbiamo iniziato a proporre il 18 e 19 ottobre, affinando e correggendo, discutendo e confrontandoci, alla ricerca della maggiore unità possibile e senza mai la tentazione di “prender cappello” e dividerci quando le contraddizioni – legittime, prevedibili, superabili – si presentano. Gli stessi contenuti che portiamo ogni giorno in altre piazze, meno frequentate dai media – è vero – a meno che non volino mortaretti e manganellate.

 

Diciamo processo unitario perché abbiamo sperimentato – come tanti altri sperimentano – che agli occhi “delle masse” (se piace di più: “dell’eccedenza metropolitana”) la credibilità di un progetto antagonista dipende dalla radicalità/praticabilità della proposta e dai numeri che si riesce a mobilitare/organizzare. Altrimenti si corre dietro a ogni “esondazione”, locale o nazionale, senza mai cavare un ragno dal buco. È una malattia di cui ha sofferto ognuno noi, ma da cui si può guarire.

 

Noi non diamo voti dall’alto di una cattedra. Ma pensiamo di poter dare un giudizio anche critico verso chi condivide la nostra stessa trincea.

 

 

 

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