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Giornalista (già «mestiere più bello del mondo»)

Qualche giorno fa, chi scrive è andato a Roma per partecipare alla manifestazione contro il cosiddetto “equo compenso” per i giornalisti, frutto di un accordo tra Fnsi, governo ed editori. La Fnsi, per la cronaca, è la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, un’unione di sindacati di base regionale. L’equo compenso, sempre per la cronaca, è un accordo in base al quale vengono stabiliti dei compensi al di sotto dei quali si può definire «iniquo» il compenso di un cronista precario, o free lance che dir si voglia. Inutile dire che le cifre pattuite sono da fame e che di garanzie, comunque, non ne esistono. Se l’argomento vi incuriosisce, online c’è un sacco di roba che spiega nel dettaglio come funziona il tutto.

La manifestazione – a personale giudizio del vostro cronista – però è stata molto poco convincente. Un problema di “gestione della piazza” (certe cose non si improvvisano, lo sa chiunque abbia mai frequentato un collettivo studentesco o un’assemblea d’istituto alle superiori): l’occupazione – ok, si fa per dire – della sede della Fnsi in Corso Vittorio Emanuele e lo scontro frontale con il segretario Franco Siddi sono stati un forse liberatorio ma passeggero e momentaneo sfogo, durato solo il tempo utile per mandare a quel paese un po’ di alti papaveri. Più banalmente, sarebbe stato meglio mandare dal segretario una delegazione dei manifestanti a chiedere due cose semplici: dimissioni della segreteria e congresso anticipato. Stop. Niente discussioni. Il tempo per il confronto è abbondantemente finito, tanto più che l’accordo sull’equo compenso è già stato siglato e mettersi a litigare è un po’ come quando i calciatori accerchiano l’arbitro che ha appena fischiato il rigore. Inutile.

Sarebbe tuttavia riduttivo ridurre i problemi del giornalismo all’equo compenso. Certo che il tentativo di affamare i free lance si può definire carognata, ma a guardare dentro le redazioni – dentro certe redazioni – c’è da rimanere sconvolti.

C’è una questione generazionale da risolvere: nessun rancore contro le istituzioni del giornalismo che, ormai, hanno una certa età e le cui opinioni, talvolta, valgono davvero qualcosa. Ma fatevi un giro in provincia e andate a guardare quanti ex redattori in pensione, ogni giorno, sottraggono pezzi ai giovani collaboratori per mere questioni di vanità o convenienza personale.  Andate a guardare in faccia gli ex capiservizio che sanno che i loro ex redattori non potranno mai rifiutar loro un pezzo, anche se si tratta di una marchetta clamorosa alla sagra dei broccoletti. Soprattutto in provincia, esiste un muro altissimo tra i giovani cronisti e la redazione del proprio giornale, un muro di favori e tacite connivenze, consuetudini assurde e vero e proprio nonnismo. Sei giovane? Impara a tenere la bocca chiusa, a parlare solo quando te lo chiedono. A fare di sì con la testa e guai a fiatare anche quando ti appioppano le mansioni più umilianti. Ho visto gente mandata a contare le strisce pedonali per le strade del centro. Eppoi, ma avete mai fatto caso a come sono scritti, questi giornali locali? Lasciamo perdere.

Un sindacato che non rappresenta nessuno e un Ordine dei giornalisti abitato da figuri discutibili che non scrivono una riga da decenni assicurano che l’ordine perfetto del giornalismo italiano contemporaneo non venga mai messo in discussione. Se la logica vorrebbe che «può dirsi giornalista chiunque scriva sui giornali», sarebbe utile cominciare a rivalutare le posizioni di «pubblicista» e «professionista». Il primo prende il famoso patentino dopo un pugno di articoli sparsi in un paio d’anni, il secondo ascende al paradiso delle garanzie fiscali e previdenziali smettendo di lavorare. Non è una provocazione, è tutto vero. Quello che se ne va in guerra a raccontare fatti di indubbia importanza conta meno di quello che – suo malgrado – sta a titolare e passare i pezzi della cronaca locale di Roccacannuccia. Funziona così.

Poi ci sono quelli che ascendono al rango di professionisti grazie agli uffici stampa, veri e propri favori di questo o di quel politicante che, per qualche anno, ti dà uno stipendio tale da poter dimostrare all’Ordine che tu «campi di giornalismo». Devi guadagnare un tot di migliaia di euro all’anno per qualche anno, tutto qui. Come li guadagni è un altro discorso, che non interessa a nessuno.

Online si vive di clic. Anche qui: come li fai, non è importante. Quindi spazio alle cose che solleticano le fantasie più morbose del lettore. Il soft porno, i gattini, l’incidente, quello che si rende ridicolo. Un articolo su un tema importante, scritto bene e con testi intelligenti richiede impegno per essere letto. E perché scommettere sui lettori attenti quando esiste una schiera di appassionati di minchiate?

La carta perde copie, e tutti ce l’hanno a morte con il finanziamento pubblico, questo mostro all’origine di ogni male. La verità è che di soldi pubblici se ne vedono pochi, in giro, spesso con ritardi mostruosi. Non sarebbe invece il caso di indagare su chi prende questi soldi e perché?  Garantire il pluralismo dell’informazione dovrebbe essere un dovere, ma poi ci sono quelli che se ne approfittano. Parlamentari, tromboni, ex qualcosisti che lavorano per bene alla fonte dell’esborso pubblico. Non si possono mettere sullo stesso piano le testate storiche e le furbate degli avventurieri di professione. I decenni di abbondanza passati a sprecare, sprecare e sprecare. Avete presente il detto del bambino e dell’acqua sporca? Ecco, una cosa del genere. Senza considerare che l’Italia è uno dei paesi democratici che spendono meno soldi pubblici in favore dell’informazione. Qualcosa vorrà pur dire, o no?

N.B. Esistono nobili eccezioni. Caporedattori ed editori che ancora credono in quello che fanno. Tutto questo è molto bello. Ma bisogna considerare che si tratta di specie in via d’estinzione.

Ma allora, il giovane e volenteroso cronista, che deve fare? Per ora è una gara di resistenza, si tiene la posizione in attesa di un miglioramento che chissà se mai avverrà. Si aspetta e si spera. Si tira a campare. Si mettono insieme più collaborazioni per raggiungere la soglia di povertà. Dicono che sia «equo».

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