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Riflessione sui fatti di Ferguson

Coltello o non coltello, i colpi sparati a meno di tre metri dagli agenti di polizia di Saint Luis a Kajieme Powell, un ragazzo afroamericano di 25 anni, sono un esecuzione a sangue freddo.  Il ragazzo è stato ucciso martedì dalla polizia a circa 5 chilometri da Ferguson, chiamata dal gestore di un esercizio commerciale per furto di due energy drink e un pacco di ciambelle.

Dire che la questione riguardi semplicemente i diritti della comunità afroamericana, però, è sostenere una scemenza. Gli afroamericani certamente vivono ancora oggi una pesante discriminazione razziale negli USA, ma il punto è che questa discriminazione vive tutte le contraddizioni di una guerra sociale, di classe, non dichiarata contro la popolazione statunitense che viene tenuta in uno stato di autentica indigenza e miseria, sfruttata per pochi centesimi da un’élite che se ne strafotte di queste condizioni sociali in cui versa la maggioranza della gente d’America e applica con scrupolo le peggiori ricette neoliberiste alla politica economica nazionale.

Gli afroamericani costituiscono la maggioranza di questi strati sociali, insieme ad altre entità etniche come i latinos, il che fa sì che oppressione di classe e discriminazione razziale si inteccino tra loro e costituiscano da sempre la perversa narrazione del fascismo bianco, dei wasp, tutelati nelle loro cittadelle del consumismo di lusso dalla polizia e da contractor privati.

In uno stato di diritto non sarebbe possibile giustificare omicidi come quelli di Ferguson e Saint Louis su cittadini disarmati o al massimo in possesso di un’arma da taglio come un coltello. Proprio perché la polizia ha la facoltà e la capacità nell’uso di armi per garantire l’ordine pubblico, dovrebbe gestire l’ordine pubblico e il contenimento della piccola delinquenza nell’ottica di salvaguardare il cittadino stesso, compreso colui che delinque.

Ma nel paese della pena di morte in gran parte degli stati federali, le cose vanno in modo diverso. Perché non il cittadino, ma la proprietà privata è al primo posto nella graduatoria della tutela. Perché non il cittadino, ma il cittadino possessore di tale proprietà è al centro dei programmi e delle politiche di sicurezza sociale.

Cos’è questa, se non guerra non dichiarata a chi “minaccia” questo ordine costituito basato sulla scala gerarchica di chi possiede e quanto e chi no?
È dunque guerra di classe, che una borghesia sempre più parassitaria conduce non solo nelle terre lontane dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, ma anche e fino nel suo territorio, nella sua nazione.

Se vediamo le cose da questa angolazione, parole come “fascismo” e “imperialismo” assumono la veste di concetti molto appropriati e pertinenti di questo sistema di dominio imposto con la violenza quotidiana dell’esproprio di beni, ricchezza sociale, salari, territori, risorse.
La democrazia esiste non solo se è scritta su un pezzo di carta, ma se è esercitata da un popolo sovrano, di persone libere ed eguali nelle scelte di vita, nella gestione della res publica. Se è democrazia politica, sociale, economica.
Ecco perché possiamo parlare di fascismo, quanto meno in tutto l’Occidente. O per i puristi che preferiscono tenere i lessemi ancorati a precise condizioni politiche, possiamo parlare di autoritarismo, totalitarismo antidemocratico e di classe.

I fatti di Ferguson scoperchiano il verminaio della cultura del sopruso, dell’arbitrio, dell’arroganza di un potere che sa di poter godere della completa impunità. Rivelano soprattutto una realtà che è quotidiana. Sarebbe infatti sbagliato relegare la questione all’uso eccessivo ed omicida della violenza poliziesca, perché la violenza del dominio di classe e razzista è uno stillicidio quotidiano per milioni di persone.

Ma i fatti di Ferguson ci dicono anche un’altra cosa importante: che ribellarsi è l’unica risposta possibile ed efficace per cambiare la situazione, che questa guerra di classe va ribaltata contro gli stessi oppressori per contendere lo spazio fisico, politico, sociale, per mettere in discussione il potere e i rapporti di forza, con quella forma di contropotere più alta: quella del popolo, delle classi oppresse che si organizzano e crescono per maturità politica nella loro coscienza di sé, delle proprie condizioni e delle proprie potenzialità nel costruire il cambiamento, la rivoluzione sociale.

Non è semplicemente una questione di potere militare. In questa prima fase, l’esercizio della rivolta sociale è diffusione di coscienza in tutti sensi, è condivisione e solidarietà sociale, è intifada, è ritrovarsi con la pietra in pugno per una narrazione diversa, un futuro possibile e da costruire insieme come soggettività sociale in movimento, in un’autonomia dei soggetti e dei loro comportamenti, dei nuovi legami sociali che contendono l’egemonia anche culturalmente al senso dominante, al pensiero unico imposto.
Guerra di posizione, blocco storico, egemonia.
Quanto è vicino Gramsci alle rivoluzione attuali, quanto è utile e preziosa la sua visione della politica leninista e rivoluzionaria ai riot contemporanei e alle sue avanguardie di lotta!

* Ross@ Bologna

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