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Due parole con Tano d’Amico sulla foto del bambino di Bodrum

Lo scatto, e la pubblicazione, dell’immagine del bambino morto nel tentativo di raggiungere le isole greche dalla città turca di Bodrum sono rimaste impresse nelle menti di ognuno di noi. Un’immagine forte, che ha sicuramente provocato emozioni e permesso ai diversi attori sociali, istituzionali o meno, di sfruttare quelle stesse emozioni per perseguire i propri fini. Di questa immagine, e del potere dell’immagine in sè come dispositivo di narrazione, abbiamo brevemente chiacchierato con Tano d’Amico, straordinario narratore dei movimenti italiani dell’ultimo mezzo secolo. Qui intanto un video di un suo intervento a Bologna, durante la tre giorni di iniziative in università organizzata dal C.U.A. felsineo nella scorsa primavera. Buona lettura.

 

In una iniziativa di qualche mese fa a Bologna, esordisti dicendo che le immagini sono più forti del testo scritto, perchè nelle immagini c’è anche quello che la parola scritta tante volte non ha. Questa intervista ci è venuta in mente dopo il caso scatenato dalla fotografia del bambino morto sulla a Bodrum mentre cercava di raggiungere la Grecia? Come mai secondo te quella foto,una sola foto, è riuscita a creare più sostegno e solidarietà di centinaia di tragedie, di barconi rovesciati, di famiglie separate in anni e anni di migrazioni verso l’Europa..è solo pietismo per il fatto che si trattasse di un bambino o c’è qualcosa di piu?

In primo luogo ovviamente ci tengo a sottolineare che sono estremamente colpito dalla sofferenza per quel bambino per cui provo un amore sconfinato e una compassione enorme come per tutti quei tanti altri bambini morti in tante tragedie simili. Detto questo credo che bisogna distinguere quando osserviamo un’immagine tra l’avvenimento che vi è raffigurato e l’immagine in sé. Mi spiego meglio: l’avvenimento può essere quello più nobile, o importante, ma l’immagine che lo raffigura può essere allo stesso tempo una brutta immagine. Io non vorrei attirarmi delle ire per questa mia posizione, ma come mi accingo a spiegare, ritengo quell’immagine una brutta immagine.

Questo perchè essa non è servita a far ricordare a chi l’ha guardata le figure di tutti quei bambini che non riescono ad accedere alle cure mediche, o all’istruzione, e che prima ancora non riescono a raggiungere paesi dal tenore di vita più alto scappando dalla guerra; figure di bambini che sono sotto il nostro sguardo tutti i giorni. In Italia sappiamo che i bambini che vivono nelle case occupate non hanno diritto nemmeno al pediatra! Questa immagine non è riuscita ad allargare, a fungere come punto di partenza per moltiplicare la nostra rabbia per le condizioni in cui vivono questi bambini, ma ha avuto l’effetto di contenerla, per definirla, per concludere la nostra partecipazione emotiva. Perfino Renzi, che è l’artefice di quello scempio (il piano Casa, ndr) di cui si parlava, l’ha utilizzata come sfondo ad alcuni suoi discorsi, e questo fa capire come quella sia evidentemente una brutta immagine, un’immagine che chiude, e non che apre una finestra nuova di pensiero ed azione.

 

C’è stata molta polemica sull’utilizzare o meno l’immagine in questione sulle prime pagine dei giornali e in televisione. Come hai letto questa polemica? Tu dicevi che una bella immagine è quella che apre finestre sul mondo che uno non pensava di avere o che trovava ancora chiuse dentro di sé… Provocatoriamente, potremmo dire che quella del bambino è una “bella immagine” allora, dato che forse, per quanto cinicamente, l’ondata di indignazione scaturita alla sua vista ha però forse salvato migliaia di altre vite grazie all’attivarsi di una solidarietà transnazionale?

E’ un fatto che mi lascia molto perplesso e stranito questo moto di solidarietà avvenuto proprio adesso, quando sono anni e anni che conosciamo le storie di migliaia e migliaia di bambini che muoiono nel nostro mare Mediterraneo. Perchè uno deve aspettare una foto per muoversi? E’ come se qualcuno per mobilitarsi contro la pena di morte debba prima assistere ad una esecuzione davanti ai suoi occhi, o se per essere contro la violenza sulle donne dovesse prima essere testimone di uno stupro e così via. Se questo è successo solo adesso è forse anche perchè quell’immagine non è proprio un’immagine come dicevo che apre, che smuove un senso all’azione ma è più qualcosa che lo anestetizza, che permette di mettersi la coscienza a posto provando un senso di pietà.

Riguardo alla pubblicazione o meno dell’immagine, credo che la stampa debba essere sempre libera, e anche libera di sbagliare. Anche il male, il negativo deve essere rappresentato; quello che conta per noi è non cadere nelle trappole altrui, fare anche noi il nostro gioco senza sottostare alle narrazioni e all’utilizzo di certi modi di creare emozioni a lui funzionali da parte del nostro nemico. La battaglia sulle emozioni fornite dalle immagini, sulla loro capacità di creare movimentazione è stata una battaglia che insieme ai miei colleghi e alle mie colleghe abbiamo portato avanti per anni, consapevoli dello stesso percorso messo in campo dalla parte opposta. C’è un utilizzo spesso quasi pornografico dell’immagine, si sviluppano percorsi ed emozioni su cui bisogna necessariamente attivarsi per curvarlo dalla nostra parte.

 

Ciò fa pensare anche alla potenza che l’immagine ha ancora nel poter orientare discorsi, punti di vista, comportamenti. Nell’era di Facebook e quindi della possibilità super-amplificata di far circolare le foto attraverso la rete, possiamo dire che forse stiamo un po’ sottovalutando – a parte notevoli eccezioni – quello che è lo strumento fotografico come arma di azione sul reale?

Si è purtroppo rotto il rapporto che c’è sempre stato tra movimenti e immagini. I movimenti si stanno purtroppo appiattendo su un modo di vedere la narrazione del mondo che non è il loro e che li sta distruggendo. Io faccio ad esempio, è il mio punto di vista, sempre un discorso sulle cosiddette “primavere arabe” che – mantenendo inalterato il massimo rispetto e la massima complicità con chi si è battuto in quei contesti – si sono in parte autodistrutte con le loro stesse mani, poichè non hanno costruito una narrazione del loro mondo più avvincente di quella della controparte.

Hanno usato anche loro ad esempio tentativi di spettacolarizzazione della morte in diretta, ma non c’era una scelta delle proprie immagini, una propria narrazione. Ci si era ridotti di fatto ad essere quasi dei pali a cui erano appese le telecamere, a replicare le modalità di narrazione del nemico, non c’era una ricerca che potesse anche eludere e distruggere il meccanismo di creazione del falso. Basti pensare che nel corso di tutta la storia dell’immagine, dei film, della fotografia, ci si è sempre sottoposti a dei falsi clamorosi. Basti pensare alle immagini di Trotsky che apparivano e scomparivano nelle raffigurazioni ufficiali dell’URSS, o a come sono costruite le scene degli omicidi nei film.

 

Torna sempre la questione del posizionamento, del punto di vista..

Il ragionamento che ne discende è che ogni immagine è anche prova di come chi l’ha scattata, realizzata, ha visto il fatto che gli ha ispirato lo scatto o il disegno. Certe immagini a me sembrano più immagini da medicina legale che immagini che costruiscono vera e propria partecipazione. Per tornare alla foto da cui siamo partiti ad esempio sono completamente asportate le figure dei genitori di quel bambino, cosi come quelle delle persone a lui e a loro care, che sembrano come doversi spegnere all’esterno di quella foto, senza che abbiano possibilità di riscatto e di vendetta verso quella tragedia.

Io credo che quell’immagine sia stata acconciata e utilizzata ripetutamente anche per organizzare uno scenario politico utile non certo alla nostra parte: mi ricorda un po’ le immagini della guerra del Vietnam come quella che riguardano ad esempio My Lai. Quelle immagini furono scattate da soldati, non da giornalisti (neanche embedded), ma da soldati; quelle immagini uscirono quando serviva al governo una motivazione forte per giustificare una exit strategy da un pantano che aveva tolto la vita e decine di migliaia di giovani americani. Fu quest’ultimo infatti il motivo della ritirata dal Vietnam, non certo la compassione dei vertici politici e militari Usa per quella fotografia.

da Infoaut

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