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Il mondo guarda la guerra che non voleva vedere

La triste risacca del Levante non ci darà tregua. Le analisi sui profughi si fermano al fenomeno dei rifugiati e non alle radici del problema: le guerre intorno al Mediterraneo che sono arrivate dentro l’Europa scuotendone le fondamenta. Non si solleva lo sguardo all’orizzonte neppure quando si vede il cadavere di un bambino di Siria trascinato dalla corrente su una spiaggia turca, come se lì non ci fosse da oltre quattro anni una guerra e si trattasse di un disgraziato evento meteorologico, un imprevisto tsunami mediorientale venuto a colpirci allo stomaco.

La commozione non basta e neppure gli slanci umanitari, così come, al contrario, sono una fragile illusione muri e reticolati della segregazione. Siamo di fronte alla più drammatica e possente disgregazione di stati dai tempi della seconda guerra mondiale che coinvolge milioni di persone.

Non è con un pennarello per segnare numeri indelebili sulle braccia che tracceremo i nuovi confini di popoli senza patria e speranza.

Che cosa accade lungo l’arco della crisi del Levante, tra Turchia, Iraq e Siria? È in corso il conflitto più esteso da decenni alle porte della Nato, dal Medio Oriente al Nordafrica, al Sahel, una resa dei conti etnica, politica, settaria, simile a quella dei Balcani ma insanguinata anche dal petrolio ed enormi interessi geopolitici, in cui nessuno degli attori è innocente, neppure l’Occidente che nella guerra al Califfato non ha ancora chiaro quale sarà la sorte di intere nazioni.

Washington, dopo l’accordo con l’Iran, persegue una politica di bilanciamento delle forze nella regione che intende evitare ai marines di mettere gli stivali sul terreno in Iraq e in Siria ma che presenta seri rischi di deragliamento. Gli alleati non sono così affidabili e non sempre i nemici sono quelli dichiarati.

Quando si dice che migliaia di profughi marciano con la morte addosso è la cruda realtà dei fatti: in Siria, che entra nel quinto anno di guerra, ci sono stati più di 200mila morti, di cui 70mila civili e oltre 10mila bambini. Da dove fuggono? Da un Paese lacerato nella convivenza civile, materialmente distrutto, senza ospedali, scuole, elettricità: più di 12 milioni di siriani sono in emergenza per sopravvivere. 
Nel 2015 il bilancio degli aiuti umanitari è di 8 miliardi di dollari e finora è stata trovata la copertura solo per il 2% per cento.

Questo e molto altro ci dice la risacca del Levante. In Siria si consuma la morte di una nazione e anche un genocidio culturale, come dimostra la distruzione e il saccheggio di Palmira da parte dell’Isis: si cancella la memoria del passato per impedire all’ex Siria di avere un futuro. I profughi sono il tragico risultato di un conflitto civile diventato quasi subito una guerra per procura tra le potenze che disintegra ogni possibilità di convivenza tra fedi e confessioni diverse. Come l’Iraq, la Libia, lo Yemen, l’Egitto di Al Sisi, la Siria è l’incubatore del radicalismo e dell’intolleranza di oggi e di domani: dovrebbe riguardare direttamente l’Europa, che aspira a proporsi da modello agli altri e a rafforzare la propria sicurezza.

Viktor Orban, il premier ungherese, chiede ai profughi siriani di fermarsi in Turchia: qui sono già 2 milioni, in Libano oltre un milione, così come in Giordania. Dei 4-5 milioni di rifugiati siriani all’estero, l’Europa ne ha presi finora il 6-7 per cento. Incontrando i giornalisti al G-20 di Ankara, l’ambasciatrice Ayse Sinirliogu, che dirige gli sherpa del summit economico, ci ha informati che l’accoglimento dei rifugiati è costato alla Turchia 6 miliardi di dollari. Ma la generosa accoglienza di Ankara è stata funzionale in questi anni alla sconfitta di Bashar Assad e dei suoi alleati come Teheran. Con lo sdoganamento dell’Iran lo scenario è cambiato e la Turchia di Erdogan, soddisfatta l’esigenza di colpire i curdi del Pkk, si sta adattando a un possibile negoziato con Usa, Europa, Russia, Iran, Arabia Saudita, per la spartizione del Levante in sfere di influenza. I rifugiati non sevono più, sono diventati ingombranti e infatti è cominciato l’esodo.

La causa principale della crisi migratoria è nel caos e nella destabilizzazione che gli Stati Uniti e l’Europa con i loro alleati regionali hanno contribuito a provocare in Libia, Siria, Iraq, Yemen, Somalia, Afghanistan. Tra questi pessimi alleati _ ma ottimi clienti della nostre industrie belliche _ si distinguono le monarchie del Golfo: per abbattere Assad hanno appoggiato i peggiori jihadisti ma non prendono in casa neppure un profugo siriano. L’Europa affronta adesso con spirito più fattivo l’emergenza dei rifugiati ma esita ad analizzarne le cause perché coinvolgono pesantemente le responsabilità occidentali. Accogliendoli gli europei in un certo senso rimediano ai loro micidiali errori: anche questo racconta con il suo lamento la risacca dei profughi del Levante.

* Il Sole 24 Ore

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