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Nella competizione globale si affaccia anche il “polo islamico”

La competizione globale e lo scontro interimperialista, sono le caratteristiche dell’epoca che stiamo vivendo. La relazione al forum di Bologna su “Il piano inclinato degli imperialismi”, ha dedicato a questo aspetto una attualizzazione delle tesi esposte nel forum del 2003 dalla Rete dei Comunisti. Riportiamo qui di seguito un stralcio della relazione di Sergio Cararo dedicata in larga alla competizione tra i poli imperialisti – Stati Uniti ed Unione Europea soprattutto – nella parte dedicata ad un nuovo tendenziale attore della competizione in corso: il “polo islamico”. Rispetto a dodici anni fa le ambizioni di questo polo ancora in formazione si sono fatte più concrete e indicano uno scenario nuovo nelle relazioni internazionali, contro il quale agiscono da tempo gli Stati Uniti con una azione di sistematica destabilizzazione in tutto il Medio Oriente e la regione arabo-islamica.

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L’intervento in video di Sergio Cararo

Dalla relazione di Sergio Cararo

(….) Il mondo islamico conta più del 20% della popolazione mondiale, ha un elevato potenziale militare, pesa per circa il 9% della finanza mondiale con investimenti all’estero (in Usa ed Europa) per 1.300 miliardi di dollari ed ha in pugno la maggior parte delle risorse petrolifere. Ma, essendo frammentato in una trentina di stati e attraversato dalla divisione tra sciiti e sunniti (e dallo scontro dentro il mondo sunnita) pesa ancora pochissimo nella scena internazionale: non ha un solo membro permanente del Consiglio di Sicurezza o nel G8, conta pochissimo nelle istituzioni finanziarie come nelle alleanze militari, ed anche nel G20, ha una presenza del tutto marginale.

Questa situazione è diventata insopportabile per le nuove generazioni della borghesia arabo/islamica. Si tratta delle giovani elite delle petromonarchie del Golfo (vedi l’emiro del Qatar), ma anche di ricchi rampolli egiziani, algerini, giordani, pakistani. Alcuni hanno combattuto in Afghanistan ma anche in Bosnia e nella prima guerra in Cecenia, spesso lo hanno fatto fianco a fianco con istruttori militari statunitensi o di paesi della Nato dai quali hanno imparato molti trucchi della “guerra sporca”. Esattamente come accade adesso in Siria e Iraq con molti miliziani dell’Isis. Sono istruiti perché in molti casi hanno studiato nelle università USA o nei college inglesi. Una parte di questa èlite ha anche realizzato una delle principali e più riuscite operazioni di omogeneizzazione culturale del mondo arabo-islamico dando vita al network televisivo Al Jazeera nell’emirato del Qatar. Al Jazeera (da alcuni anni sfidata dal network Al Arabja messo in piedi dall’Arabia Saudita) si è rivelato uno strumento di altissima qualità che per la prima volta ha mostrato alla popolazione arabo musulmana, e non solo, quanto avviene in tutto il Medio Oriente fino all’Asia Centrale, ridando – per la prima volta – identità e protagonismo ad un mondo vissuto dentro la totale subalternità coloniale e post coloniale.

Anche nel mondo arabo-islamico, come nel resto del mondo, il ricambio generazionale, il logoramento delle caste dominanti corrotte, e le maggiori opportunità, stanno creando le basi per un possibile polo geopolitico autonomo che si getta nelle contraddizioni della competizione globale. Non è un caso – come sottolinea il Global Risk 205 presentato all’ultimo Wef di Davos – che l’Isis abbia scelto come definizione di se stesso quello di Stato Islamico, l’idea di uno Stato è sicuramente una evoluzione rispetto a quella della “base” dalla quale era ispirata ad esempio Al Qaida. In Medio Oriente un nuovo equilibrio nascerà, ma nascerà da un periodo di grande caos e di guerra che, al momento e purtroppo, non vede come protagonisti movimenti progressisti o rivoluzionari nel senso migliore del termine. Al contrario i cambiamenti hanno un segno tuttora reazionario ma evidenziano le ambizioni di una nuova classe dirigente “islamica” a voler pesare di più nei rapporti di forza mondiali. Gli Stati Uniti temono questa evoluzione dello scenario mediorientale e l’emergere di un nuovo polo competitivo che ne sfidi l’egemonia, per questo perseguono sistematicamente la destabilizzazione dell’area attraverso conflitti, mutamenti di alleanze, creazione e distruzione di attori dei conflitti (vedi l’Isis, l’alleanza prima con gli sciiti poi con i sunniti e di nuovo con gli sciiti in Iraq, i gruppi armati siriani, le varie milizie libiche, le tensioni con Al Sisi in Egitto e con la Turchia anche se i due sono in competizione tra loro etc).

Pochi sanno che negli ultimi dieci anni, emblematicamente e annualmente dal 2005, si riunisce il World Islamic Economic Forum. Nato con minori pretese nel 2003 come forum parallelo alle conferenze dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, poi invece è cresciuto e si è autonomizzato. Vi partecipano capi di stato, uomini d’affari, accademici dei paesi islamici. Londra, è maggiore piazza di investimento della finanza islamica dopo Dubai e Kuala Lumpur. Dirà Cameron: “La finanza islamica cresce a un ritmo superiore del 50% del settore bancario tradizionale e gli investimenti a livello globale cresceranno a 1.300 miliardi di sterline entro il 2014, e per questo vogliamo assicurarci che una grossa percentuale di questi nuovi investimenti siano qui in Gran Bretagna”. L’ultimo, quello del 2014 si è svolto proprio a Dubai, il prossimo a novembre si svolgerà a Kuala Lumpur, in Malaysia.

Il mondo della borghesia e della finanza islamica è attraversato da un aspro scontro tra i conservatori della visione religiosa anche dell’economia, e i sostenitori dell’economia e della finanza tout court. Nello scontro tra homo islamicus e homo economicus si sta affermando questo secondo.

Ma se una parte della nuova borghesia arabo-islamica ha scelto  la strada della modernizzazione per “vie pacifiche”, un’altra parte ha scelto di passare all’azione militare con un progetto politico ben preciso. Questi settori della nascente borghesia arabo-islamica, ritengono di poter essere classe dirigente, hanno ingenti mezzi finanziari, controllano gran parte delle riserve petrolifere del mondo ma non ha alcun peso politico internazionale né sul teatro regionale del Medio Oriente. Ad opporsi a questa ambizione sono soprattutto gli Stati Uniti e la subalternità delle monarchie o  dei clan familiari al governo nel mondo arabo-islamico. Questa frazione della borghesia arabo-islamica, ha una sua visione della modernità ma la declina con una visione fondamentalista religiosa che in verità ha mutuato, nel suo esatto contrario e sulla base di una inevitabile reciprocità, da Samuel Huntington e dal suo saggio sulla Guerra di Civiltà. La guerra di civiltà dunque è reciproca e può avere un carattere costituente anche per le ambizioni di potenza nel mondo arabo/islamico.

Questo blocco di potere arabo-islamico inoltre conosce bene l’Occidente. Lo ha frequentato, ci ha studiato, ci ha vissuto e in molti casi ci vive. Spesso ne conosce le leadership (vedi i rapporti tra il clan Bush e il clan Bin Laden) e ne conosce i punti deboli. Maneggia adeguatamente le comunicazioni di massa, oggi terreno fondamentale di ogni guerra globale. I video dell’Isis, per quanto allucinanti, confermano una regia sapiente e capace dietro la comunicazione di massa che diffondono.

Al momento i maggiori punti di crisi e di conflitto stanno avvenendo tutti intorno all’Europa, a Est (Ucraina), a Sud est (Medio Oriente) e a Sud (Libia e Africa), con gli Usa che soffiano sistematicamente sul fuoco contro la Russia e destabilizzano sistematicamente il Medio Oriente e il Mediterraneo nel tentativo di impedire la nascita di una o più potenze rivali. Una strategia che non facilita certo la crescita economica e politica dell’Unione Europea, ossia di un potenziale polo rivale che non nasconde più le proprie ambizioni globali.

 

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