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Pil e disoccupazione. Quando l’ottimismo è frutto dello stordimento mediatico

Una delle caratteristiche distintive dei media contemporanei è quella di alternare – in un’interminabile montagna russa – allarmi, annunci di catastrofi imminenti e perentori richiami all’emergenza a proclami trionfalistici in ragione dei quali il peggio sarebbe alle spalle e i giorni felici dietro l’angolo. La rapidità con cui la rappresentazione del reale passa – nei media e nelle menti di chi ha con essi una relazione    dall’ecatombe imminente al regno della speranza coincide, sempre più spesso, con lo spazio di un mattino.
Un effetto immediato di tale nutrimento perverso riguarda lo sviluppo di una particolare forma di amnesia. Lo stordimento è tale, infatti, che ci si ritrova con sempre maggiore frequenza  a dar credito a notizie, tesi o opinioni che, la stessa fonte mediatica, poteva avere tranquillamente sconfessato o dato per false il giorno prima. Si vive in una sorta di continuo ordine e contrordine che ha come risultato quello di far perdere lucidità, obiettività e visione rispetto agli eventi  – quelli sì, reali – che quotidianamente si manifestano. Si tratta della, più o meno consapevole, acquisizione di ritmi e modalità comunicative – e, dunque, di rappresentazione e di produzione del reale – che son buoni per i profitti pubblicitari dei social network o delle news h24 più che per l’umana comprensione della realtà. E gli storditi accettano, non avendo spesso grandi alternative, di divenire come delle tristi utilitarie guidate, nel caos del reale, dai ‘navigatori’ mediali contemporanei.
Fatti e dati dell’economia non sono affatto immuni da queste dinamiche ne, tantomeno, dalle conseguenze delle stesse. Il caso odierno riguarda l’entusiasmo di governo, ministri e media di ogni ordine e grado uniti in un coro si giubilo per i ‘sorprendenti’ dati riguardanti Pil ed occupazione in Italia. Renzi, in ossequio alla logica mediatica di mortificazione della realtà di cui sopra, ha ben pensato di dedicare a tutto ciò un video su Youtube oltre ad un profluvio di tweets. Dopo che per settimane il tentativo Renziano di giustificare misure antipopolari (e tecnicamente recessive) è stato contrastato da dati impietosi circa il tasso disoccupazione giovanile – al 42,7%, un dato quasi senza precedenti per la sua negatività -, l’avvilente dinamica del prodotto lordo o quella prossima al collasso del debito pubblico, come una manna dal cielo sono giunte le nuove statistiche Istat.
Il Pil italiano è stato rivisto al rialzo dall’Istituto Nazionale di Statistica. Nel secondo trimestre il passaggio è stato dallo 0,3 allo 0,4% mentre, su base annua, il passaggio è nell’ordine dello 0,2 e cioè si passa dallo 0,5 allo 0,7% del Pil. Tale avanzamento andrebbe, sempre secondo l’Istat, di pari passo con una (lieve) riduzione del tasso di disoccupazione giovanile. Ed è a questi primi dati che si ferma la strombazzante macchina propagandistica che, tra un tweet e l’altro, si affretta a certificare la giustezza di Jobs Act ed abolizione dell’articolo 18. E’ confermata la bontà e la necessita delle riforme! Tutto sembra coincidere, dunque, con il sorridente profilo twitter del Presidente del Consiglio e con la realtà gonfia di ottimismo che da esso promana.
Ma ecco che, come una fastidiosa zanzara, si affaccia un acerrimo nemico della velocissima – quanto superficiale – narrazione mediatica in cui il politico contemporaneo sguazza. E’ il pessimista ipercritico. Ora, il primo recondito interrogativo che potrebbe sorgere a questo pessimista è il seguente: ma, non potrebbe sembrare mortificante gioire per un incremento dello 0,2% del prodotto interno lordo? Non sarebbe più indicato tacere, per la carità di una patria che di prodotto, dal 2008 ad oggi, ne ha perso una quantità tale da riportarla ai livelli del 1997? Ma poi, il pessimista si ravvede e prova convincersi che potrebbe andar peggio e che, in fondo, un incremento del Pil è pur sempre un dato da salutare con favore e poi si fa brutta figura a passare sempre da bastian contrari.
Il problema del pessimista ipercritico, tuttavia, è quello di non utilizzare facebook, di non sapere bene cos’è twitter e, soprattutto, di aver fatto un fioretto che consiste nello smettere di prestare attenzione agli ipnotici titoli – di prima pagina – dei giornali on line. Questo pessimista, tuttavia, si contraddistingue per due ulteriori caratteristiche. Da un lato, tende a ricordarsi dati, fatti e opinioni risalenti a qualcosa di più che all’altro ieri; dall’altro, quando si tratta di numeri, cerca di andare a guardarseli di persona piuttosto che farseli ‘raccontare’ attraverso i social media. Ed ecco, allora che il rapporto Istat, che tanta eccitazione ha provocato in Renzi, Padoan e compagnia, svela una serie di informazioni aggiuntive. Non così banali, secondo il pessimista. E non così sconnesse dagli interminabili dibattiti, soprattutto scientifici, che si sono moltiplicati dall’esplosione della crisi in poi.
Questa inaspettata ‘risalita’ del Pil è da attribuire a due fattori: consumi ed investimenti interni. Questi, per stessa ammissione dell’Istat, sono stati stimolati, in primis, dal calo dei tassi di interesse causato dal Quantitative Easing della BCE – che ha, per questa via, favorito una crescita degli acquisti, a debito, di beni durevoli quali gli elettrodomestici; in secundis, da quel poco di spesa pubblica operata dal governo. Ed ecco il tarlo del pessimista che, puntuale, si riaffaccia. Ma, se gran parte del merito è da attribuire al QE di Draghi di cosa ci si sta rallegrando? A fronte di un intervento espansivo mastodontico come quello che la BCE sta operando sul mercato delle obbligazioni pubbliche come ci si può stupire che si sia avuta una reazione nella terza economia più importante dell’area? Piuttosto, si chiede il pessimista: ma se gli USA attraverso il QE hanno raggiunto tassi di crescita superiori al 3%, il fatto che l’Italia risponda con un incremento dello 0,2% alla medesima terapia non dovrebbe far pensare che il malato non risponde alle cure?
Ma, di nuovo, il pessimista decide che è ora di finirla, basta con questa negatività. Sarà solo 0,2% ma va considerata la prima avvisaglia di un’ imminente fase di ricchezza e prosperità. E però non c’è niente da fare, non può farne a meno. Il pessimista gira pagina e trova le statistiche sul commercio estero. Lascia perdere i buoni propositi e si accorge di un dato incontrovertibile: questa minima, infinitesimale, impercettibile ripresa del Pil italiano ha – come era invitabile, rimugina dentro di se il pessimista – coinciso con un immediato deificit delle partite correnti. L’Italia, cioè, ha importato la gran parte di ciò che ha consumato in più, le importazioni sopravanzano le esportazioni, si alimenta la produzione (e quindi l’occupazione) estera e, come l’aritmetica elementare vuole, si pongono le condizioni per un nuovo aumento del debito estero (e, dunque, i germi di nuove crisi).
A questo punto il pessimista è esterrefatto. Ma come, tutti gli economisti che mi è capitato di ascoltare dal 2008 ad oggi lo hanno ripetuto fino allo sfinimento: in Europa è in atto una divergenza pericolosissima, il Sud ha perso tra il 20 ed il 30% della sua capacità produttiva, non va in alcun modo ‘drogata’ domanda senza mettere mano ai problemi strutturali altrimenti si riaprirà la forbice della divergenza (che i dati italiani sembrano plasticamente segnalare) rischiando una crisi ancor più devastante. Come è possibile, che nessuno noti questo e, soprattutto, che chi ha responsabilità di governo sbandieri la superficie – in cerca di un facile applauso – sentendosi tranquillo nel nascondere la ben più preoccupante struttura? Amareggiato, il pessimista si rende conto che il suo puntiglio è fuori moda, nessuno metterà ‘mi piace’ sotto le sue (fondate) preoccupazioni.          

* Università di Roma La Sapienza

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