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Strage nella miniera di Soma, alla ricerca della verità

Sono passati tre giorni dall’esplosione nella miniera di Soma, accaduta nei pressi di Manisa il 13 maggio 2014. Un giorno che verrà a lungo ricordato, spero, come il giorno più prolifico per la morte dei lavoratori in Turchia; lo spero poiché mi auguro che questo sia un punto di partenza per ripensare alle normative sulla sicurezza del lavoro in questo paese.

Nel momento in cui scrivo le vittime ufficiali sono 282, la fonte è il ministro per l’energia Taner Yildiz. Ma il problema è che tra ufficiale e ufficioso c’è una differenza abnorme. Fin dal primo giorno, infatti, le fonti non governative davano i morti a più di 200, mentre le agenzie governative – tra cui Anadolu Ajansi – li quantificavano come 17. Dov’è la verità, allora? Non lo so. Mi sembra, tuttavia, che qualcosa voglia essere nascosto. 

Il corto circuito che ha provocato l’esplosione a circa 2000 metri di profondità, con il senno del poi, poteva essere evitato. Come? Magari dando retta alle interrogazioni che il Chp (il partito repubblicano del popolo, all’opposizione) aveva posto sulla sicurezza nei cantieri, comprese le miniere, nell’ottobre dello scorso anno e che l’Akp (il partito giustizia e sviluppo, al governo) ha rifiutato due settimane fa. Ricordo che la miniera di Soma è stata sanzionata con 21.400 dollari per 85 violazioni poco tempo fa, ma non ha mai chiuso. 

Questa tragedia, purtroppo, non deve destare sorpresa. È solo la goccia che fa traboccare un vaso ormai pieno. Un otre pieno di morti. Una ventina di anni fa, nel 1992, 263 minatori hanno perso la vita nelle miniere di Zonguldak. E tra il 2010 e il 2013 sono state 293 le persone che sono morte in miniera. 

Perché le autorità turche hanno voluto minimizzare il numero dei morti? Forse per dare tempo ai tecnici per capire l’entità della catastrofe, forse per non allarmare le famiglie, forse per occultare qualcosa. Si dice che in miniera lavorassero dei siriani (ricordo sono un milione i siriani che in un anno hanno trovato rifugio in Turchia) senza permesso, dei minori e altro. Al momento non sono notizie, sono chiacchiere. Ma allora cosa c’è sotto a duemila metri di terra? “Ai morti si deve il rispetto, ai vivi la verità”. E allora perché mostrare le foto di un minatore, probabilmente morto, con una mascherina di ossigeno che però non era attaccata alla bottiglia di ossigeno? Una vera e propria “morte d’autore”. 

La morte dei minatori, poi, è stata politicizzata ancor prima che i corpi fossero estratti dalla miniera. Sia da parte del governo sia dell’opposizione; già, quest’ultima ha preso la palla al balzo per riattizzare il focolaio della protesta che non dava segno di vita dal primo maggio. Tant’è vero che l’ennesima morte di un manifestante di Gezi Park, Mehmet Istif, per un cancro dovuto a inalazione di gas, era passata in sordina. 

E dire che questa volta Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro, era stato tempestivo nel correre in soccorso alle famiglie delle vittime di Soma. Ci aveva messo – solo – un giorno ad arrivare sul posto, dopo una nottata in televisione a giocare con una cinepresa come se fosse Ferzan Ozpetek. Così, “allacciate le cinture”, si era recato a Soma visibilmente commosso, rinunciando persino a un viaggio in Albania. Atteggiamento diverso dai tempi di Gezi Park quando, invece, al posto di rimanere sul posto (e magari dialogare con i manifestanti) se ne era andato in Marocco. 

I tempi cambiano. Ma le famiglie dei minatori come i çapulcu di Gezi Park pare abbiano avuto la stessa reazione alla vista di Erdogan. Qualcosa che in italiano suona come “lacrime di coccodrillo”. Il fatto che il primo ministro si accompagni sempre con una nutrita scorta, che farebbe impallidire i centurioni romani, di certo non aiuta. E sono diverse le foto in cui lo si vede, lì a Soma, ad anni luce dalla gente comune. La metafora che ha usato nel suo discorso, quella che anche in Inghilterra si moriva in miniera nel XIX secolo, di certo non è stata né felice, né attuale. Per non parlare del tatto. 

Ma quanto vale la vita di un minatore? Poco, mi verrebbe da rispondere. O. Ozgur, uno dei sopravvissuti, ha dichiarato che prende 47 TL al giorno per una paga di 1100 TL al mese (un euro vale 2.85 TL). E allora chi glielo fa fare di lavorare lì, in miniera? Perché a Soma è l’unico lavoro che si trova. Non solo. Un altro minatore, di cui non riporto il nome, ha dichiarato che: “Solo se fai parte dell’Akp si riesce a trovare lavoro in miniera.” Palle? In Turchia come in Italia “le amicizie”, purtroppo, contano ancora. 

E di amici ne avrà ancora Erdogan, almeno il 45% del paese secondo le ultime elezioni amministrative – viziate dai brogli e da gatti in grado di togliere la corrente a mezzo paese – ma a Soma non so quanti gliene rimangano. Costretto a rifugiarsi in un supermarket dopo che un suo consigliere, tale Yusuf Yerkel, aveva sferrato un calcio micidiale a un manifestante a terra immobilizzato dalla polizia. 

Calci e pugni e gas e arresti che ho visto anch’io, con i miei occhi e con il mio naso, quando sono andato alla manifestazione del 14 maggio a Istanbul. Già, da fine maggio 2013 non me ne perdo una. Peccato che i media italiani si rifugino in ansa improbabili di miniere al nord della Turchia, nei famosi 17 morti governativi – diversi quotidiani – e tante altre belle cose. Ma non sarebbe meglio usare qualche reporter italiano che parla turco? Sto andando fuori tema, lo so.

La manifestazione del 14, prevista alle 19 a Tunel, è durata poco meno di un’ora. Il tempo di esporre gli striscioni con “Non è un incidente, è un omicidio” e stop. La polizia anche questa volta non ha risparmiato né sul gas né sull’acqua. Ma parlare degli ennesimi scontri, sinceramente, non rende giustizia a quelle persone che sono ancora intrappolare là sotto. E allora salto. Un po’ come quando la polizia ti gasa dalla testa ai piedi e si corre tra le barricate date alle fiamme. 

Fiamme che avvolgono ancora la miniera di Soma. Ma, se ci sarà tempo per analizzare le cause del corto circuito, bisogna fare presto a tirare fuori chi è ancora lì sotto. Sei persone sono state estratte il giorno dopo all’esplosione, è probabile che ce ne siano altre vive. Eppure, diverse voci danno per imminente la chiusura delle ricerche. Secondo Oda tv, addirittura, sarebbero già state interrotte. 

Su quanti siano i dispersi, attenzione, c’è una speculazione incredibile sia sui media mainstream sia su quelli alternativi. Da una mia ricostruzione, fatta minuziosamente usando tutte le fonti a mia disposizione, esce fuori questo schema. 787 erano i lavoratori registrati in miniera, 363 sono quelli salvati, 282 i morti dichiarati, ne rimangono fuori 142. 282 più 142 fa 424. 424 morti? No, sono di più. Perché ci sono anche le persone che in miniera lavoravano in nero, per me (e qui non posso esserne certo poiché non sono sul posto) sono almeno un centinaio. Vedrete che alla fine di questa tragica vicenda il numero delle vittime si aggirerà sul numero cinquecento. 

E allora, per concludere, di chi sono le responsabilità? Di Erdogan e del suo governo? Del presidente della repubblica Gul che, da bravo notaio e da ottimo attore, avalla qualsiasi cosa? O della Soma Holding che, i media italiani si sono scordati di dirlo, costruisce ovunque in Turchia? Rispondo. Le responsabilità sono di tutti noi. 

Gridare al governo “fascista!” non serve, poiché il governo è lì perché è stato votato. L’opposizione deve trovare parole nuove per dialogare con la massa e convincerla che non è – non deve essere – il lavoro una scusa utile per chiudere il cervello. Lavorare per tante ore al giorno, almeno nove, in Turchia è la norma. Com’è la norma non leggere e buttarsi davanti alla tv a vedere le soap la sera. Queste abitudini devono cambiare. Un ritorno alla cultura è indispensabile. 

Fra poco, meno di due settimane, sarà l’anniversario di Gezi Park. C’è stato un momento in cui la Turchia ha voluto cambiar rotta. Bisogna ripartire da lì. Da quello splendido momento in cui ci siamo sentiti uniti, quasi fratelli, anche se non ci conoscevamo. Da quella forza propositiva che aveva in mente di costruire qualcosa di bello e durevole, che combatteva unita NON per rovesciare il governo ma per gridare il suo dissenso a una vita fatta di falsi valori e di persone corrotte. Cambiare si può, si deve, ma prima di tutto bisogna buttare via il telecomando e allontanarsi dai media mainstream che continuano a confezionare sandwich su misura per noi. 

Solo così ci avvicineremo alla verità sui fatti di Soma. Che la verità assoluta in questa tragica vicenda non esiste, se non per quei minatori che non ci sono più. Che dio o chi per lui li abbia in gloria.

* Luca Tincalla è un reporter che vive a Istanbul. Sulla rivolta in Turchia ha scritto un libro, “Testimone a Gezi Park”, che nessun editore ha voluto pubblicare.

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