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L’orologio rotto (ma si parla di forconi)

“Il flusso impalpabile dei segni si mostra oggi, più che in ogni altra epoca della storia, come potere materiale”.[1] Se applicassimo questa affermazione di Umberto Eco a quanto propostoci in questi giorni dal/sul movimento dei forconi dovremmo esserne disgustati e, in qualche misura, anche intimoriti. Braccia tese “romanamente”, tricolori, libri minacciati di rogo, apologia dell’”onesto” ceto produttivo oppresso dal parassitismo e dagli scansafatiche, appaiono come segni non equivoci di ciò che comunemente chiamiamo destra. Ma da bravi studenti che fanno i compiti a casa questo non ci basta per esprimere un giudizio definitivo. Nemmeno i poliziotti che si tolgono i caschi davanti alla folla – novelli Templari che rendono omaggio al popolo di Dio – ci impressionano. E sì che appena il giorno dopo altri poliziotti hanno manganellato senza remore i reietti dell’altro pianeta all’Università di Roma! Sfumature insomma, come quella che c’è tra il poliziotto abbracciato dal “forconaro” e il poliziotto a cui una manifestante No-Tav imprime un bacio sulla visiera del casco: comprensione per il primo, denuncia per violenza sessuale e oltraggio a pubblico ufficiale per la seconda. Pur con qualche titubanza siamo disposti a passar sopra anche alle rivendicazioni (per lo meno confuse) di questi manifestanti e ci mostriamo saldi nella nostra posizione di voler capire: siamo speculativi, evitiamo i giudizi sommari  e quelli preconfezionati della vulgata marxista (un po’ di originalità non guasta) perché, in ultimissima analisi, non intendiamo ignorare la contraddizione: quella grande e macroscopica descritta da Marx che poi ne genera tante altre. Ed è giusto così! Purché questo però, non si riveli un mero esercizio retorico.

 

Scrive Alessandro Avvisato su Contropiano: “Nessuna spontaneità, nessuna “autorappresentazione”, se non negli sfoghi individuali davanti alle telecamere, nelle storie consegnate ai taccuini dei cronisti. E che raccontano di un’ umanità improvvisamente in difficoltà, abituata a uno stile di vita “benestante” ma che “non vive di rendita”, a contatto quotidiano col lavoro dipendente e niente affatto desiderosa di finire in quest’ultimo girone infernale. “Popolo”, certamente. Ma nel popolo c’è di tutto, come sulla “barca” dove vengono sistemati capitani di vascello, giannizzeri con la frusta e rematori. Fa differenza, non credete? […] Queste figure sociali esprimono rabbia, ma la loro rabbia. Non ce l’hanno col “capitalismo” (anzi…), ma con la propria sconfitta nella competizione globale. E hanno rivendicazioni proprie, chiarissime: recupero fiscale delle accise sui carburanti (nel caso dei camionisti), diminuzione delle tasse, riduzione dei controlli sulla qualità del lavoro (contratti, sicurezza, fatturazione, ecc). Chiedono “protezione” e un vantaggio competitivo, settoriale o nazionale, non un altro modello sociale. Tutte cose che un governo della Troika può dare oppure no, in parte o per settori.”

 

Scrive invece infoaut: “Ricapitolando, un tratto accomuna tutti questi soggetti: quasi nessuno ha alle spalle una ben definita biografia politica; pochi di loro sembrano conoscere minimamente percorsi e forme della militanza antagonista-autorganizzata, perlopiù percepita come “centri sociali”, “black bloc”, “quelli che spaccano le vetrine” (e che saranno prontamente neutralizzati da servizi d’ordine interni e consegnati alle forze dell’ordine” sic!). Per quanto ci possa piacere poco questo aspetto ci pare interessante, consci come siamo della parzialità degli ambiti sociali con cui i milieux militanti sono oggi soliti avere contatti: studenti, pezzi del proletariato giovanile, una provenienza di classe che li colloca tra il proletariato classico e la classe media… mediamente figli/e del lavoro dipendente, e quindi non di rado loro stessi lavoratori autonomi di seconda generazione (specie cognitari), perlopiù iper-precari mediamente o altamente alfabetizzati… non molto di più. […]. Certo, la classica risposta marxista è che al polarizzarsi dello scontro di classe bisogna scegliere da che parte stare. Ma non ci dimentichiamo che prima dello schierarsi definitivo intercorrono processi di soggettivazione e transizione che possono essere i più svariati e distendersi su tempi non prevedibili.”

Punti di vista piuttosto dissimili in cui il vero motivo del contendere non è il movimento dei forconi in sé, quanto ciò che gli può essere sotteso. Più precisamente sembrerebbe che la contesa della no man’s land sia costituita dal giudizio che si dà dei ceti medi (impoveriti o proletarizzati che siano), ovvero dall’enfasi -positiva o negativa – con cui si affronta il tema della “nuova” composizione sociale. Che a me però tanto nuova non sembra, specie se come parametri interpretativi usiamo gli stessi di Revelli (manifesto del 13 dicembre) e cioè che si tratta  della “com­po­si­zione sociale che la vec­chia metro­poli di pro­du­zione for­di­sta aveva gene­rato nel suo pas­sag­gio al post-fordismo”. Ma allora perché meravigliarsi di questa sua esplosione e non, invece, stupirsi di noi stessi che non siamo nemmeno riusciti a prevederla? Forse perché veniamo da un lungo periodo di stordimento interpretativo, dove accanto a chi si è messo in trincea (e ancora oggi ammette di viverci) a difesa di un certo rigore analitico, s’è dato libero corso al post-pensiero? Certo è che dopo anni di mantra post-fordista, di moltitudine, proletariato cognitario e poi di bene comunismo, è dura risvegliarsi sotto la brutalità dei forconi; ma sbaglieremmo ancora approccio se l’interrogativo sul che fare si trasformasse in un match “al meglio” dei cinque editoriali sulla composizione esatta di questo movimento, perché questo sarebbe un esercizio retorico dove ognuno può trovare almeno un motivo per avvalorare la sua tesi di partenza. Che però è sfasata rispetto alla realtà.

Anche un orologio rotto segna l’ora precisa due volte al giorno. Ma per capire se è mezzogiorno o mezzanotte e decidere se è tempo di andare a dormire o di mettersi a tavola, bisogna almeno affacciarsi alla finestra.

Che la composizione sociale sia cambiata è una ovvietà; che le sue potenzialità sovvertitrici non si esprimano più per soggetti di volta in volta dominanti, ma tendano alla loro ricomposizione, sia pure confusa e contraddittoria, è una necessità già manifestatasi da tempo e non solo nel nostro paese. E a me pare che, complessivamente, non siamo riusciti a interpretarla questa necessità, non tanto sul piano teorico, quanto su quello della prassi, del metodo e della proposta organizzativa e questo è un problema che travalica la questione dei forconi. Altrimenti perché – lo dico con il massimo di rispetto ed umiltà – gli ambulanti di Torino (di cui era nota l’insofferenza) non stanno col movimento No Tav? E quanto ha raccolto il sindacalismo di base tra i disoccupati o altri soggetti martoriati dalla crisi che non siano il loro tradizionale “bacino di utenza”? Difendere e consolidare le proprie esperienze di lotta è sacrosanto, ma a restare troppo a lungo in trincea o in Valle si corre il rischio di non accorgersi che la linea del fronte si è spostata.

Siamo entrati, e non da oggi, in una fase storica dove gli eventi sociali significativi non provengono tanto da organizzazioni strutturate politicamente, ma da un protagonismo di massa che esprime una forte tensione al cambiamento di cui non sempre (e non dappertutto) è chiaro il segno. Il decennio scorso è successo in America latina (che pure era stata patria delle avanguardie guerrigliere) e più recentemente è successo in Nord Africa, in Turchia e in Brasile in modo abbastanza inaspettato: perché non dovrebbe accadere anche in Europa, magari non con le stesse modalità? Non è forse quello che tutti e tutte aspettavamo?

Allora, secondo me, la polemica se stare dentro o fuori dei forconi (che comunque sia benedetta!) sottende un altro problema che è quello senz’altro più rilevante, e cioè il fatto che avremo a che fare con grandi agitazioni/movimenti di massa, compositi e contraddittori, con cui dobbiamo imparare a rapportarci secondo modalità diverse da quelle del passato. Il che non significa sposarne la  causa tout court, ma agire nella contraddizione (non soltanto analizzarla come esercizio intellettuale) per crearne altre di contraddizioni, compresi agli stessi “movimenti” che ne sono in qualche modo espressione. Questo comporta in primo luogo che si dia, nel nostro agire collettivo, un cambio di passo sul piano del metodo e della proposta come, in qualche modo, si è avvertito nelle giornate del 18-19 ottobre. Da questo punto di vista ribadisco quanto proposi all’assemblea nazionale del 9 novembre che, detto per inciso, si è svolta prima della lotta dei tramvieri di Genova e del movimento dei forconi: dare vita a livello nazionale a Comitati (o Assemblee) cittadini contro l’austerity non solo come veicolo delle lotte che già si esprimono sul territorio, ma come punto di coagulo e luogo di incontro-scontro per quelle istanze sociali insofferenti dello stato di cose presenti. E’ un passo concreto verso la socializzazione delle lotte che si richiamano all’austerity, ma è anche l’unico modo per verificare (e scremare) la maturità e la compatibilità di certe altre proteste con le nostre.


[1] “Bombardamenti per fare notizia”, Umberto Eco, Corriere della sera, 21.02.1976

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