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“Magazzino 18″, deposito di vecchi arnesi

L’operazione che vede da anni i più efficaci e pervasivi media impegnati a veicolare attraverso gli strumenti di divulgazione più popolari ai cittadini italiani la “verità” su quanto avvenuto al confine orientale dopo l’8 settembre e dopo la fine della guerra continua e non pare destinata a fermarsi.

Dopo la versione più estrema e volta a rivalutare scopertamente fascismo e fascisti, rappresentata dalla fiction “Il cuore nel pozzo”, piena di invenzioni ispirate allo sterminio nazista, di stereotipi e luoghi comuni di tipo razzista, di strafalcioni storici e di fascisti repubblichini salvatori degli italiani, con cui l’operazione è stata avviata nel 2004, e dopo che è stato fatto calare un pietoso e provvidenziale silenzio sul preannunciato e mai realizzato film sulle foibe “con ben 13 oscar nel cast” (parlarne avrebbe fatto coprire di ridicolo, se non peggio, un certo mondo delle organizzazioni degli esuli), ora ci ritroviamo con lo spettacolo teatrale – prontamente trasmesso dalla TV di stato – “Magazzino 18”, che è la versione buonista e cerchiobottista della stessa operazione.

Quello di Cristicchi in realtà non è uno spettacolo sull’esodo e le sofferenze di chi lasciò l’Istria e la Dalmazia, ma uno spettacolo che ripropone pari pari le interpretazioni di quanto avvenuto proposte dalle organizzazioni degli esuli: l’unica ed esclusiva ragione dell’emigrazione di massa è stata quella di “rimanere italiani”, espulsi dalle nuove autorità jugoslave per realizzare una fantomatica “Grande Jugoslavia”, una fuga di tutto un popolo di fronte al terrore di venire uccisi e “infoibati”. Una interpretazione che ha l’unica funzione di legittimare la dirigenza delle organizzazioni degli esuli come rappresentante di un popolo (tendenzialmente di TUTTO il popolo “autoctono” dell’Istria). Con una sola chiave di lettura della storia di quelle terre, quella nazionale, che collide però con una realtà storica piena di scelte nazionalmente contraddittorie e in cui un ruolo spesso egemone lo giocò il movimento socialista (e poi comunista) di orientamento profondamente antinazionalista, nelle cui file militavano appartenenti a tutte le nazionalità presenti nella regione. Questo chiave di lettura nazionalista della storia presuppone una controparte “nazionale” che la accetti e faccia propria, anche se da un punto di vista opposto. La fugace citazione dei crimini fascisti e la lettura di un brano in sloveno riguardante il campo di Rab sono una concessione necessaria a non screditare completamente la controparte nazionale slovena, e in particolare gli esponenti della minoranza slovena in Italia impegnati a sostenere l’operazione (lo spettacolo di Cristicchi è stata la prima produzione del Teatro Rossetti di Trieste dopo la nomina a presidente dell’ex parlamentare e sottosegretario PD, lo sloveno Miloš Budin). Si tratta di un gioco delle parti in cui le due interpretazioni e “rappresentanze” nazionali si legittimano a vicenda, escludendo (e criminalizzando) preventivamente qualsiasi prospettiva sovra o internazionale.

Se Cristicchi voleva fare uno spettacolo sull’esodo avrebbe potuto farlo di ben altro spessore, doveva però uscire dal racconto canonizzato. Avrebbe potuto tranquillamente parlare delle violenze che segnarono l’Istria del dopoguerra (magari dando un quadro più ampio e di più lungo periodo dello scontro nazionale, ma anche sociale) e delle loro cause. Avrebbe però dovuto parlare anche della campagna volta a far partire la gente messa in atto proprio dalle organizzazioni degli esuli. Avrebbe dovuto parlare di come non tutti i profughi fossero particolarmente “patriottici” e di come non tutti al loro arrivo in Italia fossero ritenuti egualmente degni di aiuto e assistenza. Di come si tentò di usarli per scatenare la guerra tra poveri sfruttando il loro bisogno di lavorare per utilizzarli come crumiri durante gli scioperi; di come vennero usati per perpetuare la politica di discriminazione nei confronti degli sloveni e perpetuare lo sciovinismo nazionale; dei loro averi rapinati da chi avrebbe dovuto trasportarli nei magazzini del porto di Trieste e altrove; degli scandali legati alla gestione delle risorse loro destinate (ad esempio quelli che riguardarono l’Ente autonomo giuliano in Sardegna e l’Azienda ittico agricola demaniale del Timavo); del controllo poliziesco e delle organizzazioni degli esuli a cui erano sottoposti; dei borghi-ghetto in cui vennero sistemati per tenerli distinti ed estranei a popolazioni ritenute politicamente inaffidabili e pericolose; dei bambini morti per le epidemie scoppiate nei campi in cui erano stati sistemati. Come pure delle proteste che si verificarono. E di tante altre cose ancora. Per farlo avrebbe però dovuto leggere e sentire altre fonti rispetto a quanto raccontano la dirigenza degli esuli, i testimoni interni al mondo delle organizzazioni degli esuli o gli “storici” alla Bernas. Partendo magari da “Storia di un esodo” (del 1980!), passando per “Esuli a Trieste”, “Metamorfosi etniche” e “La memoria dell’esilio”, per i libri di memorie di Vinicio Scomersich “Prima dell’esodo” e “Da Tito a Togliatti”, fino a testi editi dall’IRCI diretto dal suo amicone Delbello, come “Un paese perfetto” di Gloria Nemec. Il quadro si sarebbe certamente complicato, ma forse sarebbe risultato più interessante e vero. Consentendogli di raccontare anche dei gerarchi e gerarchetti fascisti riciclatisi prontamente in rappresentanti dei profughi, anzi, del “popolo istriano, fiumano e dalmata”, e che continuarono a opprimere i loro “rappresentati” come avevano fatto durante tutto il ventennio fascista. Di come gente che coll’esodo aveva nulla o poco a che fare seppe costruirsi una carriera e una posizione di tutto rilievo quali rappresentanti dei profughi. Avrebbe potuto venire a sapere cosa pensassero dell’esodo e delle organizzazioni degli esuli altri profughi DOC, ad esempio Guido Miglia e Riccardo Zanella. Forse si sarebbe accorto che se i comunisti ebbero un atteggiamento del tutto sbagliato in alcuni episodi, non è possibile addebitare a loro, che in Italia erano ben lontani dal potere, la responsabilità della permanenza anche pluridecennale dei profughi nei campi, che ricade invece interamente sulla Democrazia cristiana e sulla dirigenza delle organizzazioni degli esuli, che li costrinsero a ciò per poterli utilizzare per i loro progetti di “bonifica nazionale” o politica di determinati territori e per sfruttarne il disagio a fini clientelari.

Cristicchi avrebbe dovuto chiedersi cosa significasse concretamente in quel momento l’”italianità”, un concetto dal significato tutt’altro che scontato ed univoco. Avrebbe potuto scoprire che per il ceto dominante italiano di allora e per quello dirigente delle organizzazioni dei profughi ancora oggi italianità significa diritto esclusivo al potere politico, al dominio sociale. Avrebbe potuto scoprire che dietro al loro richiamarsi alla discendenza da romani e veneziani si celava la pretesa di essere il popolo eletto, l’unico portatore di civiltà e in quanto tale l’unico legittimato al potere. Magari poteva perfino giungere alla conclusione che buona parte di coloro che se ne andarono non lo fecero “perché non si può vivere senza essere italiani”, anche per il semplice fatto che si trattava di sloveni e croati.

Invece ha deciso di attenersi a quanto gli veniva propinato dalle organizzazioni dei profughi infarcendo lo spettacolo di luoghi comuni, stereotipi, baggianate, errori, forzature e inesattezze, il tutto condito da pressapochismo e supponenza. Che emerge già nella definizione dello stesso protagonista, Persichetti, che di professione farebbe l’archivista. Evidentemente Cristicchi non sa che gli archivisti non si occupano di oggetti (se non in via eccezionale), ma di carte, di documenti. Come non sa che per fare l’archivista ci vuole uno specifico diploma, non basta saper contare e fare elenchi di “robba”. Evidentemente ha le idee confuse, eppure poteva chiedere al suo amico Delbello, laureato in etnografia, e avrebbe saputo che forse per quel tipo di lavoro sarebbe stato più adatto un antropologo o, appunto, un etnografo. Ma è solo l’inizio di una lunga serie di “errori”, omissioni, mistificazioni e forzature che nessuna “licenza artistica” può giustificare e di cui citerò solo gli esempi più eclatanti.

Con tutto il rispetto per quanto hanno passato gran parte dei profughi istriani e dalmati affermare che il loro esodo sia stato “una delle più grandi tragedie vissute dall’Italia” apre la questione di dove collocarla esattamente in una ipotetica classifica di tragedie: prima o dopo la prima guerra mondiale, prima o dopo il fascismo (con l’esodo di circa 100.000 abitanti delle Venezia Giulia annessa), prima o dopo l’esodo di italiani dalle ex colonie africane (numericamente molto più rilevante di quello istriano e dalmata)? Viene anche da chiedersi se in questa classifica vanno inserite solo le tragedie che hanno coinvolto gli italiani come vittime o anche quelle che hanno visto gli italiani nel ruolo di carnefici, come nel caso dei popoli coloniali?

– Per dire che “70 anni fa quelle regioni erano Italia” ci vogliono fonti alla … Bernas. Perché qualsiasi storico con un minimo di serietà sa che 70 anni fa quelle regioni non erano affatto Italia, nemmeno nella sua versione Repubblica Sociale Italiana, perché dall’ottobre del 1943 erano invece Zona d’operazioni Litorale Adriatico, un territorio anche formalmente separato dalla repubblica di Mussolini e gestito e amministrato da un supremo commissario nazista. Se poi vogliamo proprio fare questo genere di conti possiamo anche dire che quelle regioni furono parte dell’Impero Austro Ungarico per almeno cent’anni (Trieste lo fu dal 1382, quando si “diede” agli Asburgo per evitare di finire nelle grinfie di Venezia!) prima di far parte per circa 20 anni dello stato italiano.

– La citazione della canzone asseritamente tradizionale (“anche le pietre parlano italiano”) denota il tipo di preferenze musicali nutrite dai suggeritori e consulenti di Cristicchi, visto che non si tratta affatto di una parte del testo di una canzone tradizionale, ma di una canzone del gruppo fascio-rock “Hobbit”! Quanto alla lingua delle pietre se ci basassimo su quella lo stato italiano può tornare alla rivendicazione di Nizza, Savoia, Malta e Corsica (dove peraltro una lingua di radice più o meno italiana lo parlano anche le persone), ma anche oltre – che dire del Vallo di Adriano in Britannia, di Leptis Magna in Libia?

– Il movimento irredentista era estremamente minoritario nello stesso schieramento nazionale italiano in Austria. Cristicchi forse non sa che i triestini dimostrarono concretamente il loro “amore” per l’Italia al momento della sua entrata in guerra nel maggio del 1915, quando una folla composta in gran parte da italofoni assaltò e distrusse i simboli del partito filoitaliano, a partire dal quotidiano “Il Piccolo”.

– Dopo la prima guerra mondiale Fiume non fu affatto »ricongiunta all’Italia«, semplicemente perché non ne aveva mai fatto parte prima del 1924! Nel 1920 il Trattato di Rapallo stabilì che Fiume sarebbe divenuta uno stato indipendente e alle successive elezioni il partito autonomista prese il doppio dei voti del blocco di partiti, guidato dai fascisti, che volevano l’annessione all’Italia. Che avvenne solo nel 1924 e dopo che nel 1922 un vero e proprio colpo di stato fascista costrinse all’esilio il presidente autonomista dello Stato libero di Fiume, Riccardo Zanella.

– La storia di queste terre non è solo e non principalmente quella di una sorta di »opposti estremismi« nazionali, non solo perché spesso, come già detto, egemoni erano i socialisti, ma anche perché esisteva una forte asimmetria, visto che il nazionalismo italiano dal 1918 in poi potè (e può, come dimostra anche la vicenda dello spettacolo di Cristicchi) contare sull’appoggio attivo dell’apparato civile e militare dello stato italiano.

– La snazionalizzazione di sloveni e croati non ebbe inizio con il fascismo, ma immediatamente dopo l’arrivo delle truppe italiane nella regione. Andrebbe forse aggiunto che l’atteggiamento delle autorità italiane verso la regione annessa fu di tipo coloniale, contraddistinto da una assoluta sfiducia negli indigeni (tutti!) ritenuti inaffidabili per motivi nazionali e/o sociali. Il fascismo, figlio del tutto legittimo dell’Italia liberale, cercherà di portare a compimento l’operazione di “bonifica nazionale” e di “normalizzazione” della regione che verrà continuata dopo la guerra dalla Repubblica “nata dalla Resistenza”.

– “Il fascismo mostra il suo lato peggiore….” è un po troppo generico. Perché non dire che le persone in carne ed ossa che mettevano in pratica tale »lato peggiore« erano in gran parte “indigeni”, come i vari Cobolli Gigli, Coceani, il senatore Gigante e tanti altri, molti dei quali si riciclarono prontamente in dirigenti delle organizzazioni degli esuli e che sono ancora oggi venerati da quelle stesse organizzazioni come luminosi esempi di patriottismo.

– L’equazione italiano = fascista non era così diffusa e scontata, tanto che anche le organizzazioni nazional-rivoluzionarie slovene, come la Borba, seppero distinguere tra fascismo e italiani e strinsero addirittura accordi di collaborazione con gli antifascisti italiani espatriati. Se tale equazione fosse stata così generale e diffusa come si può spiegare poi che numerosissimi sloveni accettarono di militare in un partito italiano e composto in stragrande maggioranza da italiani, come il PCI ?

– Che dopo l’8 settembre il peggio dovesse ancora venire è vero (anche se quanto accaduto prima non fu uno scherzo e pose le premesse del dopo), ma grazie ai nazisti e ai loro collaboratori sloveni, italiani, croati e di altre nazionalità. La popolazione italiana non si trovò affatto “senza difese”, ma partecipò attivamente al »ribaltone«! I “nemici del popolo” non vennero arrestati (e spesso giustiziati) solo dai “partigiani slavi”, ma anche da quelli italiani!

– Citare il fatto che tra gli “infoibati” ci furono anche comunisti per dimostrare che la repressione si abbatté sugli italiani indiscriminatamente è un argomento classico dell’armamentario delle organizzazioni degli esuli, anche se non supportato da nessun esempio concreto. È però indubbiamente vero che durante la guerra vennero liquidati molti comunisti, ma accadde in Istria come in Italia, Slovenia, Francia e altrove. Accadde però per motivi disciplinari o di tradimento, non di appartenenza nazionale. Che poi tra gli “infoibati” ci fossero anche persone che non c’entravano nulla è indubbiamente vero, ma se non si quantifica il loro numero e non si accerta in quali circostanze furono uccisi e da chi, non si può sostenere che si trattò del progetto di eliminare gli italiani in quanto tali.

– Cose c’è di così scandaloso se la Jugoslavia voleva il confine all’Isonzo? Per un certo periodo fu il confine sostenuto da Mazzini!

– “Occupazione jugoslava” – anche nel resto d’Italia per qualcuno la fine della guerra fu una occupazione da parte delle truppe delle “Potenze alleate ed associate” (tra le quali c’era anche la Jugoslavia con Tito capo del governo): lo fu per i fascisti! E poi, visto che nelle file dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo c’erano parecchi “indigeni” dei territori “occupati” siamo forse di fronte al primo caso nella storia di gente che “occupa” casa sua? – Quanto al racconto dell’uccisione della Cossetto, se dicerie, testimonianze mutanti e mutevoli, voci, fossero state utilizzate per avvalorare racconti riguardanti lo sterminio nazista i primi a impegnarsi a smontarne la credibilità sarebbero stati i ricercatori seri (come avvenuto per le affermazioni sul fatto che i nazisti producessero sapone con il grasso delle loro vittime).

– “Nomi e cognomi di infoibati nero su bianco” – gli elenchi di cui parla comprendono anche ad esempio Antonio Ruffini e Renato Castiglione Morelli, dati per infoibati dagli slavi (Ruffini è anche nell’elenco di coloro alla cui memoria la speciale commissione dello Stato ha attribuito un riconoscimento come infoibato) ma di cui è accertato che sono morti da partigiani, massacrati dai nazifascisti?

– “Non si saprà mai quanta gente è sparita”. Ma come è possibile affermarlo mentre si sostiene che fu proprio il fatto che ad essere infoibate furono tantissime persone a spingere la gente ad andarsene per non fare la stessa fine?

– Strage di Vergarolla – La strage avvenne nel momento in cui era ormai noto sia all’Italia che alla Jugoslavia che la città sarebbe stata assegnata alla Jugoslavia. In tale situazione la Jugoslavia non aveva alcun interesse a inimicarsi l’opinione pubblica mondiale, ne con una strage ne con una partenza di massa della popolazione. A sostenere che siano stati gli jugoslavi a causare la strage furono i servizi segreti italiani e tutto lo schieramento filoitaliano di Pola guidato dal locale CLN. Erano peraltro proprio essi ad avere il maggiore interesse ad attribuire agli jugoslavi la strage per screditarli di fronte all’opinione pubblica mondiale. Ma essa era funzionale anche a “convincere” a partire il maggior numero possibile di abitanti di Pola quale presupposto per poter contestare le scelte della Conferenza di Pace nella prospettiva di una revisione dei confini (CLN di Pola al suo arrivo in Italia cambiò nome in Movimento istriano revisionista). I dati di fatto sono che non si conosce nemmeno il tipo e la quantità degli ordigni (e dell’esplosivo) che deflagrarono e che le autorità Anglo – Americane accettarono di indennizzare le vittime, ammettendo così implicitamente le proprie responsabilità per l’accaduto.

– L’esodo non era affatto l’unica via, tanto che alcuni tra gli stessi esponenti delle organizzazioni degli esuli (per non parlare dei singoli profughi, alcuni dei quali tornarono anche indietro) a partire dagli anni ’60 hanno iniziato a porsi anche pubblicamente la domanda se l’esodo fosse stata la scelta giusta (ad esempio il già citato Guido Miglia).

– Che l’esodo da Pola sia avvenuto senza “un gesto scomposto” si può dirlo solo “dimenticando” l’uccisione, proprio il 10 febbraio del 1947, del generale britannico Robert De Winton da parte della “passionaria fascista” e funzionaria del CLN di Pola e del CLN dell’Istria Maria Pasquinelli.

– Il “terrore di parlare italiano” risulta strano in una situazione in cui gli impiegati pubblici rimasero a lungo quelli dell’epoca fascista, in cui le scuole italiane continuarono ad operare indisturbate e in cui l’italiano era una delle lingue ufficiali della regione.

– I rimasti dovettero confrontarsi con una “lingua sconosciuta” … che in realtà erano due – sloveno e croato. Ma d’altra parte come pretendere che Cristicchi sappia distinguere tra “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili“, come ben si espresse in proposito un personaggio tuttora molto apprezzato negli ambienti delle organizzazioni degli esuli, Mussolini? E come potevano degli appartenenti a una civiltà superiore (anzi, l’unica civiltà presente in quelle terre) abbassarsi a impararle, anche se erano presenti in quei posti da qualche centinaio d’anni? Dio mio, che onta, imparare la lingua degli “s’ciavi” (schiavi), come venivano (e in certi ambienti vengono tuttora) chiamati simpaticamente sloveni e croati! Anche se poi, in fondo in fondo, molti delle persone partite “perché non si può vivere senza essere italiani” almeno una delle due, magari nella sua forma dialettale, la conoscevano molto bene.

– Goli otok è una vicenda tutta interna al movimento comunista e non ha nulla a che fare con questioni nazionali. Tanto meno hanno diritto a parlarne i dirigenti delle organizzazioni degli esuli, che sui loro giornali riservarono apposite rubriche per additare al pubblico disprezzo gli “stalinisti” istriani trasferitisi in Italia dopo il 1948, ai quali negarono anche il diritto ad accedere all’assistenza prevista per gli altri profughi.

– »Ognuno ha i suoi scheletri negli armadi« è veramente una riflessione profonda ed originale, non c’è che dire! Però poi cita solo fascisti e comunisti, dimenticandosi delle stragi democristian-amerikane, delle stragi coloniali liberali, dell’esportazione della democrazia, ….

Su una cosa però Cristicchi ha indubbiamente ragione: il suo spettacolo non parla di storia, nemmeno di quella degli esuli.

www.diecifebbraio.info 

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