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Le borse cinesi e le scelte da fare per il PCC

Mentre tutti i responsabili economici e politici del mondo ci/si tranquillizzavano sulla ripresa economica generale, lenta ma inesorabile e primo fra tutti il nostro presidente del consiglio Matteo Renzi, l’11 agosto è scoppiato in piena estate una vera tempesta economica. La “perturbazione” è venuta dall’est e più precisamente dalla Cina che ha deciso tre svalutazioni, una dietro l’altra, per un totale di 4,6% per cento circa e che, tenendo conto della banda di oscillazione dello Yuan sul dollaro del 2%, può arrivare al 6,6% in meno. Il dibattito che si è sviluppato in quei giorni sui giornali di tutto il mondo era finalizzato a capire se era una aggressiva svalutazione competitiva oppure una manovra per far rientrare la moneta cinese nelle valute di riserva del mondo che finora sono solo il dollaro, l’euro, la sterlina e lo yen giapponese, come sembrava avvalorasse lo stesso FMI.

Se gli economisti discutevano gli investitori dirigevano rapidamente i propri soldi fuori dalla Cina mettendo in crisi la borsa di Shanghai, facendo perdere buona parte dei guadagni acquisiti nell’anno e facendo cadere di conseguenza tutte le borse del mondo fino a Wall Street. Una manovra monetaria era divenuta rapidamente una crisi delle borse, ovvero delle società industriali, e non solo, quotate in borsa. A questo ulteriore passaggio gli occidentali si sono allarmati ancora di più soprattutto di fronte al mancato intervento della Banca centrale cinese (PBoC) ed hanno cominciato a dare consigli avendo “a cuore” le sorti di quel paese. Roberto Napoletano, direttore del Sole 24 Ore, dalle colonne del suo giornale lo scorso 25 agosto ha sintetizzato le scelte che si dovrebbero fare. Prima di tutto un Quantitative Easing alla Cinese ovvero adottare la linea USA e UE che prevede una grande disponibilità di liquidità da inviare sul mercato a sostegno dei titoli azionari, per bloccare la fuga dalle borse e tranquillizzare i “risparmiatori” che sarebbero poi, dicono, per la gran parte piccoli risparmiatori cinesi. In realtà la dinamica immediatamente mondiale della fuga dalle borse cinesi dimostra che i soggetti preoccupati dei propri capitali vanno ben oltre i piccoli risparmiatori “indigeni”.

Poi, di fronte al rallentamento dell’economia e della domanda interna, il governo di quel paese deve avviare le riforme, delle vere riforme, che allarghino il mercato e la domanda interna stabilmente e non in modo “artificiale”. Inoltre gli USA e la UE dovrebbero creare un clima internazionale di collaborazione che aiuti la Cina ad orientarsi verso le giuste soluzioni. Lo stesso Prodi ci ha riservato nei giorni successivi delle perle di saggezza sostenendo le posizioni del giornale ma esprimendo un certo pessimismo nel poter ricostruire un  accordo internazionale come è stato fatto nel ‘44 a Bretton Woods.

Ormai si sa che quando cominciano a circolare ragionamenti sulle riforme e sugli accordi finanziari internazionali bisognerebbe essere molto preoccupati perché gli effetti economici e sociali che si producono sono sempre devastanti, come ha dimostrato la Grecia in questi ultimi mesi, anche se i paragoni in questo caso sono molto relativi. Comunque alla fine la PBoC ha cominciato a inondare il mercato di liquidità, ha superato una fase di strano immobilismo ed ha permesso la ripresa internazionale delle borse e la stabilità del mercato; insomma ancora una volta tutti felici e contenti?

Questa è stata la rappresentazione che è stata fatta dai mass media in questo convulso mese di agosto ma l’evoluzione dei fatti raccontati non spiega nulla delle reali dinamiche che hanno portato al momento di crisi attuale, che non è stata affatto superata ed è in continuità con quella del 2007. Da quando il Modo di Produzione Capitalista ha riacquisito una piena dimensione mondiale quello che si è manifestato è che le crisi finanziarie, l’esplosione delle bolle speculative sono solo il riflesso di una crisi strutturale che prima o poi riemergerà concretamente. E’ successo dopo la crisi del 1997 che ha portato ad un incrudimento dello scontro internazionale iniziato con l’intervento in Afghanistan nel 2001, ed è accaduto con la crisi dei Subprime nel 2007 dalla quale, nonostante gli auspici, non se ne è ancora usciti. Più che le borse cinesi quello che conta è lo stato di salute dell’economia del paese e questa non è evidentemente affatto buona. Il PIL non cresce quanto è stato pianificato, la produzione industriale è scesa ai livelli di sei anni fa, i consumi nel mercato interno crescono meno del previsto, addirittura diminuiscono le esportazioni che sono state per venti anni la locomotiva della crescita economica ed anche i continui incidenti negli apparati industriali mostrano ulteriori difficoltà. 

Insomma quello che sembrava il salvagente dell’economia internazionale comincia a mostrare i limiti della propria crescita economica producendo una serie di interrogativi sia sul piano strettamente economico e finanziario ma anche in prospettiva su quello politico. I nostri soloni occidentali cercano di dare consigli ed orientamenti perché hanno capito bene che i limiti cinesi oggi, nel contesto globalizzato, non sono i limiti di un solo paese ma quelli della crescita del capitalismo a livello mondiale. Non siamo certo al crollo ma oggi si evidenziano i limiti attuali ed anche quelli di possibili soluzioni. Lo evidenziano gli effetti diretti sulla periferia produttiva, i BRICS, e sui paesi produttori di materie prime a cominciare dal petrolio, ma anche il rientro nei centri imperialisti di una massa enorme di capitali potrebbe produrre ulteriori squilibri ed aggravare la crisi finanziaria proprio nel cuore del capitalismo.

La tendenza del capitale è quella di svilupparsi all’infinito ma in un mondo finito. La sconfitta del movimento operaio del ‘900, la fine dell’URSS e l’apertura degli spazi geografici ed economici che rappresentava, l’adeguamento della Cina alle relazioni economiche capitaliste hanno prodotto due decenni di crescita economica, dei profitti, di affermazione dell’egemonia borghese ma anche di profonde contraddizioni. Il fatto che oggi il paese che possiede la maggiore crescita comincia a segnare i propri limiti pone al capitale mondiale il problema di quali spazi occupare per continuare a crescere, e pone un problema di prospettive e di scelte da fare al PCC.

Quello che intendono i paesi imperialisti quando parlano di riforme è aumentare lo spazio di azione della legge del valore e quando questa trova limiti nella crescita estensiva, in questo caso la dimensione del paese, non può che rivolgersi ad uno sfruttamento più intensivo. Detto in altre parole in Cina gran parte dell’economia è ancora in mano pubblica, questo forse non sarà il socialismo ma certamente è un limite politico allo sviluppo del capitale. Non possiamo perciò non pensare che la prossima partita si giocherà proprio in questo ambito, cioè una crescita economica con le caratteristiche attuali potrà essere mantenuta solo se si avvieranno estesi processi di privatizzazione e di modifica delle condizioni dei lavoratori del settore industriale e terziario pubblico, insomma fare quello che è già stato fatto nei paesi imperialisti e nel resto del mondo.

Si pone dunque, nel progredire della crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, un problema strategico al Partito Comunista Cinese e decidere se mantenere la continuità con le scelte attuali introiettando fino in fondo le dinamiche e le crisi del capitale oppure tentare altre strade. Ovviamente non azzardiamo previsioni, non ne abbiamo l’autorevolezza, ma non possiamo non rilevare le contraddizioni che stanno emergendo nelle nuove condizioni internazionali. Un approfondimento teorico e politico va fatto anche perché se è vero, e probabilmente giusto, che la costruzione del socialismo richiede decenni come affermano i comunisti cinesi è anche vero che i tempi delle trasformazioni imposte dal Modo di Produzione Capitalista sono molto più veloci e si può essere chiamati oggi a fare scelte alternative tra le due prospettive. 

* Rete dei Comunisti

fonte: www.retedeicomunisti.org

 

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