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Ma Al Quaeda o l’Isis sono solo quel che sembrano?

Non è semplice stabilire quali siano i rapporti effettivi fra Al Quaeda e l’Isis. Si sa che il gruppo oggi proclamatosi Califfato è nato intorno al 2004, all’interno del ramo irakeno dell’organizzazione di Osama Bin Laden, e che circa due anni dopo se ne sarebbe allontanato per divergenze con  al-Zarqawi. Detto questo, quali sino gli attuali rapporti fra le due organizzazioni, soprattutto dopo la morte di al-Zarqawi, non è affatto chiaro.

Secondo alcuni osservatori, l’Isis ed il suo leader Fazul Abdullah Mohammed sarebbero un costola della dalla vecchia ormai totalmente autonomizzatasi, (pur mantenendosi all’interno della stessa cornice ideologica) e c’è anche chi azzarda che Al Quaeda sarebbe disposta ad una momentanea e tacita intesa con Iran e addirittura gli Usa, pur di sconfiggere l’Isis; secondo altri la separazione sarebbe fittizia o, comunque, meno grave di quel che non sembri. E ci sono anche numerose teorie intermedie che sfumano verso l’uno o l’altro polo.

La chiave di lettura “indipendentista” sembra più convincente dell’altra, ma comunque, allo stato dei fatti, è difficile giungere a conclusioni certe. Che, d’altra parte, potrebbero anche modificarsi rapidamente sia nel senso si un riavvicinamento dei due gruppi, sia nel senso di un ulteriore allontanamento.

Ma, in fondo, quanto questo aspetto è rilevante e quanto occorre riconsiderare di sana pianta il punto di vista dal quale abbiamo guardato ad Al Quaeda ed alle vicende del fondamentalismo islamico in questi anni?

Sin qui, l’atteggiamento prevalente è stato quello di guardare ad Al Quaeda come ad un caso di insorgenza dal basso. Una organizzazione al cui vertice c’era il miliardario Bin Laden, ma a titolo del tutto personale, (dato che la famiglia aveva per tempo provveduto a prendere le distanze dal suo turbolento rampollo) e sovvenzionato da lasciti e donazioni di islamici facoltosi, che però non avevano alcuna voce in capitolo nelle scelte politiche riservate al ristretto gruppo intorno ad Osama. Quanto c’è di vero in questa visione del gruppo? E se Osama fosse stato solo il vertice visibile? Il fatto è che, dopo 13 anni di guerra, noi sappiamo pochissimo su Al Quaeda (e adesso sull’Isis) e, quel che è peggio, è che la stessa condizione di ignoranza – più o meno – affligge l’intelligence occidentale che mostra di capirci poco e niente (ma di questo torneremo a parlare).

Prendiamo il discorso più alla larga.

Il mondo islamico conta più di un quinto della popolazione mondiale, ha un potenziale militare fra i maggiori del mondo, pesa per circa il 9% della finanza mondiale ed ha in pugno la maggior parte delle risorse petrolifere. Ma, essendo frammentato in una trentina di stati, pesa pochissimo nella scena internazionale: non ha un solo membro permanente del Consiglio di Sicurezza o nel G8, conta pochissimo nelle istituzioni finanziarie come nelle alleanze militari ed anche nel G20, ha una presenza del tutto marginale.

Le diverse leadership nazionali hanno collezionato una serie di brucianti sconfitte dal 1948 in poi (si pensi alle ripetute sconfitte degli arabi nelle guerre con Israele, alle batoste inflitte dall’India al Pakistan e da ultimo alle invasioni americane dell’Iraq e dell’Afghanistan, alla secessione del Sud Sudan, alla dissoluzione dello stato somalo), inoltre hanno fallito tutti i disegni di riunificazione (dall’operazione repubblica araba unita ai tentativi di dare qualche concreto potere alla Lega Islamica o alla Lega panaraba).

I regimi militar-repubblicani (Algeria, Libia, Yemen, Egitto, Siria, Iraq, Sudan) hanno fallito tutti i loro programmi di modernizzazione ed oggi sono quelli investiti in prima linea dalle rivolte popolari. Le monarchie classiche (Marocco, Giordania, Arabia Saudita, Kwait, Emirati, Quatar) resistono meglio da questo punto di vista, ma sono socialmente immoti e politicamente incapaci di uscire dal regime di sudditanza rispetto agli Usa.

Più complesso ma non più consolante è il quadro dei paesi islamici non arabi: la Turchia è sicuramente quello economicamente più dinamico, ma è attraversato da un conflitto fra neo islamismo e laicismo di stato (garantito dall’esercito), dalle tendenze centrifughe delle minoranze nazionali e dalle rivolte giovanili e popolari. L’Indonesia è l’altro gigante economico dell’area, ma ha anche essa antiche questioni irrisolte (come Timor est) e fermenti interni non trascurabili. L’Iran è forse il paese che, nonostante le tensioni interne, è quello che forse ha ottenuto i maggiori successi politici.

Il mondo islamico è coinvolto nell’80% dei conflitti armati attualmente in corso ed ha sviluppato un forte antagonismo nei confronti degli altri paesi espressione di diversi modelli di civiltà. Infine, soprattutto nel mondo arabo, c’è una diffusa consapevolezza di stare attraversando una stagione straordinaria grazie alle risorse petrolifere, ma che questo momento magico non durerà ancora a lungo e quando il petrolio sarà esaurito, il mondo islamico avrà perso la sua grande occasione, se non si sarà costituito prima in grande potenza mondiale.

Tutto questo è fonte di esasperate frustrazioni e di uno stato ansioso che investe in particolare buona parte del mondo arabo. Questo senso di frustrazione, sta producendo la nascita di un’area transnazionale (di cui l’elemento più vistoso, ma non unico, sono i Fratelli Musulmani).

Tutto questo trova il suo elemento di precipitazione nella ricerca della costituzione della “grande potenza islamica”, un polo in grado di assumere la leadership dell’intera area, di riscattare le troppe sconfitte subite e che si inserisca nel novero delle maggiori potenze mondiali.

Sino ad un passato relativamente recente (sino agli anni ottanta), la ricerca di questo polo è stata pensata come aggregazione intorno ad uno dei maggiori stati islamici esistenti: sino al 1967 l’Egitto di Nasser, fra gli anni settanta e gli ottanta l’Iraq di Saddam e, concorrenzialmente, l’Iran di Khomeini, mentre tentativi più velleitari o effimeri sono venuti dalla Libia di Gheddafi o dal Sudan di Nimeiri. Mentre una candidatura vera e propria in questo senso non è mai stata posta dall’Arabia Saudita o dai grandi paesi non arabi come Pakistan, Turchia, Indonesia e Nigeria che hanno preferito piuttosto giocare un ruolo di potenza regionale nei rispettivi contesti.

Con la fine del conflitto Iran-Iraq, che logorò entrambi i contendenti per poi sfociare nella prima guerra del Golfo, e con la fine del bipolarismo, si è esaurita la tendenza alla ricerca del paese leader, ma non il disegno di una grande potenza islamica, che ha iniziato ad essere perseguito per una strada diversa, che prescindesse dalla dimensione nazionale. Lo stesso clima della globalizzazione, con la diffusa convinzione del superamento dello stato nazionale, ha influito in questo senso ed hanno preso piede organismi trans-nazionali come i Fratelli Musulmani, le cordate sciite (Iran-Hezbollah) o le reti informali dei gruppi guerriglieri locali (Jihad islamica, Gia, Hamas ecc.): tutti segnali della ricerca di un polo aggregativo transnazionale.

Le èlite nazionali, tanto in versione repubblicana quanto monarchica, hanno perso prestigio e consensi in questi anni: ciascuna di esse, rinchiusa nel proprio recinto di potere, non è credibile come elemento federatore e di qui discende la riscoperta del Califfato (concetto eminentemente teologico e non etnico e tantomeno nazionale) come parola d’ordine mobilitante funzionale alla costruzione della “grande potenza islamica”.

In questo quadro dobbiamo inserire e capire la vicenda di Al Quaeda prima e dell’Isis dopo. Sorge legittimamente il dubbio che Bin Laden non sia stato il solo personaggio di rilievo della finanza islamica a gettarsi in questa avventura e che ad essa abbiamo partecipato altri esponenti delle classi dominanti islamiche e prevalentemente arabe. Infatti, se una grande potenza islamica un giorno dovesse sorgere, molto difficilmente potrebbe venire dai paesi islamici non arabi come Iran, Pakistan, Banghladesh, Turchia, Indonesia, Nigeria. Il “Califfato” può essere costruito solo intorno ad una “centralità araba”. Troppe ragioni influiscono a spingere in questo senso: a cominciare dalla contiguità geografica dei paesi arabi a proseguire con il ruolo della lingua veicolare del mondo islamico che è, appunto, l’arabo, per concludere con la presenza dei luoghi santi dell’Islam in territorio arabo (salvo il caso particolare dell’Iran). E, peraltro, i grandi paesi islamici non arabi tendono a giocare piuttosto un ruolo di media potenza di interesse regionale che non ad assumere un ruolo guida dell’Umma. D’altro canto, in più di un’occasione sono lampeggiate compiacenze e complicità di classi alte islamiche nei confronti di Al Quaeda: dai comandi militari pakistani (ed in particolare del servizio segreto), ad ambienti non distanti dalla famiglia reale saudita, a intellettuali egiziani, a uomini della finanza islamica in Europa.

Come dicevamo, l’azione di intelligence americana ed europea hannio appurato molto poco del reale funzionamento dell’organizzazione di Al Quaeda, dei suoi finanziamenti, dei suoi meccanismi interni, dei suoi collegamenti politici coperti ecc. Persino sulla reale linea politica del gruppo non si sa molto di più di quello che emerge dalla sua propaganda.

Di fatto, dopo oltre 13 anni di guerra e dopo i durissimi colpi inferti ad Al Quaeda, l’organizzazione non è stata debellata, nonostante il suo gruppo dirigente e quello circonvicino sia stato decimato: Al Zarquawi è stato ucciso nel giugno 2006, Abu Omar al-Qurashi al-Baghdadi è stato ucciso il 18 aprile 2010, Osama Bin Laden nel maggio 2011, Anwar al-Awlaki, il 30 settembre 2011, Sulayman Abu Ghayth è caduto in Somalia nel 2011, Fazul Abdullah Mohammed (ex portavoce di Osama) è stato catturato nel febbraio 2013. Ma Al Quaeda è ancora in piedi ed ora ci si trova di fronte all’Isis che non si sa se ne sia una articolazione o è totalmente altro da essa.

Resta comunque da capire da dove siano venute le ricorse economiche, umane, militari che hanno consentito questa nuova entrata in scena. Il che la dice lunga sul fallimento di intelligence dei paesi occidentali, fallimento addirittura peggiore di quello militare.

L’ipotesi intorno alla quale conviene ragionare è che ci sua un nucleo (o forse più d’uno) di esponenti delle classi dirigenti islamiche (finanzieri, militari, quadri politici, tecnici d’alto livello) che stia (o stiano) pensando in termini transnazionali al progetto di una grande potenza.

E magari scopriremo che Al Quaeda non è “le Brigate Rosse che parlano in arabo” ma, semmai, “la P2 che si vede alla Moschea”. E di qui occorrerà ripensare tutta la questione. Ad esempio: semmai l’Isis fosse disponibile ad un dialogo (ed ammesso che fosse il caso di accettare l’invito), siamo sicuri che avremmo davanti il vero interlocutore e non un portavoce?

dal blog http://www.aldogiannuli.it

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