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L’odio di classe del tifoso

Non passa neanche un mese e ci si ritrova davanti ad un episodio di ordinaria mostruosità legato, di riffa o di raffa, al calcio. Ogni volta, puntualmente, ci si ritrova a dover dire che “il calcio non è questo”; che “non è questo lo sport”; che “tifare una squadra è un’altra cosa”. Subito dopo parte la litania delle “mele marce”, “della parte violenta del tifo e di quella buona”, della gara a trovare l’epiteto più cruento contro i “teppisti”, i “violenti”, “i barbari”, etc. etc. etc. Fino a trovare il termine più efferato, atto a garantirci e a garantire al mondo del pallone, la necessaria distanza di sicurezza dai mostri che proprio quest’ultimo genera. E’ abbastanza evidente che qualcosa non torna in questa pantomima. Se una cosa si ripete uguale a se stessa, per un tempo lungo, è il caso di cominciare a pensare che quella cosa non è come noi immaginiamo o idealizziamo che sia, ma è, o è diventata, un’altra cosa, in tutto e per tutto uguale a come ci si mostra. In questo senso il calcio è ormai da una parte ancora il gol, la traversa, il palo, il colpo di tacco, la rovesciata; dall’altra due accoltellati, risse regolari o quasi tra supporters di squadre diverse o delle stesse ma di diversa ispirazione “politica”, Ciro ucciso fuori dallo stadio, Paparelli dentro, l’Heysel, Bradford, Hillsborough, e mille altre circostanze simili sulla stessa tragica lunghezza d’onda. Se ogni volta che andiamo a teatro, regolarmente o quasi, dal loggione si buttano venti persone sopra le altre che siedono in platea, hai voglia a dire: “il teatro non è questo”, “lo spettacolo teatrale è un’altra cosa”, “la recitazione di qui e la recitazione di là”; c’è poco da argomentare, dopo venti anni che senti di feriti e morti nei teatri, il teatro diventa quella roba lì. Sarà anche stato altro, ma ora è questo, senza bisogno di liturgie ipocrite.

Occorre dirlo una volta per tutte e con chiarezza. Il calcio è morto. Ha cominciato a rantolare a cavallo degli anni ’80 ed è stato definitivamente ucciso nel 1990. A scrivere la parola fine su questo sport è stato il denaro. Lo diceva Majakovskij per il cinema ed è a maggior ragione vero anche per il football: “era un atleta, prima che gli buttassero negli occhi manciate di denaro”. Il suo assassino è dunque il liberismo. L’idea che l’essere umano e le sue passioni possano essere ridotte a merce. Al calcio che fu, sopravvive ormai solo un carosello farlocco, che potremmo collocare in una terra di mezzo della società, tra politica, marketing e diplomazia internazionale. E’ una valida allegoria del tutto, saldamente in mano ai potenti del pianeta; che la utilizzano come mezzo per conquistare il consenso delle masse. Vincere l’avversario; essere più potenti di lui attraverso la ricchezza, la compra-vendita, il “calcio-mercato”. I suoi beniamini somigliano in modo sempre più grottesco ai loro sosia virtuali delle play-station e, sganciati da qualsiasi tratto di sopravvivente caratteristica sportiva o semplicemente umana, rappresentano il miraggio per tutti i disperati del mondo. Le classi subalterne, che qualcuno chiama aristocraticamente popolino, vedono nei calciatori i fortunati miliardari scampati al diluvio universale dell’impoverimento e arrivati nell’unico porto franco del capitalismo. All’interno di questo spazio salvato dall’intemperia è ancora possibile arricchirsi senza produrre alcunché e si può guardare dall’alto la sopraggiunta, globale, povertà dei popoli. Un falso punto d’arrivo che alimenta su altri piani del bene comune, la competitività, la ricerca della notorietà occasionale e della fama conquistata quasi per caso. Lo sport non c’è più. Del gioco rimane solo qualche incidentale parvenza.
Tifare una squadra, dal 1990 in poi significa, per un rappresentante del popolo, aderire alla loggia dei suoi carnefici. Questa disappartenenza alla propria quotidianità, l’evasione sistematica dalla consapevolezza di classe, la negazione strutturale della possibilità di comprendere come sia stato possibile per lui e i suoi compagni (più spesso camerati) di curva, finire ai margini della società senza nessuna possibilità di riscatto oltre l’illusione; sono i motivi che fanno del “tifoso”, o un idiota, perchè è contento di rischiare la vita e il carcere per un mondo che fa girare il denaro ovunque meno che nelle sue tasche; o un violento, ed è la migliore delle ipotesi, perchè vuol dire che sia pure nel posto sbagliato e nel modo sbagliato, avverte comunque un malessere che vuole restituire a qualcuno ed è comunque un inizio. Tutto questo per dire al Comune di Roma e ai media nazionali, che oggi si scandalizzano per le chansons de geste dei tifosi olandesi, che il calcio è diventato questa roba qua da tanto tempo e universalmente. Non è che i tifosi olandesi siano più cattivi di quelli italiani, perchè esempi in senso contrario non mancano. Tutti i tifosi, di tutte le squadre del globo sono potenzialmente folli, perchè continuano a voler battagliare per un campanilismo che non ha più campanili. Le ha comprate tutte il capitale le campane per le quali si accoltellano, uccidono o sparano fischi a botto. Lo dico a malincuore, come può dirlo uno che ha iniziato a giocare a calcio all’età di quattro anni ed ha sempre nutrito per questo sport/gioco una passione viscerale, nata ai confini dell’anima. D’altronde dovrà pure esserci nella vita di ognuno, un momento in cui sopravviene la consapevolezza. L’idea di non voler prestare le proprie emozioni al sistema criminale che le ha uccise. Ecco, un’altra cosa che consiglierei al Comune di Roma è di non cadere nel paradosso. Perchè è davvero grottesco indignarsi per la follia alla quale non di rado approda il calcio moderno, oggi di scena a Roma e domani chissà dove e da parte di chi; quando solo qualche mese prima ha deliberato enfaticamente la costruzione di un nuovo stadio miliardario per la squadra della sua città. Altro cemento, merchandising e denaro da buttare negli occhi di quello che rimane di uno sport nato con semplicità e in mezzo al popolo. Con i panni stesi tra le case popolari a fare da porta. Se c’è una cosa che ha fatto del football una dimensione dove la coscienza fatalmente ha finito per perdersi proprio dove prima riusciva persino a trovarsi, è proprio l’eccesso di denaro che lo avvolge. Quello a cui siamo arrivati è un momento di non ritorno; in virtù del quale sarebbe forse più opportuno pensare di chiudere gli stadi che già ci sono, magari per un certo periodo con il proposito di ripensare il calcio e farlo somigliare di nuovo a se stesso; piuttosto che aprirne di nuovi in spirito neo-faraonico.

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