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Catalogna: nazione vs stato. Il ruolo vitale della sinistra indipendentista

Il prossimo 27 settembre, giorno delle elezioni per il Parlament, sarà una data decisiva per l’indipendentismo catalano. Questo si presenta diviso in due formazioni (Junts pel Sì e CUP) accomunate dalla volontà di dare inizio alla costruzione di una Repubblica Catalana. A differenza di un referendum per l’indipendenza- il cui svolgimento, lo scorso 9 novembre, fu ostacolato e di fatto impedito dal governo di Madrid- non sarebbe necessaria una maggioranza indipendentista dei voti ma solo la conquista della maggioranza dei seggi. In un certo senso, i nazionalisti hanno rivoltato contro lo Stato l’arma della legalità: lo Stato spagnolo può proibire un referendum sull’indipendenza ma non delle elezioni parlamentari in una Comunità Autonoma; inoltre, dopo le sconfitte degli indipendentisti nei referendum in Quebec ed in Scozia, la conquista del 51% della massima assemblea catalana pare in questo momento un obiettivo più facile da conseguire.
Ciò considerando anche l’emersione del populismo. Questo, nelle sue due tendenze-  Podemos e Ciudadanos- ha cercato di contrapporre altre dicotomie (il “popolo” contro la “Casta”; “buona politica” contro “cattiva politica”; “cittadini onesti” contro la corruzione; politiche neoliberali contro le politiche di austerità) a quella dominante nello spettro politico catalano degli ultimi cinque anni: Nazione contro Stato.
Negli ultimi cinque anni sta la chiave di lettura della prossima competizione elettorale: la questione sociale si è fatta sempre più forte, portando prima ad un equilibrio nuovo nella storica dialettica del nazionalismo catalano, poi alla nascita- ed alla crescita- di formazioni politiche che intendono relegare la questione nazionale in un piano secondario.
La fase recente del nazionalismo catalano è iniziata nel 2010. Nel giugno di quell’anno, il Tribunale Costituzionale spagnolo- su ricorso del Partido Popular- si pronunciò contro 14 articoli del nuovo Statuto catalano, in particolare quelli che riconoscono la Catalogna come una nazione e pongono le basi di una fiscalità autonoma. Scrisse la sentenza: “La nazione che qui interessa è esclusivamente la nazione nel senso giuridico-costituzionale. In questo specifico, la Costituzione non conosce altro che la Nazione spagnola”. Il 10 luglio, si svolgerà una grande manifestazione (“Som una naciò. Nosaltres decidim”) contro il pronunciamento del Tribunale, sostenuta da tutti i partiti eletti nel Parlamento Catalano- ad eccezione di PP e C’s. La palese violazione dei diritti democratici catalani- il nuovo statuto era stato approvato dai cittadini della regione autonoma in un referendum popolare nel 2006- provocò una diffusa indignazione, portando alla polarizzazione dello scontro politico nella dicotomia Nazione-Stato. Questo condusse alla rottura definitiva dell’esperienza del Tripartito – la coalizione che dal 2003 aveva reso possibile la realizzazione di un governo di Sinistra dopo 23 anni di dominio di CiU- con l’inconciliabilità delle posizioni dei due maggiori partiti catalani di Sinistra (ERC e PSC) riguardo al conflitto creatosi. L’allora leader dei repubblicani catalani di Sinistra, Joan Puigcercos, era deciso a proseguire sino alle conseguenze più estreme, ponendo la convocazione di un referendum per l’indipendenza come punto irrinunciabile di un nuovo tripartito; l’allora leader dei catalani federati al PSOE e presidente della Generalitat, Josè Montilla, non volle rompere con il partito centrale e dichiarò l’alleanza definitivamente chiusa.
Il 2010 segnò anche una svolta storica nei rapporti tra la borghesia catalana e lo Stato centrale. La prima- in difesa dei propri interessi di classe- ha sempre giocato la carta del nazionalismo o sostenuto il governo centrale a seconda della convenienza del momento: contro Madrid nelle guerre carliste in nome dei Fueros, dei privilegi fiscali; con Madrid per ostacolare l’ascesa delle organizzazioni del proletariato catalano (sostegno della Lliga Regionalista al Regio Esercito chiamato a reprimere le manifestazioni operaie di Barcellona del 1909 e 1917 ed appoggio alla dittatura di Primo de Rivera). Potremmo sintetizzare la base del contratto tra Stato spagnolo e borghesia catalana in questo modo: la seconda aveva necessità di un mercato protetto; il primo voleva limitare la necessaria industrializzazione alle periferie, per tenere saldo il blocco sociale di potere del Regno. La recente crisi economica ha dato una dura spallata a questo patto: con il crollo della domanda nel mercato spagnolo, le imprese catalane- per la prima volta- nel 2010 hanno esportato più merci nel resto del mondo (52%) che in Spagna, sino a giungere oggi ad una percentuale del 60%. La ricerca di nuovi mercati è sempre stata un’ambizione della borghesia nazionalista catalana, resa possibile a cominciare dall’ingresso del Regno nella Comunità Economica Europea (1986) che ha reso il potere di Madrid sempre più pesante, favorendo la progressiva indipendenza dal mercato spagnolo quanto la volontà locale di governare il processo europeista come l’integrazione dell’industria catalana con gli altri centri economici dell’Unione.
Le elezioni catalane dello stesso anno, mostrarono chiaramente il giudizio negativo dell’elettorato sull’esperienza del tripartito (ERC e PSC perdono rispettivamente il 47% ed il 28% dei voti rispetto alle elezioni del 2006) e l’affermazione di CiU – la coalizione tra il partito liberale borghese CDC ed il democristiano UCD prese circa 280 mila voti in più rispetto al 2006- come punto di riferimento dell’elettorato nazionalista. È molto probabile che diversi elettori di ERC abbiano scelto lo schieramento di Artur Mas, mostrando come la dicotomia Nazione-Stato abbia prevalso sulla contraddizione di classe.
CiU ritornò al governo della Generalitat radicalizzando lo scontro con lo Stato sulla questione fiscale. Si calcola che ogni anno 20 miliardi di euro di imposte pagate dai catalani prendono la via di Madrid. La proposta che Mas intese negoziare con il governo di Rajoy fu quella di un concierto economico sul modello basco e navarro, comunità con un proprio regime fiscale. Tuttavia, un altro effetto della crisi economica è stato quello di minare il consenso dei catalani allo schieramento nazionalista borghese. La causa sta nelle politiche neoliberiste portate avanti dal governo di Mas: tagli alla sanità ed alla educazione pubblica; tagli ai salari dei dipendenti pubblici; aumento delle tasse universitarie; aumento dei prezzi nel trasporto pubblico; limitazione dell’accesso al reddito minimo garantito e degli aiuti per le famiglie con figli minori di 3 anni. L’attacco inflitto allo Stato sociale è contemporaneo all’ascesa delle diseguaglianze sociali e dell’indice di povertà e non fa che sommarsi ai danni delle politiche liberiste del governo di Rajoy.
Le elezioni catalane del 2012 rivelarono, appunto, la radicalizzazione del discorso indipendentista. Il fallimento dei negoziati tra Madrid e Barcellona sul concierto economico portò il Parlamento Catalano, in settembre, all’approvazione di una mozione per la convocazione di una consultazione sull’indipendenza della Catalogna ed alla convocazione di elezioni anticipate per rafforzare la posizione indipendentista entro il Parlamento catalano. Il risultato più eclatante di quella consultazione elettorale fu però la crescita della Sinistra catalanista, tanto nella sua frangia socialdemocratica (ERC) come in quella nettamente anticapitalista (CUP): un chiaro segno dell’avversione alle politiche del governo Mas. Inoltre, ci fu anche una scissione indipendentista dal PSC. Alle europee del 2014, lo spostamento a Sinistra del nazionalismo catalano fu ancora più evidente con il grande successo della coalizione L’Esquerra pel Dret a Decidir- con circa 594000 voti- che si affermò come prima votata della Catalogna davanti a CiU.
Nel resto dello Stato spagnolo, invece, il disagio sociale figlio della crisi economica e delle politiche di austerità è stato canalizzato da Podemos. Il segretario di questo movimento- Pablo Iglesias- ha scritto sulla New Left Review che nelle nazionalità del Regno, la sinistra indipendentista aveva già saputo ricevere questa fetta di consenso. Questo riconoscimento non gli ha impedito di inserire lo stesso movimento anche in Catalogna, identificando il nazionalismo borghese catalano come parte della Casta da esso combattuta, addirittura come l’equivalente catalano del Partido Popular. Il terreno facile gli viene dato non solo dalle politiche di Mas ma anche dagli scandali di corruzione e finanziamento illecito che hanno investito CiU, il cui leader storico Jordi Pujol ha inoltre recentemente confessato di essere un evasore fiscale. Il populismo di Destra di Ciudadanos, nato come reazione al crescente nazionalismo catalano, si è esteso recentemente a tutto il Regno con la sua proposta di “buona politica” e di “rigenerazione democratica” con “al centro il cittadino”.
Se prima Artur Mas pensava di poter governare il processo indipendentista, ora si ritrova stretto tra  i due fuochi della Sinistra e del populismo ed il nazionalismo diventa per lui una carta disperata da giocare per salvare il potere politico proprio e di Convergencia Democratica. Il passo indietro dell’attuale presidente della Generalitat in occasione del 9 novembre 2014- convocazione di una consulta non ufficiale invece del referendum- come il recente distacco di Uniò Democratica dalla CDC dello stesso Mas, sono la dimostrazione dei travagli dei nazionalisti borghesi di fronte ad un processo che sembra sfuggire al loro controllo.
Nell’ultimo anno, anche la Sinistra catalanista è stata danneggiata dalla concorrenza del populismo. Le recenti elezioni comunali di Barcellona, pur mostrando una maggioranza relativa nazionalista, hanno visto il successo della candidata di Barcelona en Comù (formazione sostenuta da Podemos) Ada Colau, nota attivista del movimento contro gli sfratti e paladina della “gente comune”. Il nuovo sindaco non ha raccolto l’invito dei partiti nazionalisti a dichiarare il sostegno della municipalità all’indipendenza, astenendosi a riguardo insieme al resto dei consiglieri di BEC. La crescita di un movimento oggettivamente progressista, ma fuori dagli schemi nazionalisti, può essere il segnale di una questione sociale che sta emergendo sempre di più su quella nazionale.
La coalizione Junts pel Sì- unione di CDC, ERC, Moviment d’Esquerres (socialisti sovranisti) ed esponenti della società civile- nel suo programma mostra una influenza socialdemocratica molto marcata. A giudicare dagli ultimi sondaggi sulle elezioni del 27 settembre prossimo, la suddetta unione avrebbe almeno dieci seggi in meno rispetto a quelli attualmente detenuti da CiU ed ERC, mentre la CUP passerebbe da 3 a 13 seggi. La seconda e la terza formazione- secondo le stesse proiezioni- sarebbero Ciudadanos e Catalunya Sì que es Pot (unione tra Podemos e Esquerra Unida i Alternativa), mentre PP e PSC sono dati in forte calo ed in minoranza. Gli indecisi sarebbero il 26% degli aventi diritto.
Il vero avversario dell’indipendentismo catalano, dunque, non sembra essere l’unionismo o “costituzionalismo” ma il populismo. La questione si è spostata sull’indipendenza come strumento più che come valore in sé, come diritto di una collettività nazionale distinta. Una parte crescente della società catalana ritiene che l’indipendenza non sia un mezzo necessario affinché si promuovano delle politiche volte a migliorare la condizione di vita della maggior parte della popolazione; un’altra non ritiene che l’indipendenza sia una risposta giusta alla crisi ed al malaffare dei partiti di potere. Perciò, il ruolo fondamentale per l’emancipazione nazionale- dopo le elezioni del 27S- dovrà necessariamente essere svolto dalla Sinistra catalana, per la costruzione di una Repubblica indipendente che rappresenti un cambio reale rispetto allo stato di cose presenti a differenza del progetto indipendentista di Artur Mas.

 

Andrìa Pili

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