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Sinistra e regime. La “confusione distruttiva” del dibattito su Il manifesto

L’autodefinitasi, un tempo, sinistra radicale sta dibattendo, da qualche giorno, sulle colonne del “Manifesto” attorno allo slogan “C’è vita a sinistra” lanciato dalla stessa direttrice del quotidiano, Norma Rangeri.

Il tema è raccolto in 10 punti contenuti nell’articolo che ha promosso la discussione il cui intento appare essere quello di rilanciare un nuovo progetto di aggregazione che impedisca la definitiva dissoluzione di quest’area politico – culturale.

 Protagonisti del disastro di questi anni chiosano e dibattono con nonchalance rispetto a ciò che è avvenuto, alla realtà delle condizioni materiali di vita dei ceti subalterni, all’enorme arretramento “storico” in atto, sviluppando una sorta di frenesia imitatoria dei modelli governativisti e movimentisti in circolazione nei punti più deboli della martoriata Europa come quello greco.

Al dibattito partecipano anche esponenti di quella che fu la altrettanto cosiddetta “sinistra PD”, addirittura membri del governo Letta che via, via, spinti fuori dalla furia renzista hanno scoperto una vocazione d’alternativa.

E’ possibile ricordare quanti tentativi di “unità” di questa sinistra sono stati portati avanti e poi tralasciati nel corso degli anni: dalla “passerella” convocata da Asor Rosa 10 anni fa, all’Arcobaleno (ministri, Presidente della Camera, 150 parlamentari: risultato zero),la scissione di SeL fondata sul meccanismo della più perversa personalizzazione e oggi già arrivata alla frutta con tanto di coinvolgimento nella vicendaccia romana e nelle spese pazze liguri, a “Cambiare si può” strangolato nella culla, ad ALBA, alla tragica lista Ingroia, al pasticcio della Lista Tsipras (eletti in tre, oggi ciascuno per conto proprio e sono passati soltanto pochi mesi), e poi ce ne sarebbe da aggiungere da Sinistra e Lavoro in avanti.

Le ragioni di questo fallimento continuo risiedono negli errori di fondo commessi, appunto, in nome del movimentismo e del governativismo intesi come veri e propri “slogan” lanciati all’inizio del secolo sulla base della fallace teoria delle “due sinistre”.

Errori sui quali s’intende, invece, pervicacemente insistere nel nome di un’ormai superata “modernità” e della paura di richiamarsi alla storia del comunismo italiano e senza comprendere che l’unica possibilità di ripartire è quella dell’opposizione fondata sulle concrete contraddizioni sociali.

In questo dibattito appare addirittura esaltata l’incapacità di gruppi dirigenti capitati lì per caso di mettersi in discussione e di far ripartire dal basso un processo di formazione dei quadri.

Vanamente si è cercato di richiamare la possibile adottabilità di una via “consiliare”.

Emerge la mancanza di determinazione nel definire un perimetro ideologico e programmatico tale da proporre egemonia politica alle realtà sociali e del movimento  che pure esiste e lotta nel mondo del lavoro e nelle espressioni delle altre contraddizioni prodotte dallo sfruttamento, da quella di genere, da quelle insite nei grandi processi di migrazione.

Da parte di questa sedicente e presunta sinistra è stato, invece, addirittura accettato il concetto ,del tutto aleatorio e indefinito, di “coalizione sociale”.

Il primo elemento sul quale è necessario fare estrema chiarezza diventa allora, in precedenza allo stesso richiamo riguardante il quadro internazionale e la decisiva “questione europea” è quello del riconoscimento dell’esistenza , in Italia, di un vero e proprio regime autoritario che, pur tra confusioni e contraddizioni, il PD sta realizzando.

Non è tanto questione di “annunci” e di difficoltà evidenti sul piano economico, quanto dell’essersi ormai affermata una concezione dell’agire politico fondata su termini di vero e proprio autoritarismo di stampo salazarista: siamo ben oltre, e lo verificheremo al meglio analizzando il combinato disposto tra legge elettorale/riforme costituzionali/occupazione degli strumenti informativi e, in particolare, della RAI, alle analisi sviluppate nel più recente passato al riguardo dell’uso della personalizzazione della politica e della governabilità.

Questo regime, è bene ricordarlo, si posa ai piedi di una gigantesca “questione morale”, una corruzione diffusa a tutti i livelli, favorita dal formarsi di vere e proprie cosche (basta leggere gli atti fin qui pubblicati dell’inchiesta “Mafia Capitale”) all’interno di quelli che ancora sono definiti partiti fondati sul concetto (terribile!) di individualismo competitivo messo in moto dall’insensatezza del metodo delle elezioni primarie.

Una “questione morale” che rappresenta una vera e propria palla di piombo per qualsiasi prospettiva di tipo economico e sociale e che, nel dibattito su “C’è vita a sinistra” non viene assolutamente affrontata.

Non esiste spazio per una riaggregazione a sinistra che non principi dall’opposizione, riferendosi immediatamente alla concretezza della feroce dinamica imposta dalla gestione capitalistica sul complesso delle contraddizioni sociali e organizzando, su questa base, una forma politica compiuta.

La sola risposta possibile è quella di una soggettività di sinistra comunista.

Siamo di fronte ad esempi, nello sviluppo del dibattito promosso dal “Manifesto” di vera e propria confusione distruttiva.

Qualche giorno fa, in un articolo di Stefano Fassina (che non conteneva alcun accenno di autocritica circa le proprie responsabilità soggettive, ad esempio, come viceministro dell’economia nel governo Letta) si cercava di sviluppare un’ipotesi che tenesse  assieme l’idea dell’alleanza sociale progressiva e di un “partito nazionale e popolare” da costruire assieme.

Davvero un esempio di confusione non soltanto nei termini ma nel concreto della prospettiva politica. Perché definire il “partito nazionale e popolare”, potrebbe anche apparire una furbata tesa a fare l’occhiolino addirittura al togliattismo.

Ma allora, è bene ricordarlo, il nazionale (in tempi di divisione del mondo in blocchi) e il popolare (in tempi di partito di massa) stavano dentro ad un grande partito comunista, con i suoi difetti e i suoi limiti ci mancherebbe (al riguardo del quale noi abbiamo avuto il nostro da dire e i nostri guai: non è vero Norma?) ma un grande partito comunista fondato sulla rappresentanza diretta della classe operaia e protagonista del più grande fatto storico della storia d’Italia: la Resistenza.

Sarà magari il caso, allora, di dimensionarci un poco: visto che di partito comunista, tra gli Arcobaleni vari non si è mai voluto parlare e questo sarebbe un punto molto interessante per una discussione seria.

 

 

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