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Intervento militare in Libia? Già si profila la sinistra con l’elmetto

“In una fase successiva al negoziato dell’Onu si può immaginare e sostenere come Italia una missione a guida Nazioni Unite che abbia funzione di peace keeping e di state building, ovvero di ricostruzione della statualità condivisa”. E’ quanto ha affermato all’Ansa il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto.

C’è da meravigliarsi? No, sia perché già nell’aggressione militare del 2011 Sel si schierò subito a favore della No Fly Zone in Libia – vero e proprio preludio dell’intervento militare diretto – sia perché da tempo nell’ambito dei movimenti pacifisti vicini alla sinistra istituzionale si è andata affermando una filosofia di collaborazione con l’interventismo militare dell’Unione Europea se non di quelli di Washington. “Si è iniziato ad imparare direttamente sul campo e, con gli anni, si è appreso che una collaborazione tra intervento civile e militare non solo è utile ai militari, ma anche ai civili, per operare in condizioni di maggiore sicurezza” è possibile leggere sul sito http://www.peacebuilding.it . Un certo mondo pacifista, da tempo collaterale ai governi, ragiona esplicitamente su come “Gli scenari per l’intervento civile possono essere i più disparati: da periodi elettorali ai casi di bombardamento dall’alto, ovvero con fattore di rischio estremamente variabile”. Non stiamo leggendo da un sito di militari o di esperti strategici ma da un sito “pacifista” che ha ispirato il progetto dei “Corpi di pace”.

Possiamo dire che sull’aggressione alla Libia nel 2011 e poi sulla Siria, il patrimonio “pacifista” della sinistra e dell’associazionismo collaterale al Pd sia andato definitivamente disperso, anzi si è consapevolmente arruolato negli interstizi dell’interventismo militare “umanitario” di matrice europea. Un interventismo che alcuni, arbitrariamente, ritengono meno dannoso di quello “pesante” statunitense.

Si gioca così sulle parole ben sapendo che hanno significati diversi, soprattutto nelle regole d’ingaggio sul campo. Per l’intervento militare italiano in Libia si parla di peacekeeping, quindi con un ingaggio simile a quello delle forze Unifil in Libano. In realtà non potrà che essere un intervento di “peace enforcing” cioè quello di costringere alla “pace” delle forze belligeranti ma intervenendo a sostegno – militare – di alcune di esse, contro altre. Prendendo dunque parte al conflitto ed essendone soggetto attivo. Certo la demonizzazione del nemico appare fondamentale e i tagliagole dell’Isis in Libia, in Siria, in Iraq, in Mali o in Nigeria si prestano a perfezione. Ma in fondo è stato sempre così, creando anche false notizie e falsi orrori per legittimare un intervento militare che “facesse giustizia”. I risultati sul campo, anche a posteriori, confermano invece la strumentalità di quegli interventi o di quelle campagne mediatiche prima in Jugoslavia, poi in Libia o in Siria. Ma confermano anche le crescenti ambizioni delle potenze dell’Unione Europea di misurarsi sul terreno dell’intervento militare nelle loro aree di influenza colonialista: il Maghreb e l’Africa sono sicuramente tra queste.

Non sarà facile, ma occorre avviare immediatamente le “procedure” di confronto ed azione comune per una mobilitazione contro la guerra e l’intervento militare italiano in Libia. La posta in gioco è seria, è serissima.

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