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28 giugno a Roma, 11 luglio a Torino. Due le date, una sola ipotesi

Il lancio del Controsemestre europeo, con la manifestazione nazionale del 28 giugno, e la mobilitazione contro il vertice sulla (dis)occupazione giovanile dell’11 luglio ci hanno offerto diversi spunti per un ragionamento complessivo 

SUL PIANO DELLA CONTROPARTE

La presidenza semestrale italiana dell’Unione Europea è alle porte, e con essa la partita politica che il suo alfiere Renzi si appresta a giocare in quell’arena. Schiacciato dagli insediamenti tra le poltrone dell’europarlamento, passaggi di consegne dentro la Commissione e nomine al suo interno, sarà questo un semestre poco fattivo. Ma non aspettiamoci che il fiorentino, nel gorgo della burocrazia istituzionale, abbia dunque intenzione di giocare in modalità “low profile”. Sarà anzi a maggior ragione l’occasione per mettere in scena il meglio del repertorio della sua compagnia teatrale. Una prova, quindi, dal taglio squisitamente politico, per l’establishment incaricato di portare a compimento la normalizzazione dell’anomalia italiana e di traghettare sulla penisola le politiche comunitarie, per il suo partito e per i suoi organi di costruzione del consenso, per il Pd e per Repubblica, in cui muoversi a suon di annunci ed eventi mediatici per ricostruire un’immagine d’Unione Europea più spendibile e comunicativa. Tutto ciò con lo scopo di realizzare con maggiore agilità le direttive dei suoi organi centrali. Un intento dichiarato più volte in questi mesi, rafforzato ora da quella grande macchina dei sondaggi attivata per l’elezione del parlamento fantoccio di Strasburgo (sebbene i risultati siano falsati dal rilevante dato astensionistico), e accelerato dalle nuove, ennesime raccomandazioni della Commissione Europea.

Ma, sebbene gli attuali sviluppi della finanziarizzazione dell’economia di fronte a una crisi sistemica di lunga gestazione non permettano grandi virate alla direzione fin qui impressa all’UE, anche i garanti del suo progetto costituente si dimostrano oggi più flessibili. La Merkel stessa, nel nuovo scenario post elettorale, si è trovata per la prima volta disposta a non rinnovare il monito al rigore mentre all’Eurotower le veniva illustrato il serio rischio di un periodo di deflazione. Renzi, forte dell’ormai realistica possibilità di rompere gli asfissianti vincoli dell’austerità che fanno perno sul limite del 3% di disavanzo primario, propone ormai di “sbloccare l’Italia”, ovvero, diciamo noi, di scardinare definitivamente la Pubblica Amministrazione, svendere ulteriormente il patrimonio pubblico e privatizzare maggiormente i servizi, allargare le maglie normative entro cui rendere semplicemente legale la speculazione sulle grandi opere in cui sono coinvolti anche pezzi del suo apparato di potere (quel mondo delle cooperative rappresentato dal ministro Poletti), come appare dagli attuali sviluppi giudiziari di vicende che domani saranno dunque la regola. Portare quindi il definitivo attacco al lavoro subordinato, dopo aver sistemato l’apparato istituzionale. Rilanciare l’accumulazione con le briciole possibili, sulle spalle dei soggetti più deboli (ulteriormente schiacciati dall’assenza di corpi intermedi capaci di reggere il peso dello scontro).

SUL PIANO DELLE SOGGETTIVITA’ DI CLASSE

Si vede a questo punto quanto sia miope puntare tutto su un’impostazione incentrata solo sulla critica dell’”austerità”, anziché di rottura in campo europeo. Tutti sono ora per un “cambio di passo”, quindi in questo modo sarà alla lunga quasi impossibile esprimere e far capire una distinzione reale rispetto alle impostazioni dominanti.

Dobbiamo rovesciare il tavolo per portare al centro del discorso politico la precarietà delle vite di coloro che costruiscono la ricchezza di questo modello continentale di sviluppo, ma accomunati dal viverne con maggior durezza i colpi della sua crisi che si fa sistema. L’iniziativa, o meglio la serie di iniziative, assemblee, eventi, momenti d’analisi e di confronto, di lotta e riappropriazione, di condivisione e organizzazione, che saranno lanciate con un massimo comune denominatore d’intesa dalle realtà che hanno aderito al Controsemestre europeo, delineano al momento la possibilità di uno spazio di azione politica più avanzato nel panorama dell’antagonismo nostrano. In questa cornice è possibile partire dalla materialità del conflitto che pratichiamo quotidianamente per garantirci un’esistenza che vada oltre la sopravvivenza, e indirizzarlo direttamente al cuore del problema: la costruzione sullo spazio geografico europeo di un’impalcatura politica oligarchica che non è certamente l’unica possibile, e i cui trattati marchiati con una lega inossidabile sono altrettanto certamente irriformabili. Fintanto che questa impalcatura opererà, produrrà tutti i risultati di cui il capitalismo europeo oggi ha bisogno per poter sopravvivere, che parlano tutti di sfruttamento e delle sue diverse declinazioni. Uno spazio di soggettivizzazione della classe non può che ripartire  dalle sue lotte quotidiane, individuando gli esecutori degli attacchi che subisce ogni giorno, tentando la ricomposizione nell’inevitabile rilancio al mittente di quegli attacchi stessi. Individuando dunque un nemico che ha bisogno di un’identità definita, quale quella dell’Unione Europea come cabina di regia di tutto ciò che si muove sotto di essa.

L’AZIONE POSSIBILE

Sulla cresta di una (tutta supposta) opposizione all’attuale indirizzo delle istituzioni comunitarie, abbiamo assistito in questi mesi a un tentativo elettorale della sinistra socialdemocratica italiana egemonizzato da chi ha interesse a non cogliere il carattere irriformabile dell’Unione Europea, sapendo di lavorare (coscientemente) per il re di Prussia. Questo riscontro non deve  però farci temere che il fatto di mettere le mani in pasta sul tema del ruolo dell’Unione Europea debba essere percepito necessariamente come tatticismo poco comprensibile all’esterno delle strutture politiche, assimilabile a quello dei salotti “radical chic” di cui sopra. Deve anzi alimentare il nostro coraggio nel lanciare un appello ben definito a quelle forze che poco a poco stanno delineando i contorni di quel blocco sociale che si era intravisto nelle giornate dell’ultimo autunno, e che la crisi ha saputo unire anche oltre le nostre capacità soggettive. Forze che però sono alla ricerca dell’altra metà della medaglia, di una rappresentanza di cui essere parte attiva, che parlando i propri linguaggi sappia anche indicare un domani alternativo oltre agli obiettivi praticabili nell’immediato.  Un clima culturale come l’attuale – che si vuole anti-ideologico o post-ideologico – favorisce la tendenza, erronea ed opportunista, a ricercare solo alcune categorie d’analisi e di proposta per un percorso antagonista. Si accetta così il presupposto che sia possibile maturare, poniamo, un orientamento strategico significativo, senza con ciò stesso accogliere un certo atteggiamento tattico e non un altro, una certa maniera di concepire la storia e non un’altra. Insomma, che sia possibile separare e annacquare gli ambiti della vita politica e sociale, quando invece, di fronte a soggetti informati ma disgregati, su cui la nuova classe dirigente transnazionale cerca di operare una poderosa campagna di distrazione di massa, dovremmo piuttosto porci il problema di rendere comprensibile e semplice ciò che già essi percepiscono: l’Unione Europea è il problema, non la soluzione. L’unica strategia per noi possibile è la sua rottura. Procrastinare il momento in cui lavorare su questa necessità e sui suoi strumenti organizzativi equivale a perdere tempo prezioso in cui dotarsi degli attrezzi necessari a respingere lo scontro dall’alto che già stiamo subendo.

Seppur si cercasse di aggirare le forme necessarie della politica e dell’organizzazione, esse ci pioverebbero immediatamente addosso sotto una scrosciante grandinata di repressione. Già avviata magistralmente sui territori, pronta a riversarsi sulla mobilitazione di quest’estate, per la quale sono state revocate le ferie a militari e polizia, mentre pare che alle frontiere Schengen possa essere temporaneamente sospeso. Allo stesso modo, è chiaro che pur volendo aggirare la questione europea, essa rientra dalla finestra nel momento in cui il vertice che contrasteremo a Torino è appunto la convocazione di una delle istituzioni maggiormente valorizzate dal Trattato di Lisbona, il Consiglio Europeo. Una volta ancora verifichiamo che l’UE è l’approdo di ogni ragionamento, il tappo sotto cui si controlla lo sviluppo dei rapporti di produzione.

Inoltre, qualora non intervenissero le soggettività di classe a portare discussione e battaglia su un terreno vasto come quello aperto dalla presenza e dall’operato dell’Unione Europea, ci penserebbero (e già da tempo le vediamo in azione) le forze reazionarie, capaci di aggregare su altre linee di rottura, come il nazionalismo, la xenofobia e il clericalismo. Al punto che, se il quadro uscito dalle urne di fine maggio assumesse contorni sempre più definiti, ci troveremmo di fronte uno scenario da Europa degli anni ’30, ma senza la presenza fondamentale di una soggettività rivoluzionaria organizzata sul piano internazionale. 

CONCLUSIONI

Come la classe dirigente evita il più possibile di riprodurre tra le sue fila la stessa alienante divisione tra tecnica ed elaborazione teorica a cui le logiche del capitale relegano la massa degli sfruttati, allo stesso modo rompere quella dicotomia dentro la militanza significa vivere la politica come piano d’incontro dei diversi fronti, non come appiattimento su uno solo di essi. Ciò non esclude, anzi rafforza l’ipotesi di un lavoro collettivo che sappia prevedere tanto le lotte parziali quanto l’individuazione di una lettura generale da riportare nelle mobilitazioni e da intendersi come forza aggregante e non escludente.

Da un lato, quindi, ci troviamo obbligati a riconoscere le forme che oggi assumono l’eterodirezione delle nostre vite, i suoi attori fondamentali e i suoi esecutori materiali, nei centri di comando dell’Unione Europea e alle nostre latitudini tramite il Pd. Ecco il senso della costruzione del Controsemestre europeo, a partire dalla data fondamentale del 28 giugno a Roma. Non si può però perdere di vista la contraddizione primaria, di cui la disoccupazione giovanile e la conseguente questione generazionale sono gli epifenomeni principali sui quali andare a portare scontro culturale e pratiche di militanza “partigiana”, e dai quali rilanciare proposta politica, in piena continuità con il dna stesso della campagna Noi Restiamo. Qui il senso della nostra adesione alla data dell’11 luglio a Torino, consci che una sua buona riuscita ci obbligherà tutti a ragionare sulle linee percorribili il giorno successivo, perché si dia un futuro all’informe calderone che ha tradizionalmente caratterizzato i controvertici. Senza una posizione generale che tracci il sentiero, il rischio è che al primo ostacolo le forze si disperdano alla cieca, o che seguano trame nel frattempo definite altrove nell’alveo delle compatibilità di sistema. In barba a tutti i buoni propositi sull’indipendenza delle nostre lotte, è questa un’eventualità verificatasi ripetutamente alle nostre latitudini. 

Le due date ci sembrano gambe di un’ipotesi che non può fare a meno né dell’una né dell’altra se vuole correre lontano.

 

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