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Svizzera. I limiti di una lettura razzista e l’esigenza di una risposta internazionale e di classe

Il 29 novembre 2009, gli elettori svizzeri accettavano l’iniziativa popolare : “Contro la costruzione di minareti”. Questa iniziativa, destinata ad avere ampio risalto nelle testate giornalistiche di tutta Europa, iscriveva nella Costituzione Federale l’esplicito divieto di edificazione delle caratteristiche “torri” dalle quali i muezzin sono soliti chiamare alla preghiera i fedeli mussulmani. All’epoca della votazione esistevano in Svizzera, ed esistono tuttora d’altronde, quattro moschee provviste di minareto, nessuna delle quali eseguiva appelli pubblici alla preghiera.

L’iniziativa venne approvata contro ogni previsione. Portata avanti dalla sola Unione Democratica di Centro (UDC) [1] contro il parere di tutte le altre formazioni politiche e autorità istituzionali, fu salutata dalla destra xenofoba autoctona e straniera come il trionfo della volontà popolare e della democrazia (semi)diretta: Il popolo, di nuovo sovrano, rispondeva alla “minaccia” dell’”islamizzazione” e dell’inforestieramento, utilizzando lo strumento del voto per imporre il proprio volere ad un esecutivo giudicato troppo tollerante e passivo. Il fatto che quest’iniziativa fosse chiaramente contraria al diritto internazionale e, in particolare, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo non ha per nulla frenato gli elettori. Anzi, la volontà di dimostrare che i limiti “imposti” dal diritto internazionale potessero essere prevaricati dalla volontà popolare fu probabilmente proprio uno stimolo a votare per l’iniziativa.

A poco più di quattro anni da quel voto, il 9 febbraio 2014, gli elettori svizzeri si sono trovati davanti a una situazione per molti versi analoga. Una nuova iniziativa lanciata in solitario dall’UDC (con l’appoggio marginale dei leghisti ginevrini e ticinesi), contro tutti gli altri partiti, con manifesti minacciosi e esprimendo la volontà di “fermare l’immigrazione di massa”. L’iniziativa, chiaramente contraria all’Accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Unione europea, prevede il ritorno di contingenti che dovrebbero limitare il numero d’immigrati, richiedenti d’asilo compresi, e lavoratori frontalieri. Anche questa volta, grazie anche a una campagna massiccia finanziata da miliardari zurighesi del partito di estrema destra, a stretta maggioranza gli elettori svizzeri hanno accettato la proposta.

Nei giorni successivi, molti si sono posti sul piano della continuità analitica con l’iniziativa sui minareti, considerando che la Svizzera starebbe sprofondando sempre di più in una spirale isolazionista di matrice xenofoba, chiudendosi a riccio per difendersi dalla minaccia incarnata per “l’Eldorado elvetico” di orde di stranieri delinquenti e senza scrupoli. Straniero che, considerato responsabile della distruzione del tessuto sociale del paese, sarebbe all’origine della deriva razzista che sempre più spesso si riflette nelle urne.

Non è certo nostra intenzione negare l’esistenza di tali dinamiche, e in questo senso lo sciovinismo è senza dubbio una delle caratteristiche più marcate della formazione politica alla base dell’iniziativa e dei discorsi di quelle voci che si sono alzate individualmente, dalla destra alla socialdemocrazia, a sostenere l’iniziativa. Nonostante ciò, centrarsi esclusivamente su questo aspetto della questione, dipingendo un conflitto tra una mezza svizzera aperta e multiculturale e un’altra metà, prevalentemente svizzero-tedesca e ticinese, chiusa e razzista, rischia di semplificare oltremodo le dinamiche strutturali complesse all’origine del risultato di quest’ultima votazione. Il semplicismo analitico che rasenta l’imbecillità e la più totale mancanza di un’analisi sistemica della situazione[2] non fanno altro che portare acqua al mulino delle destre reazionarie di cui sopra.

I BERSAGLI DELL’INIZIATIVA

Se nel 2009 il soggetto dell’attacco era facilmente identificato come “il musulmano”, grazie alla propaganda occidentale considerato dalla maggioranza come un barbuto, sporco e cattivo e di conseguenza ascrivibile al razzismo più o meno cosciente dell’elettorato, nel 2014 i bersagli primari della retorica delle destre sembrano essere altri: gli stranieri che “ruberebbero” il lavoro e l’arroganza dell’Unione europea. Tutto l’argomentario a favore dell’iniziativa, basato su testimonianze individuali, qualunquiste o esplicitamente falsate[3] , si è fondato sulla denigrazione di queste due entità.

Gli stranieri sono stati quindi nuovamente attaccati senza remore, continuando a svolgere il loro ruolo di capro espiatorio della politica svizzera. In questa circostanza particolare di presunta “crisi economica”, non sarebbero più attaccati in quanto “pericolosi delinquenti, fondamentalisti islamici o approfittatori dello stato sociale”. La loro colpa sarebbe invece proprio quella di lavorare e integrarsi, “rubando” così il lavoro ai cittadini svizzeri e aumentando la pressione sui salari, gli affitti e i servizi. Nel Canton Ticino ad esempio, la campagna è stata principalmente indirizzata contro i lavoratori frontalieri, responsabili di ogni male, dall’inquinamento al presunto aumento della disoccupazione, in realtà cresciuta di un solo punto percentuale dall’entrata in vigore degli accordi bilaterali (dal 3,5 al 4,5% della popolazione occupata). Interessante notare che nonostante l’effettivo aumento di lavoratori immigrati a livello nazionale, il tasso di disoccupazione è rimasto stabile fluttuando attorno al 3%.

Il secondo bersaglio della campagna è stato la potenza “burocratica e opprimente” dell’Unione Europea, una sorta di “prigione dei popoli”. L’estrema destra svizzera ha così riproposto la dialettica che oppone il mostro europeo ad una Svizzera democratica, popolare e sovrana con la sua democrazia semi-diretta. Quest’ultima intesa come blocco omogeneo ed interclassista, come realtà di piccola nazione di 8 milioni d’abitanti, allo stremo delle sue forze, sommersa dalla cifra apocalittica degli 80mila nuovi stranieri l’anno.

Va infine rilevato che il principale obiettivo dell’iniziativa non era tanto la sua riuscita, quanto piuttosto la possibilità per l’estrema-destra di situarsi ancora una volta al centro del dibattito politico nazionale, dettando il calendario istituzionale, mobilitando i suoi militanti nella raccolta di firme e accumulando i consensi tra quei settori popolari che soffrono le conseguenze del capitalismo e che prendono per buoni i capri espiatori offerti dal padronato più conservatore.

LE POSIZIONI DI BRUXELLES, DEL PADRONATO EUROPEISTA E DEL SINDACALISMO SOCIALDEMOCRATICO

In risposta a questa propaganda, la riuscita dell’iniziativa è presentata da più parti come la riaffermazione di una pretesa sovranità popolare contro i “diktat” dell’Unione Europea. Discorso che sarebbe altresì legittimato dalle immediate “rappresaglie” di Bruxelles, come il congelamento degli accordi sul mercato dell’elettricità e le dichiarazioni minacciose della Commissione europea, che sono lette nella stessa ottica. Quest’attitudine denota però una grande ipocrisia di fondo. In primo luogo assistiamo all’inversione di un semplice rapporto giuridico-meccanico di causa-effetto: più che una minaccia o una ritorsione queste eventualità non sono altro che la logica conseguenza della rottura unilaterale di un trattato internazionale sottoscritto coscientemente da entrambi gli attori in questione. Va inoltre sottolineato come, coscienti dell’effetto deleterio e controproducente che avrebbero potuto avere nella campagna, le istituzioni europee sono rimaste silenziose sul tema nelle settimane che hanno preceduto il voto, senza esprimere ne minacce, ne suggerimenti interessati.

Il nocciolo della questione va invece ricercato proprio all’interno di questo rapporto giuridico-meccanico. Se nel 1992 l’elettorato svizzero rifiuta di integrare l’ex-spazio economico europeo, sottoscrivendo gli “Accordi Bilaterali 1”, nel 1999 la Confederazione entra di fatto a far parte dello Spazio economico europeo aprendo quindi enormi opportunità di espansione per le grandi imprese del capitalismo svizzero.

Non è un caso se tra le fila degli oppositori all’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” i sindacati e la socialdemocrazia hanno tenuto un profilo marginale, adottando un’opposizione critica ma evidenziando la disillusione crescente verso il progetto europeo. I partigiani dell’apertura erano invece principalmente riconducibili al cuore pulsante del capitalismo elvetico: Economiesuisse[4] , l’Unione Svizzera degli Imprenditori, Swismem[5] , l’Unione svizzera delle Arti e Mestieri (USAM) nonché, ovviamente, i principali centri bancari e finanziari.

Il rispetto dell’accordo bilaterale rimesso in discussione dall’iniziativa, non è altro che la sfaccettatura giuridica e il corollario sine qua non che accompagna il progetto liberista che sottostà all’idea stessa di Europa e che crea un libero mercato comunitario pronto a accogliere 60% delle esportazioni elvetiche, a finanziare ampiamente i programmi di ricerca con fondi europei[6], oltre a fornire personale altamente qualificato a buon mercato e senza ostacoli burocratici.

I demagoghi europeisti hanno quindi assunto un viso serio e preoccupato denunciando la scelta razzista del “popolo” elvetico e sottolineando il pericolo isolazionista e le scelte anacronistiche di un paese che, geograficamente, rappresenterebbe il “cuore” di un continente.

I sindacati hanno invece preso atto che il voto operaio si è espresso ampiamente in favore dell’iniziativa ricordando però che il cambiamento non porterà nulla di buono alla situazione dei salariati. Infatti, lungi dal porre fine alla domanda delle imprese svizzere di mano d’opera d’importazione, la reintroduzione dei contingenti implicherà un’immigrazione di lavoratori e lavoratrici con uno statuto ancora più precario e quindi sempre più disposti a rinunciare ai loro diritti, assumendo così la politica globale neoliberista d’attacco generale contro il salario. I sindacati hanno quindi deciso di farne un ulteriore argomento in vista del voto dell’iniziativa sul salario minimo a 4mila CHF prevista per il prossimo 18 maggio[7] .

LE CONSEGUENZE SOCIALI DELLA LIBERA CIRCOLAZIONE SUL MERCATO DEL LAVORO E L’ASSENZA DI MISURE DI ACCOMPAGNAMENTO

Al di là del voto razzista di un elettorato tradizionalmente di destra, soprattutto nelle zone rurali del paese, è necessario determinare le ragioni del voto di quella parte della popolazione che, nonostante gli argomenti che prendevano atto di una prosperità svizzera in crescita dall’apertura al commercio europeo, oltre che di una disoccupazione stabile e ben al di sotto della media europea, della “creazione” di mezzo milione di nuovi posti di lavoro e dal costante aumento del PIL pro-capite, ha invece deciso di esprimere il proprio dissenso rispetto all’attuale stato delle cose.

Per farla breve: i dati macroeconomici proposti sono indiscutibilmente positivi, ma sono pur sempre dati che per definizione non dicono nulla rispetto all’andamento sociale reale di un paese, non rendendo conto della precarizzazione degli impieghi, di una disoccupazione giovanile in crescita, delle condizioni lavorative dei salariati e, soprattutto, dell’effettiva redistribuzione dei beni comuni e della proprietà all’interno di un’economia statale.

Infatti, nonostante l’andamento positivo dell’economia, persino i più strenui difensori dell’economia liberista hanno dovuto riconoscere l’esistenza di un reale problema di “dumping salariale”[8] e di un disagio socioeconomico crescente tra ampi strati della popolazione in seguito all’entrata in vigore della libera circolazione. L’abolizione dei contingenti ha accresciuto enormemente l’offerta di mano d’opera a disposizione del padronato svizzero, diminuendo così il costo della forza lavoro e aumentando logicamente i suoi profitti. I 510 milioni di europei infatti, oltre a essere una massa di potenziali consumatori di medicine, cioccolato e orologi, rappresentano pure evidentemente una massa di potenziali lavoratori. Una sorta di “esercito industriale di riserva” esterno che va a compensare la bassa disoccupazione sul piano interno.

Più che del “razzismo del popolo svizzero”, il risultato dell’iniziativa si può spiegare dall’atteggiamento del liberismo elvetico che ha scelto di sfruttare al massimo questa nuova opportunità rifiutando categoricamente le “misure di accompagnamento” strutturali chieste dai sindacati in occasione dell’apertura del mercato comunitario. Nonostante un diritto del lavoro estremamente lacunoso e filo-padronale rispetto a quello degli altri paesi europei, per esempio Francia o Italia, il parlamento svizzero ha rifiutato le proposte sindacali per migliorare le garanzie dei salariati come : la generalizzazione dei contratti collettivi di lavoro, un salario minimo generalizzato, l’aumento dei giorni di vacanza, la chiusura domenicale dei negozi, la proibizione dei licenziamenti di rappresentanti sindacali, … Inoltre, in molte regioni dove la situazione è aggravata dall’elevato numero di imprese che violavano coscientemente i contratti collettivi in vigore, come in Ticino, i parlamenti cantonali rifiutano di aumentare i controlli mantenendo volontariamente inefficace l’ispettorato del lavoro.

Queste misure strutturali avrebbero permesso di ridurre la pressione sui salari, andando ad incidere positivamente sull’evoluzione dei rapporti di forza e di negoziazione collettiva, limitando l’eterno gioco della concorrenza al ribasso e della “guerra tra poveri”, quindi indirettamente togliendo argomenti a chi volontariamente separa la classe lavoratrice diffondendo razzismo e zizzania. 

IL CONFLITTO INTER-BORGHESE

E’ alla luce di queste ultime considerazioni che andrebbe quindi analizzata l’iniziativa lanciata dall’Unione Democratica di Centro, populista e xenofoba, ma soprattutto espressione della volontà politica e delle disponibilità economiche dell’imprenditore miliardario, Cristoph Blocher che rappresenta dei ben precisi interessi di classe.

Di fronte ad un ampio fronte di capitalisti svizzeri organizzati per difendere la libera circolazione e per opporsi ad ogni misura statale che danneggerebbe il libero e positivo andamento della loro economia, Blocher e l’UDC rappresentano una frazione della classe dominante con un discorso un po’ diverso. Sebbene le industrie chimiche della galassia Blocher siano sparse in tutta Europa ed esportino nel mondo intero, e sebbene il suo partito tutela e protegge il libero mercato come un dogma, considerando le tasse come un male e la burocrazia come l’anticristo, l’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” propone appunto un massiccio intervento statale, in apparente antitesi con la posizione liberista del partito, imponendo la fissazione di “quote” e tetti massimi in funzione di non meglio precisati “interessi dell’economia”, all’interno di un libero mercato europeo teoricamente autoregolato.

L’economista marxista Ernest Mandel definiva queste forme d’intervento cosciente nell’economia, contrarie allo spirito tradizionale del capitalismo, con il termine di “pianificazione indicativa”. Essa sarebbe contraddistinta dal fatto di non rappresentare una gestione diretta da parte dei poteri pubblici, ma piuttosto definire una forma di collaborazione, un’integrazione che vedrebbe da un lato questi poteri pubblici, l’ipotetica commissione federale incaricata di fissare le quote nel nostro caso concreto, e i raggruppamenti capitalistici dall’altro, i settori economici e il padronato elvetico che utilizzeranno le quote stesse.

Tale approccio sarebbe altresì reso possibile, sempre secondo Mandel, a partire dal momento in cui si farebbe strada all’interno di settori chiave del padronato l’idea secondo la quale i meccanismi “puri” del mercato non sarebbero più in grado di assicurare la sopravvivenza del sistema: “Contrariamente alle pianificazione socialista non si tratta tanto di fissare una serie di obiettivi (…) quanto di coordinare i piani di investimento già elaborati dalle imprese private, di effettuare questa necessaria opera di coordinamento proponendo tuttalpiù alcuni obiettivi considerati prioritari sulla scala dei poteri pubblici, cioè obiettivi che corrispondono all’interesse globale della classe borghese”[9] .

In altre parole: piuttosto che un’iniziativa a favore di un astratto “popolo elvetico”, il padronato nazionalista di marca UDC, non fa altro che introdurre un margine di azione burocratico in un contesto di libero mercato: dalla competizione capitalista che si manifesta anche sui salari sotto forma di accaparramento della forza lavoro e “dumping”, alla competizione capitalista per l’attribuzione delle “quote” di manodopera sfruttabile a basso costo. Quote che, non stentiamo ad immaginarlo, non potranno far altro che assecondare gli interessi congiunturali e generali dei maggiori centri di potere economico.

Va detto che la propensione del padronato UDC non è nuova a questo genere di azioni: Il protezionismo statale in ambito agricolo, difeso dalla linea tradizionale e contadina del partito, è forse il più conosciuto degli esempi.

Le tensioni di fondo di questi giorni sono quindi probabilmente ascrivibili anche a quello che può essere definito conflitto interborghese: da un lato il capitalismo finanziario svizzero ed europeo, quello che fa della libertà – ovviamente economiche capitaliste – il suo cavallo di battaglia, dall’altro un certo capitalismo industriale e nazionale che intende difendere interessi specifici e più tradizionali del padronato elvetico. Fino a che punto però questa contraddizione rischierà di sfociare in una crisi aperta?

LE PROBABILI CONSEGUENZE DELL’INIZIATIVA

Il carattere vago in merito ai criteri di determinazione delle quote, così come i margini di applicazione dilatati sull’arco di 3 anni, potrebbero farci ipotizzare uno scenario in cui la votazione sarà letta come l’ennesima vittoria sovrastrutturale di una UDC, e per estensione di una “Svizzera conservatrice e industriale”, riaffermatasi politicamente per l’ennesima volta migliorando così il rapporto di forza nell’ambito delle relazioni economiche della Svizzera con l’UE, indispensabili e funzionali anche al padronato blocheriano.

Vogliamo credere che il rischio per l’insieme della viabilità economica della Svizzera del Capitale non sia così elevato come lo prospettavano taluni proponendo scenari catastrofisti in caso di riuscita dell’iniziativa. L’essenza del rapporto di cooperazione inter-capitalista sarà mantenuto e in questo modo, da un lato saranno instaurate delle quote quasi fittizie, andando a escludere quasi unicamente le fasce meno produttive come migranti extra-UE e richiedenti d’asilo e limitando i ricongiungimenti famigliari, dall’altro verranno applicate delle “ritorsioni” più o meno simboliche, come la sospensione dei finanziamenti alla ricerca o del programma Erasmus, per evitare qualsivoglia tentazione tra gli altri stati membri. Più che un pericolo imminente per l’economia padronale nostrana si prospetta l’ennesimo attacco su più fronti alla condizioni di vita e di sfruttamento di tutto il proletariato in generale, ma soprattutto dei suoi settori lavoratori, così come l’abbandono di settori produttivi considerati non strategici o redditizi nell’immediato come la ricerca o l’istruzione.

L’ESIGENZA DI UNA RISPOSTA INTERNAZIONALE E DI CLASSE

Qualunque sia il futuro, ancora una volta le risposte settoriali su base nazionale infarcite di luoghi comuni e astratti nemici non ci porteranno da nessuna parte. In questo senso l’eventuale vittoria di un no all’iniziativa, per quanto ovviamente più auspicabile, non sarebbe coincisa con una vittoria “progressista” e non avrebbe intaccato l’uso strumentale del padronato e della forza lavoro straniera e di quella Svizzera, né permesso di fermare le politiche sempre più restrittive per quanto riguarda l’accoglienza di migranti “non produttivi”.

Si tratta quindi di cogliere l’occasione per costatare l’impossibilità del movimento operaio per difendere le sue conquiste su scala statale di fronte ad una classe capitalista sempre più globalizzata che, per quanto nazionalista possa apparire, non esita a organizzarsi al di là delle frontiere. Ciò fatto, è il momento di riflettere su come rilanciare l’organizzazione urgente sul piano internazionale e di costruire delle rivendicazioni condivise e generali che superino i particolarismi locali.

Va quindi relativizzato il discorso che indicherebbe come decisiva, sul piano interno, l’ennesima parata alle urne per l’instaurazione di un salario minimo generalizzato di 4mila CHF. Si tratterà certamente di un’occasione per smascherare la vuota retorica blocheriana e di economie Suisse, entrambe propostesi come “difensori della qualità del lavoro in Svizzera” durante l’ultima campagna e l’iniziativa andrà perciò sostenuta. Inutile però illudersi visti i rapporti di forza attuali: in caso di vittoria e d’instaurazione di questo cambiamento strutturale, il padronato non tarderà a trovare un’alternativa per ridurre, magari indirettamente, il costo del lavoro, magari procedendo a delocalizzazioni contro le quali, in mancanza della sopracitata organizzazione internazionale, sarà difficile rispondere in modo significativo.

La vicinanza temporale fra la votazione del 18 maggio e quella appena trascorsa aprono comunque un margine d’azione politica che è necessario e molto importante utilizzare. All’interno di un paese esautorato dalle chiamate alle urne, dove il voto dei salariati si manifesta sempre di più come l’espressione contestataria di un effettivo malessere sociale (prontamente canalizzato dalle destre populiste), la possibilità di affermare una rivendicazione sindacale realmente di classe si configura come la più concreta opportunità per evidenziare le contraddizioni interne al conflitto interborghese. Prima fra tutte la falsità della dicotomia “sinistra europeista” contro “Svizzera sovrana”[10] .

Non si tratta di covare illusorie possibilità rispetto ad un vittoria referendaria sul salario minimo, quanto piuttosto di tornare a riaffermare da un punto di vista pragmatico e programmatico l’indispensabile unità dei lavoratori aldilà dei propri confini nazionali. Tale modalità d’azione, per quanto utopica possa sembrare, si presenta oggi come la sola via percorribile. Di fronte alle tentazioni rossobrune che attraversano larghi strati della sinistra “radicale”, ai posizionamenti sempre più passivi e riformisti della cosiddetta sinistra parlamentare, all’acquiescenza dell’illusione europeista della socialdemocrazia e soprattutto alla spinta xenofoba e qualunquista in netta crescita, la risposta da apportare non può che esprimersi all’interno della lotta e della solidarietà di classe.

***

 [1]. Per quanto il nome italiano e francese (« Union démocratique du centre) del partito possa trarre in inganno, l’UDC è tutto tranne che un partito « di centro ». Originariamente partito conservatore e rappresentativo del voto rurale, negli ultimi decenni è passato sotto il controllo di imprenditori svizzero-tedeschi e in particolare del miliardario Christoph Blocher, tra i più attivi sostenitori del sostegno svizzero al governo sudafricano durante l’apartheid.

 [2]. Si veda per esempio: http://www.mattinonline.ch/svizzeri-odiosi-e-inutili-hanno-mostrato-di-nuovo-il-loro-razzismo/

[3]. Esemplare è un’annuncio pubblicato su vari giornali svizzeri che, manipolando le statistiche sulla crescita della popolazione mussulmana in Svizzera tra gli anni ’70 e il 2013, si chiedeva : «presto un millione di musulmani in Svizzera?», questo quando solo una minima parte dell’immigrazione europea è di fede musulmana.

[4]. Organizzazione che raggruppa le principali industrie private e che ufficialmente “rappresenta gli interessi dell’economia nel processo politico” allo scopo di tutelare gli interessi padronali investendo grandi capitali nelle campagne politiche.

[5]. Organizzazione che rappresenta gli interessi delle industrie meccaniche, elettrotecniche e metallurgiche.

[6]. La Svizzera dovrebbe beneficiare di circa il 40% degli 80 miliardi di finanziamenti europei per la ricerca scientifica nell’ambito del programma «Horizon 2020» che, secondo il ministro svizzero dell’economia, dovrebbe creare 8mila posti di lavoro. La partecipazione della Svizzera al programma è stata sospesa dalla Commissione europea dopo il voto del 9 febbraio.

[7]. http://www.unia.ch/Campagna-salari-minimi.5386.0.html?&no_cache=0

[8]. L’abolizione dei contingenti per i lavoratori stranieri ha accresciuto enormemente l’offerta di mano d’opera, contribuendo così a diminuirne il costo e aumentando i guadagni dei capitalisti.

[9]. Ernest Mandel, Introduzione alla teoria economica marxista, Massari Ed (1992), p.91.

[10]. http://www.mattinonline.ch/la-sindacalista-di-unia-difende-i-frontalieri/ o http://www.mattinonline.ch/lorenzo-quadri-i-kompagni-rsi-hanno-perso-la-votazione-se-ne-facciano-una-ragione/

* Canton Ticino – Svizzera (Fonte: http://www.militant-blog.org)

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