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Racconti da Suruc/Kobane (quarto giorno)

Resoconto 1 dicembre: non finisce qui!

Ci si sveglia alle prime luci del giorno, come al solito. L’aria è meno gelida oggi, ma sopra di noi incombe un cielo di piombo. Kobane è solo una sagoma nella nebbia. A renderla immediatamente riconoscibile sono gli echi dei combattimenti, come al solito, costanti e ormai familiari come il suono dei clacson a Roma; con una differenza,ad ogni scoppio gli occhi della gente si dirigono a sud in un breve e scuro pensiero. Se abbiamo capito qualcosa dei curdi in questi giorni, oltre a un loro irriducibile orgoglio, è un’ospitalità senza pari, uno spirito di condivisione e gentilezza tipico di chi vive con poco ma è contento di dividerlo. Oggi c’è però qualcosa di diverso. A parte i soliti curiosi o quelli con la voglia di chiacchierare, una costante di questo viaggio, siamo da subito attorniati da persone. C’è chi vuole fare una foto con noi, chi ci bacia, chi ci placca per raccontarci la sua storia o chiedere della nostra. Alcuni di noi passano parte della mattina attorno ad una brace, tra ripetuti giri di thè con diversi uomini del posto, anziani e giovani. Si tenta di comunicare goffamente: scambi verbali quasi ridicoli tra italiano, curdo, brandelli d’inglese stentato e tanti gesti. Chi di noi resta più operativo e ligio al dovere si chiude in una grande tenda con le “madri della pace”, organizzazione di madri di detenuti, combattenti, martiri della causa; e con gli anziani dell’associazione “Iniziativa del ‘78”: reduci dell’ondata rivoluzionaria che caratterizzò la Turchia negli anni ’70. Ne esce un’intervista lunga, piena di significato, tra i racconti di questi uomini e queste donne che portano nel loro sguardo la storia di un popolo massacrato da genocidi, carceri, repressione, isolamento eppure non ancora disposto alla resa. Verso le dieci ci riuniamo tutti assieme al resto del villaggio per il rito quotidiano della catena umana: una lunga fila di uomini, donne ,bambini, disposti a semicerchio verso Kobane. Si levano alti e scanditi i cori di incitamento ai combattenti del YPG/YPJ. Un ruggito possente di mille voci che urlano il loro orgoglio e la vicinanza ai propri guerrieri. Avevamo già visto, ma mai partecipato. Se la cosa ci aveva colpito, ora possiamo dire cheè qualcosa di impressionante prendere parte a un rito collettivo di tale forza evocativa.

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Storia di una madre kurda

Incontriamo Semire quasi per caso, nelle corsie dell’ospedale di Suruc, dove c’eravamo diretti per capire sul posto quale fosse il reale computo dei morti e dei feriti provenienti dal fronte, dopo l’esplosione del camion al confine di Kobane, il 29 Novembre.

Scambiamo due chiacchiere davanti a un cay caldo, seduti di fronte a un piccolo bar, nello spiazzale dell’ospedale.

Non è sola Semire, è venuta insieme a suo figlio Emir, un bimbo dalla faccia sveglia e gli occhi un po’ malinconici. Semire è una donna possente ed elegante, ha il capo incorniciato in uno scialle color ocra che ben si adatta ai suoi capelli biondi, ha uno sguardo fiero e una certa fermezza nella voce, mentre parla ci guarda fissa, non ci molla mai neanche quando scoppia a piangere. Non vuole essere ripresa né registrata, vuole essere solo ascoltata e questa più che un’intervista è il suo breve racconto, la storia di una madre, di una curda e ora di una profuga che ci ha chiesto, semplicemente, di far sentire la sua voce.

“E’ importante far sentire la nostra voce contro il massacro che sta avvenendo. Sono qui da due mesi, siamo scappati dalla guerra e qui ci ritroviamo sotto la stessa pressione. Da quattro anni gli YPG gestivano Kobane, la difendevano, poi l’Isis c’ha attaccato massacrando anche donne e bambini. Hanno bruciato i villaggi e distrutto le nostre case, hanno bruciato la nostra storia, la nostra identità, la nostra memoria e con essa il futuro dei nostri bambini. Prima i nostri figli potevano studiare, ora non hanno più niente, sono a casa senza un futuro. Emir è il mio figlio più piccolo, non può più studiare, non sa ancora né leggere e né scrivere e non conoscerà più la sua lingua. Mia figlia studiava per diventare ingegnere elettronico, anche lei è stata costretta a lasciare gli studi, ora piange appena legge i suoi libri. Mio figlio Hakki ha 17 anni, era all’ultimo anno di liceo, volevo diventasse dottore e invece è stato costretto a diventare un guerriero;ora combatte a Kobane, nonostante io non volessi che prendesse le armi ma lui è rimasto a lottare nella sua terra e per la sua terra. Non mi chiama più perché non vuole sentire il mio pianto, così come io non voglio sentire il suo, quando ci sentiamo soffriamo entrambi. L’ultima volta che ha parlato con sua sorella le ha detto che non lascerà la città finché non sarà liberata. Adesso sono qui con voi ma solo fisicamente, il mio cuore è lì a Kobane, accanto a mio figlio che sta difendendo l’onore della nostra terra. Questa storia non è solo la mia, è la storia di ogni madre curda. Sono solo una delle tante. Oggi sono entrata nella tenda dei feriti per vedere se fra quei corpi ci fosse anche quello de mio Hakki. Non c’era, ma ho baciato i piedi di atri tre ragazzi feriti e mentre li abbracciavo ho sentito l’odore di mio figlio; il sangue di questi giovani è il sangue dei martiri. La nostra vita è finita: ho lasciato tutto in città, casa, soldi e famiglia; vivevamo bene a Kobane, eravamo felici, e ora? Ora abito in una tenda. Ma cosa vogliono da noi? In Italia, in Europa anche gli animali hanno diritti, perché noi curdi no? I curdi non sono esseri umani? Noi non vogliamo altro che i nostri diritti, non vogliamo altro che tornare alle nostre case ed invece siamo qui con le nostre vite distrutte. Hanno cancellato la nostra identità e chi perde quella ha perso anche la sua umanità.”

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Storia di un combattente curdo

La prima mattina che ci svegliamo a Mehser ci dirigiamo al cortile della moschea, stretti nei cappotti per il freddo, a fare colazione con gli abitanti del villaggio. E’ lì che fortuitamente incontriamo Redush; non sappiamo chi sia nè cosa cerca di comunicarci.

I dubbi si diradano quando tira fuori il telefono ed inizia a mostrare delle foto: immagini crude, uomini con divise diverse stesi tra le macerie, morti nel loro sangue; teste mozze vicino ai drappi neri di Daesh. Ora capiamo; è uno dei combattenti delle YPG e la conferma è l’ultimo video che ci mostra: è un mio compagno, ci fa intendere, mentre sullo schermo scorrono le immagini di un corpo giovane che viene avvolto in sudario, come gli eroi.
Decidiamo d’intervistarlo sul tetto della moschea; lui acconsente e risponde alle nostre domande nonostante sembri metterlo a disagio disseppellire certe storie.
Inizia il suo racconto descrivendoci la situazione sul fronte di Kobane: l’ISIS, da mesi, si è attestato sulle terre intorno alla città assediandola. Dentro le sue mura però controlla solo una piccola parte nel quadrante est. Il resto è sotto il controllo di YPG/YPJ che fa pagare ogni piccolo avanzamento degli jihadisti con un pesante tributo di sangue. Si domanda perchè, mentre loro trattano umanamente i i prigionieri, ogni guerrigliero curdo caduto nelle mani nemiche è destinato inesorabilmente a perdere, oltre la testa, anche i piedi. Ad una superflua morte violenta si aggiunge l’oltraggio. Sugli interventi aerei della coalizione scuote la testa: ci sono obbiettivi scoperti, facili da colpire eppure ogni bombardamento avviene dopo ore di combattimenti e su target assolutamente inifluenti.
Spera per i suoi compagni, ancora dentro la città. Lui è entrato clandestinamente in Turchia di notte, attraverso i campi minati, per curare le ferite di guerra. Gli è andata bene; ai curdi profughi o guerriglieri che passano il confine, l’esercito turco spara a vista o stringe manette ai polsi, percosse e minacce sono la migliore delle ipotesi. Per i terroristi di Daesh invece, per i loro riforimenti, le loro autobombe ed il loro fuoco d’artiglieria la porta è aperta notte e giorno.
Parlando delle unità di difesa del popolo YPG ci racconta della loro formazione, tre anni orsono quando, con lo scoppio della guerra civile in Siria, la regione del Rojava scelse la strada dell’autogoverno ed istituì una milizia popolare che difendesse la popolazione e l’esperimento del confederalismo democratico. Redush è nei loro ranghi fin dall’inizio ed i suoi compagni d’armi non sono solo kurdi, ma armeni, arabi, ezidi e chiunque si riconosca nei principi dell’uguaglianza, della libertà e della tolleranza reciproca. La pratica dell’autogestione permane pure nella battaglia: anche oggi, a Kobane, dopo ogni giornata le unità si riuniscono per fare il bilancio dei combattimenti e pianificare i giorni successivi.
La lotta epica che si sta combattendo in questi giorni a Kobane, sta dando i suoi frutti: circa un centinaio di effettivi dell’Esercito Libero Siriano hanno raggiunto il fronte per unirsi alle YPG/YPJ, altrettanti curdi peshmerga si sono aggiunti portando armi pesanti, artiglieria e mezzi ed è accertata la presenza di diversi combattenti volontari americani ed europei. Dopo Kobane l’attenzione e la solidarietà internazionale si sono alzate molto, ma sono due anni ormai che si resiste agli attacchi di ISIS contro il Rojava. Alla domanda, probabilmente superflua, su quando crede finisca questa guerra; risponde freddo: finchè sarà sostenuta dai governi non ci sarà pace, per il resto posso solo sperare.
Ringraziamo Redush, lo salutiamo lasciandolo sul tetto della moschea. Kobane è ancora lì, con le sue colonne di fumo, i suoi echi di morte, il suo orgoglio muto che sembra dire: di qui non si passa.

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Canti di amore e rivoluzione

Una delle costanti, la sera come di giorno, è che bambini, uomini e donne cantano. Il canto per il popolo curdo ha un’importanza particolare. Quando dopo la prima guerra mondiale venne proibito di parlare e scrivere nella loro lingua, nelle terre del Kurdistan turco si riattivò una tradizione antica che era quella dei cantastorie, i Deng Bej. Miti, cultura, la storia come i racconti d’amore leggendari venivano cantati da questi girovaghi agli uomini e alle donne raccolte intorno al fuoco. Canti bellissimi, che erano in grado di far innamorare di qualcuno senza bisogno di averlo mai conosciuto. Canti che portavano le notizie dei paesi circostanti a conoscenza delle varie città e dei diversi villaggi. Così, oggi, la resistenza di Kobane e la rivoluzione in Rojava viene già cantata non solo al confine, ma in tutto il Kurdistan. Ancora di notte, intorno ad un fuoco, uomini raccolti e attenti ascoltano le storie di questa rivoluzione. Una potenza che viaggia e rompe i canali della comunicazione main stream: anche perché ognuno può dare vita al proprio canto; ognuno può modulare le melodie e riempirle dei propri sentimenti, delle proprie esortazioni e incitamenti ai combattenti e alle combattenti delle YPG/YPJ. E non è raro vedere attorno ai fuochi di Mehser anche telefoni rivolti verso il Deng Bej, dall’altro capo del telefono i combattenti di Kobane: fratelli, sorelle o figli di chi si ritrova intorno a quel fuoco. In queste notti in cui la morte può arrivare improvvisamente, dal cielo come nascosta in un camion di aiuti umanitari, la storia del popolo curdo, come di tutti coloro che si riconoscono in questa rivoluzione, viene scritta e cantata in un abbraccio senza frontiere e che viaggia su canali liberi da ogni oppressione.
Biji Kobane! Biji Rojava!

 

Fonte: http://delegazioneromakobane.noblogs.org

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